Suonerie di tempo immobile. In taxi tra Senegal e Guinea

Ci mettiamo tre ore per fare i trenta km che occorrono fino a M’Lomp, da dove si prende la piroga per l’Ile de Carabane. Tre ore di slalom intorno a enormi buche sull’asfalto in alcune delle quali si notano ancora chiaramente i segni delle esplosioni. Si sparava in Casamance, almeno fino a due anni fa, adesso la guerriglia si é ritirata nella regione alta del fiume, sono rimasti i posti di blocco sulla strada e sono spariti come per incanto i turisti. Il cielo é immenso, metà esatta del respiro del tuo sguardo, il cielo senza speranza, azzurro Africa, slavato di polveri sospese. Ci sono aironi che zampettano nelle pozzanghere dei campi e rondini di mare e pellicani che si tuffano dall’alto per pescare.
Sto duellando con l’idea della felicità che mi volteggia intorno sempre più stretta, perché non é facile aprire a troppi sentimenti quaggiù, le ragioni sono complesse e hanno a che fare con gli stereotipi del viaggiatore, con la realtà che semina espressioni intraducibili sui volti delle persone. Siamo pigiati, in nove, dentro una Peugeot familiare che deve aver venduto l’anima al diavolo a giudicare dalla faccia di carogna che fa, da come scricchiola tenebrosamente danzando intorno alle buche della strada, in un’ipotesi di carreggiata che si confonde continuamente con l’indistinto dei campi incolti.
Ho già preso tre craniate secche sul montante del finestrino di destra perchè sto rannicchiato nel posto numero 7, tra le gogne più efficaci della vettura. Davanti a me c’é una ragazza con una bimba di pochi mesi attaccata al collo, occhi stupefatti, immensi, due vortici nerissimi. Se non contiamo i posti di blocco che spuntano ovunque, il Peugeot si ferma almeno altre 8 volte a scaricare e caricare ceste e pacchi e ammennicoli di ogni tipo. Non si capisce bene come, ma ogni volta l’autista fa scenedere faticosamente tutte le tre file di passeggeri e li ricombina avanti dietro e in mezzo come se stesse giocando a Tetris. Se penso che fra due o tre giorni devo risalire su una macchina del tempo del genere per raggiungere Bissau in Guinea, 170 km e 8 ore più a sud, mi verrebbe voglia di correre a piedi e nudo fino al più vicino Club Med e farmi dare gli arresti domiciliari.
Intanto, in una delle mani di domino umano giocata dallo chauffeur, la ragazza madre capita in mezzo alla fila alla mia sinistra, la bimba che è stata simpatica e buonissima finora comincia a piangere disperatamente, e come fai a dirgli di no, passino pure gli scossoni, ma adesso la madre ha perso l’appoggio laterale e ondeggia come una nera canna al vento, oltre a saltare in aria per le buche ogni tanto. Senza nemmeno uno straccio di appoggio laterale…ma andate in culo tutti, sembra affermare con decisione urlatoria la bimba. Dopo un po’ si calma e comincia a distribuire pernacchie intorno, praticamente mi fa la doccia, io gli faccio ghiri-ghiri sotto il mento ma non serve a niente, lei ride qualche secondo, spernacchia, ride ancora, poi salta in aria e ricomincia a strillare più forte di prima.
Lottare con l’idea della felicità, questo si diceva, perchè non abbandonarsi semplicemente a quel che c’è, il tragitto, la scomodità, il colore della terra che placa lo sguardo. Forse è questo che mi tende e mi solleva, una cosa che non saprei bene come spiegare alle circostanze del mondo da cui provengo. M’è capitato già di viaggiare con donne e anche uomini che, per molto meno di questo frullatore apocalittico di vecchia fabbricazione francese, hanno piantato una tale foresta di recriminazioni e lagnanze isteroidi che un locale avrebbe buon diritto di chiedersi che razza di mondo sia quello occidentale firmato che capita quaggiù sulle rotte del turismo alternativo zaino in spalla.
Lungo la strada gruppi di donne in fantasie coloratissime stracariche di pacchi, con quella sorta di bandana alta che gli fa cresta sul capo e che le fa somigliare a opulente femmine-caramella, allungano un braccio di cortesia, ma il Peugeot non le degna che di un blando rallentamento distratto. Siamo già in nove, Madame, siamo africani stanchi e un europeo desolato e la strada è lunga. Questo capita tutti i giorni quaggiù, se va bene aspetti due o tre ore sotto il sole implacabile, che passi il prossimo veicolo di fortuna. Se va male, ti tieni il mal di pancia e la diarrea e le lacrime di tuo figlio che ti inzuppano la spalla, e le medicine e il medico se ne vanno nella malora di domani, e i due miseri pesci che vorresti vendere al mercato devi invece sbrigarti a mangiarli subito per evitare che puzzino troppo.
Che ore sono, signore dell’attesa, perchè è così difficile da interpretare il tempo dell’Africa, mesdames che fate gli incroci sul telaio infinito del continente nero, mesdames che portate in sul capo, in perfetto bilico, tre piani di pentole con un mucchietto di granaglie in cima senza che un solo seme vada perduto. La nostalgia e il silenzio. L’attesa che non finisce mai.
A proposito di attesa, non c’é un altra immagine che valga la sostanza dell’Africa come quella di un Masai piantato immobile in mezzo alla savana, distante un’infinità di strada da tutto.
Lo vedi dalla jeep parecchio prima di arrivargli vicino, minuscolo puntino rosso che sboccia lentamente in forma di uomo nero filiforme, immobile, l’enigma in persona, solo lo sguardo si muove per seguire la tua jeep che a 30 km l’ora sfreccia in una specie di velocità della luce se la rapoporti alla misura nuda dei suoi movimenti nell’infinito scarno ed essenziale della savana. E tu sei rapito totalmente, da non riuscire a dirlo, da vergognarti un po’, perchè se esistesse qualcosa di simile a un ordine naturale delle cose tu sai perfettamente che lui ne é in qualche maniera più prossimo di te.
Tu lontano e lui vicino, abituato a tenere buono il mastino del tempo o semplicemente a non curarsene affatto.
Chissà se la tua limitata prospettiva si rovescia nel suo sguardo, e come devi apparire tu marziano, se ti vede sfrecciare come una scia di luce desiderabile o se gli fai l’effetto di uno strano facocero nascosto malamente dietro un’ottica raffinata come quella di una Nikon.
E questa, a sentirla ricostruita di quaggiù, a mesi di distanza, é precisamente la proiezione ortogonale di un atto di pura felicità, senza lotta. L’incrocio di due mondi che a malapena si stringono sullo stesso pianeta, l’energia e la tensione, il desiderio di immergersi in vita che è altra e non t’appartiene, il lampo che ne scaturisce.
Capite perchè bisogna andare, perchè bisogna attendere, amiche mie, amici miei.

3 risposte a “Suonerie di tempo immobile. In taxi tra Senegal e Guinea

  1. “opulente femmine-caramella” questo è il tuo taglio, la parola che squarcia la tela e te la mette sotto il naso, ate (me) che te ne stai seduto in poltrona) l’immagine esatta di queste donne d’Africa.
    ciao alex, dal tiro mancino
    ml

    • e che grinta che hanno, ho passato una mattina al mercato di Dakar, seduto da una parte, a cercar di fotografarle, ti beccano sempre e non sai che urla e gesti ti tirano contro 🙂

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