U.K., France, Italy. I campionari dei Culturismi da viaggio a confronto

Alle dieci di sera sono già sdraiato sul lettino a riva, il buio più completo mi circonda, un silenzio definitivo ronza nelle orecchie.

Il mare sta ritirato parecchie centinaia di metri dietro il teatro di mangrovie che mi fronteggia. Uno sciame di lucciole da non credere danza una lenta furia luminescente, nel tetto celeste stanno infilate le collezioni di stelle vive.

M’addormento così, schiavo di questo sogno che non potrò portare a casa, centellinando l’attenzione che si dilunga.

Loro sbucano a quel punto da sotto il boschetto delle mangrovie con le basse torce puntate, camminano lievi, in fila indiana sulla farina bianca della sabbia. Sfiorano il mio lettino senza turbare di un decibel il silenzio che ci ospita a quest’ora né le mie lente fasi di inabissamento felice, su quest’isola di magia, un po’ fuori dalle rotte.

La mattina facciamo colazione insieme sul tavolaccio sotto la tettoia di frasche. Io e questa famiglia inglese, una cinquantina d’anni abbondanti lui e lei, canuti, affabili e rilassati, tra i venti e i trenta la ragazza, un adolescente il ragazzo.

Ridiamo spesso, hanno il potere di far funzionare bene la scioltezza del mio inglese, gli racconto l’analogo di una famiglia italiana media che torna a piedi da Chole Bay alle undici di sera con le torce, quaranta minuti di cammino in spiaggia tra boschetti di mangrovie che ti fanno piegare il capo e sprofondare spesso e volentieri. Ridiamo forte.

La comunicazione fluisce facilmente, nessun gradino da scavalcare. Siamo solo viaggiatori, appassionati del fuori pista, del percorso che ti scansa, sempre più difficilmente, dai flash-mob rituali del turismo di massa, perciò ci siamo isolati quaggiù.

All’età in cui son sceso, mi pare di aver definitivamente sviluppato lo slancio inverso rispetto a quello del mio timido viaggiatore dei vent’anni che cercava il contatto, l’evento, il movimento coordinato dei simili. Direi che una necessaria sintesi vitale ti aiuta a smistare il superfluo, ad andare a cercare relazioni dove conti la semplicità e l’istinto, la brevità dei modi, non si ha più troppa voglia di sottoporsi ai minuetti degli schermi sociali che ci deflettono. Gli inglesi che viaggiano, mediamente, sono le persone giuste da frequentare per chi ha questa inclinazione.

Sono in partenza per il nord dell’isola, stamattina, il vero cuore selvaggio di questa zattera fortunata che galleggia beata nello smeraldo puro dell’oceano indiano. Saluto col giusto trasporto gli inglesi, prima di raccogliere lo zaino e avviarmi sulla faticosa pista di sabbia che connette alla strada locale, di sabbia pure essa ma battuta, almeno.

Per risparmiare quasi cento dollari di Jeep, che in un’ora m’avrebbe posato intatto sotto lo sconfinato palmeto di Bweni, ho trafficato con un tuk-tuk locale, che non ci ha messo molto per accettare il business. E’ stato anche sincero, saranno tre ore di buche trasmesse in stereo dalla vecchia struttura di ferro dell’arnese.

E questo è, tre ore precise in apnea cinetica, finchè non inchiodiamo l’Ape davanti a una capanna di frasche all’ingresso della località. Non so di che Yusuf bisogna chiedere, ce l’ho scritto su un fogliettaccio fornitomi alla guest house, ma dall’andatura sghimbescia dei personaggi che s’avvicinano, nel frattempo, ho come un’intuizione che sarà un po’ più difficile di quel che sembrava.

Il primo che prende la parola è un vecchietto storto e ridanciano, mono-dente, quasi un’obliteratrice in bocca, che prende tra le mani il mio bigliettino e medita, medita a lungo. Non si parla una parola di niente quaggiù, solo swaili incomprensibile. Ma mi pare alla fine alluda a un’attesa, che credo si riferisca al tizio delle capanne che cerco, Yusuf.

Cerco di parlamentare a gesti, a mozziconi di idioma, il mio interlocutore rilancia con grandi incomprensibili spiegazioni, inibendo ancora più la possibilità di leggere le circostanze.

Chi prende la parola, in questi posti, in genere detiene qualche forma di potere. Intorno a noi un palmeto sconfinato, la linea turchese del mare, sul fondo, quattro gatti in giro e io. Se non voglio tornare subito indietro col tuk-tuk, è meglio che mi affidi alle cure di quest’obliteratore felice.

E’ a questo punto che s’annuncia con adeguato rombo di motore un grosso gippone Land nuovo, in arrivo sul boulevard primitivo di Bweni. Ne scende di fretta una coppia di francesi, intorno alla quarantina d’età, esemplari nel loro oltrealpismo di finti alternativi arricchiti, si nasa lontano un miglio.

