Pantelleria Rei, diario di un’isola che trascorre

“Come lo spazio che all’improvviso s’incendia,
etere propagante dove la distruzione dei mondi
è un unico cuore che totalmente s’infiamma.” (Vicente Aleixandre)
Come bolina vertiginosa al tempo, quarantamila anni geologici lei e la vecchiaia della Terra e l’infinito delle stelle, tutta la piattaforma di roccia emersa da decine di bocche vulcaniche fa figura come un battito di ciglia appena domato.
A nord-ovest, chilometri di banchi di roccia fusa, rossa e nera, hanno assunto statura solida nell’ancor più misero abbrivio dei diecimila anni. Tempi di caverne di fuoco appena domato, di ossidiana che portava la morte in punta di freccia, il gioco sociale si dipanava, i primi egizi sognavano le piramidi, quaggiù la natura ancora dava furiosamente le carte.
Pensate tutte le retoriche mediterranee possibili, l’antica Cossira ne suggerisce ancora di impensabili.
Tutta l’isola mostra sfacciatamente le dinamiche pietrificate delle colate di lava sovrapposte. Nel rumore del vento che accompagna ogni cosa è facile cogliere il sospiro del fuoco che si versa a mare, le esplosioni disordinate, le colonne di vapore mefitico che danno l’assalto ai paradisi celesti. Dimenticatevi perciò la plebea pacificazione delle spiagge. O se avete infinita pazienza, lasciate fare al lavorio del vento, alla saggezza delle onde, ripassate lieti tra qualche altra decina di migliaia d’anni.
Cosi scriveva Eisenhower nel suo libro Crociata in Europa: «Topograficamente Pantelleria presentava ostacoli quasi spaventosi per un assalto. Molti dei nostri comandanti erano decisamente contrari all’operazione perchè un fallimento avrebbe avuto un effetto scoraggiante sul morale delle truppe.»
E’ così che ancora oggi scendere a mare somiglia all’esercizio di un equilibrista brillato di passito, i piedi si barcamenano su vecchie aguzze creste di lapilli solidificati nello slancio, e al corpo che inciampa vien paura non tanto delle relative contusioni, quanto piuttosto di venir accoltellato come in un bassofondo di Belize City, accoltellato dolcemente dalle nere unghie sguainate della dea Cossira.
Dunque l’isola attira e respinge nello stesso amorevole gesto, come certi neonati impertinenti ti instupidisce di tenerezza e poi ti spernacchia e ti sputa in faccia l’inciampo. Con lo schiaffo delle onde strozzate abbatte la spocchia degli architetti milanesi arrampicati nel punto più impervio, con i fanghi mobili del turchese lago di Venere risucchia e fa inciampare intere legioni di fiduciose carampane che sognavano il feeling di una beauty farm.
In superficie, ogni cosa appare piegata dal vento, un vento antico, testardo, che non smette, una spinta primaria inesausta che costringe gli aranci e i limoni a crescere in giardini come in stanze Borgesiane a cielo aperto, tra muri di pietra lavica alti fino a due metri; e sugli infiniti terrazzamenti scoscesi costringe le piante a subire una potatura bassa, quasi rasoterra, che fa somigliare i tralci di Zibibbo e i rami dell’ulivo a battaglioni di Marine che avanzano strisciando impavidi fin dentro le carreggiate delle strade.
E sempre il vento, la roccia, lo spigolo, l’esclusiva furia primaria d’esistere, trova sponda perfetta nelle nomenclature geografiche; le località si chiamano: Gadir, Mueggen, Khamma, Kattibuale, Kazzen, persino. E tutto questo si propaga nel carattere degli isolani, gente che t’accorgi da certi silenzi di parole mancanti quanto non ami particolarmente essere accostata al resto della sicilianità. Gente di scorza ruvida, con anima di ossidiana, asciutta e drastica come il NO secco che ricevi in un vecchio alimentari dai prodotti improbabili alla richiesta se per caso hanno pane, o come il gesto irrevocabile con cui ti viene prima proposta e poi negata l’apertura di un coscio nuovo, te ne devi andare, comunque lieto, con due etti di gambuccio sottobraccio al costo del culatello.
A piana della Ghirlanda, nella valle del Monastero, nelle verdissime conche interne dove trionfa la coltura dello squisito Zibibbo che fu migrato dai tavolieri della Mesopotamia e piantato da mani fenice, poi, come una nera Kalì in vacanza a ponente, la dea Cossira moltiplica le proprie opulente braccia paesaggistiche. E’ un niente quassù dimenticarsi il mare, così come, illusi dall’arcaica omogeneità architettonica delle sagome di pietra e dei tetti a cupola dei Dammusi rurali, aprire a suggestioni prospettiche che ricordano la Palestina dei tempi del Cristo, l’aguzzo Marocco dei berberi, le infinite pietraie senza tempo dello Yemen.
E’ talmente vasto il gioco infinito dei rimandi che fai presto a raggiungere una quiete conclusiva: ricordando tutto ciò che di primitivo e intenso hai di striscio vissuto, l’isola non somiglia a nulla, nulla che non sia il proprio ruvido carattere vivificante, metamorfico, irreplicabile.
Pantelleria Rei.
“Non avvicinarti, perchè il tuo bacio si prolunga come l’urto impossibile delle stelle”. (Vicente Aleixandre)

Una risposta a “Pantelleria Rei, diario di un’isola che trascorre

  1. Ciao Alex, bello scritto, ottima sintesi della realtà geologico-pantesca nella sua inospitale ospitalità. Bel blog, lo metto tra i miei siti consigliati.
    Abbracci

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