La prima volta che capitai in India ero solo, giovane e impreparato. Mi ero fatto spingere da una di quelle ventate di necessità impulsiva, da un bisogno di arie nuove che non considerava come per me, forse, non fosse esattamente quello il momento della vita adatto a tracciare un percorso così fantasioso e impervio. Più in là vedremo anche le circostanze che ce lo confermano.
Se ne dicono tante sull’India, treni di piccole o grandi retoriche che scorrono nelle parole di chi c’è stato, di chi vorrebbe, di chi mai. Tutto vero e tutto falso, tutto rivelato in formato gigante, è’ questa la natura interessante del gioco. Un miliardo e centomila esseri umani in continua tensione demografica, si calcola che nel 2037 passeranno in testa alle classifiche della folla superando i cinesi stessi. Lo stato indiano, federale, riconosce ufficialmente ben 21 lingue differenti ancora largamente parlate; l’Hindi, quella nazionale ufficiale, è stata imposta dagli inglesi che stavano diventando matti, probabilmente, nel gestire il territorio. Gli stessi indiani di diverse provenienze, spesso, si capiscono meglio a parlare inglese tra di loro.
Così l’India è il tormento del turista, il luogo elettivo del viaggiatore, la fermata obbligata di chi cerca un Altrove, e anche il gigantesco supermarket dello Spirito, il formicaio della vita che si svolge sfacciatamente in strada, l’Anima a cielo aperto dove si riversano ogni giorno le truppe disordinate e impreparate del turismo di massa.
Se ne raccontano di tutti i colori sull’India, una di quelle tradizionali che girano tra gli iniziati al subcontinente è la vicenda di qualcuno cui è stato narrato di quel certo amico che gli son bastate tre ore di Bombay per decidere di non raggiungere nemmeno l’hotel, girare il taxi e tornarsene di corsa a casa. Troppo rumore, troppo traffico, troppi mendicanti, troppe malattie; i lebbrosi che t’infilano il moncherino della questua dentro il finestrino e tu non sapresti nemmeno dove mettergliela la moneta; poi c’è la sporcizia che t’assale di continuo, la confusione che ti corrompe, la burocrazia e le file che facilmente ti satollano.
La vicenda di questo povero cristo occidentale in fuga che ripaga l’intero biglietto aereo per avere l’agio di ripartirsene dopo tre ore di Bombay l’ho sentita raccontare da canadesi, inglesi, tedeschi, olandesi, indiani e, naturalmente, italiani. Quel tizio in effetti sei un po’ tu che ti affanni sul percorso, talvolta. Un po’ come quella notte che il deluxe bus da Johdpur su cui eri ospite piantò una frenata da fine del mondo che vi fece sbandare cinque o sei volte col cuore in gola lungo la buia carreggiata, al limite del ribaltamento.
Vanno come pazzi questi veicoli che connettono l’ovunque del subcontinente indiano. Nessun carretto nè animale da trasporto è escluso per legge dal transito delle carreggiate, le carcasse di ferraglia che eternano ai lati delle strade sono oscuri testimoni che te lo ricordano, e tu avevi già il limite di tolleranza che segnava riserva per una serie di contrattempi accumulati nei primi due giorni di viaggio. Un mezzo shock.
Si era pariti a mezzanotte dalla stazione di Jodhpur con la musica alta, dopo dieci minuti di statale la musica era diventata altissima, gli indiani avevano sdraiato lo schienale, s’erano rannicchiati in pose fetali e avevano assunto l’aria decisa di chi dorme seriamente. Nelle successive due ore di tragitto a velocità da Formula uno, i tuoi occhi sbarrati si erano già fatti tutta una sequela di domande.
Come se fosse giusto farsi portare in quel modo barbaro da una discoteca viaggiante dagli istinti suicidali; come se non fosse il caso almeno di andare a chiedere all’autista di abbassare un po’ il volume che ti trapanava il cervello; come se forse, invece, non fosse meglio rendersi conto che il sonoro demoniaco che urlava dagli altoparlanti era la tua unica garanzia di salvezza dai possibili colpi di sonno del driver. E che, in definitiva, eri tu l’unico a vegliare, giacchè in quei due secondi di silenzio tra canzone e canzone si sentiva un sottofondo di controfagotti russanti che pareva di stare all’Opera di New Delhi.
Non ero tranquillo, ma la considerazione del fatto che gli indiani dormissero paciosi intorno a me fu un sollievo e uno stimolo. Mi andai a sedere vicino all’autista e gustai la mia prima epifania. Così, se non sei quel povero cristo fobico che durò tre ore, questo immenso paese calato ancora dentro i milleni vivi riuscirà a confonderti e sorprenderti, spesso e volentieri.
Quando inizi a parlare di India non la finiresti più, tutto il paese pare accomodarsi naturalmente nell’arte del racconto orale. Si comincia così, da un niente, poi la folla dei ricordi ti si accalca nelle dita e preme. Un po’ come accade quando tiri fuori una Reflex davanti a un monumento. Una folla di sfaccendati capitati lì per caso si slancia per entrare all’ultimo momento nel visore della Camera che già lampeggia. Gli indiani adorano tutto ciò che somiglia a un obiettivo, foto o video che sia. Un po’ il contrario dei giapponesi che adorano starne dietro, loro pagherebbero per poter star sempre davanti, in bella orgogliosa evidenza. Sono attori nati loro ma, soprattutto, credono profondamente nel cinema, con la sincerità e la devozione che si riservano a una sacra Trimurti.
Ora si abbassa l’obiettivo, però. Preferisco le immagini chiare, il naturale manifestarsi degli eventi. C’è troppa gente che sorride, che sforza il collo e la caratura dell’espressione in questa foto. Namastè my friends, sciogliete la squadra (perchè qualcuno poi, sempre, si mette davanti accosciato, perfettamente calibrato sulle dimensioni dell’immagine), ci troviamo al prossimo scatto.
io sarò pure indulgente, ma tu scrivi coinvolgendo al punto che questa lettrice si lascia prendere dal tempo sconclusionato del racconto, dai refusi, da una virgola piantata tra soggetto e aggettivo. L’India è un mio nervo scoperto e quell’autobus che corre nella notte, quella musica a palla sono la mia mancanza di coraggio. L’idea del viaggio come un ‘capitare’, più noi in un qualche luogo che un ‘a noi’, è frasornante possibilità. Jiji
Hai ragione Ji, l’otto volante temporale è un po’ fastidioso, colpa della fretta. Ci rimetto la chiave inglese.
ciao caro. Ho ricevuto il tuo commento su facebook e sono io che ringrazio te. Sono qui per dirti che quella di facebook è una pagina e non un profilo e quindi il solo modo per interagire con un altro utente facebook è la condivisione. Oppure sono io che non so usarlo (anzi se ti risulta diversamente fammelo sapere) Volevo solo dirti questo perché penserai che non voglio “chiedere l’amicizia” o dare “like” sui link. Fammi un favore, mi scrivi un ciao sulla posta di facebook? Cosi io “ti acchiappo” e poi magari possiamo scambiarci due parole. Non riesco a mandare della posta. Sono veramente un cane. E’ che non amo molto facebook e secondo me “lui” lo sente……..!
don’t worry my friend, non saper usare bene FB denota intelligenza 😀