Lei, bianca bianca, per com’è vestita assai poco pragmaticamente, ricorda di vago un’inglesina vezzosa in giro per colonie all’inizio del secolo scorso. Lui, viceversa, è spettinato ad arte, vestito da frikkettone, non semplice alternativo, attenzione, ma proprio un pantaloncino lungo di cotone bucherellato dall’uso e la classica maglietta colorata, sporca, in ampi gorghi psichedelici.

Abbraccia l’obliteratore locale con foga manierista di scimmia, si conoscono già, va bene, ma poi, parlategli chiaro, era proprio così necessario gettarsi al suolo sbraitando e mimare malamente più volte una preghiera prostrata alla mussulmana per far capire cosa sono venuti a fare sti due fin quaggiù, alla fine della pista?

Vogliono le stuoie colorate intrecciate, quelle che localmente usano per le orazioni, per dormire, per far tovaglia, per ogni cosa. E ne vogliono un bel po’, in fretta, soldi alla mano, perchè devono tornare di corsa a Kilindoni porto.

La supponenza del tipo, comunque, non accenna a placarsi, giacchè in un lampo di verità intangibili, mi identifica come europeo solo, perduto, sprovveduto, con tutto il resto che enfaticamente ne conviene.

Mi chiede di dove sono ma non si sofferma sulla risposta, va via oltre, al fatto che lui l’esperienza di Bweni village “l’ha già fatta”, mi conferma che è eccezionale e mi tiene inchiodato al muro con tutto uno snocciolio di informazioni banali da backpacker (che non gli ha chiesto nessuno) tipo: costi locali, capanne locali, procacciatori locali, non-farsi-fregare locale, non posti locali dove non c’è da mangiare, da bere etc..

Vi risparmio quello che penso, il nervo che mi viene. Dico solo che a un certo punto del sermone intossicato lo blocco, gli scarico addosso due sole parole: LO SO.

Lui, è come se precipitasse dalle nuvole de la France.

Ah ma ci sei già stato, allora! Mi fa.

(No, ho solo chiesto ieri, due minuti, in giro).

Ma questo non glie lo dico, solo un secco:

SI, CI SONO GIA’ STATO 3! VOLTE.

Lui mi guarda dal profondo di una banale delusione narcisistica, la breve marea del suo interesse si ritira, le stuoie non ci sono, la sua donna scatta foto a destra e a manca come una jap imbarazzata. Tempo due minuti e risalgono sul pick-up.

Se ne vanno, lasciandosi dietro l’indifferenza del villaggio e il mio fastidio convinto, che un giorno gli dedicherà ancora una breve paginetta altrove.

Nel novero dei miei problemi più prossimi, invece, giace da un’ora, ancora intatta, la questione di dove sia finito Yusuf, di dove dormirò io e di chi sia il vero amico incaricato di costui, perchè intanto ne son spuntati almeno altri tre e tutti vogliono che io li segua per conto suo, per raggiungere la mia capanna B&B.

Qui c’è da farla breve, che ci vorrà quasi tutto il pomeriggio per districarsi tra le estenuanti secche locali (assai più dignitose, in ogni caso, dei venti minuti di Francia che ci hanno investito) e le incredibili incomprensioni che ci intralciano. Alla fine ottengo la mia capanna solitaria sulla spiaggia incredibilmente bianca e ricca di bellissime conchiglie giganti.

Quando la lunga marea si ritira, quaggiù, i nerissimi villani vanno a passeggiare sullo sconfinato bagnasciuga e pescano con le semplici mani ciò che di ittico è rimasto a boccheggiare. Le palme scaricano di loro cocchi come immobili fortezze volanti, le capanne del villaggio, poi, hanno tutte un piccolo orto dedicato, qualche pollo che razzola tra le immondizie. E nient’altro di superfluo che serva a vivere, troppa grazia già esiste nell’intorno. Persino UNA presa di corrente c’è, una sola, alla piccola moschea, dove come neonati in batteria si ricaricano una cinquantina di telefonini locali.

Il dato fornisce qualche pensiero, a considerar che i locali sono appena 200 anime, e che i ben 50 connessi finisci per incontrarli tutti la sera, quando c’è da mettersi in esilarante fila composta per salire sul piccolo montarozzo di sabbia che, per miracolo divino, è l’unico luogo dove, sforzandosi, si riesce a prendere una tacca di stramaledetto campo.

Esaurite le procedure iniziali, i tre giorni passati tra le rarefatte braccia di Bweni village sono di quei ricordi che ti si piazzano in cima alla classifica, in fondo al cuore. Come posso pensare da domani di fare a meno della famiglia-attendente che mi preparava un’incredibile cena di pesce, verdure e fantasioso dessert, con cui scambiavo magliette per ricevere puri sorrisi, e l’attenzione affettuosa della loro figlioletta ciarlante che m’apostrofava decisa: <Ehi mzungu!> (uomo bianco), del suo nugolo di ragazzini che s’era accampato, letteralmente, alla soglia del mio giardinetto, ridendo in coro a ogni genere di oggetto-movimento che trafficavo tra zaino, zainetto e taccuini vari.

Devo essergli sembrato ridicolo, dopotutto, pur nei miei specifici modi alternativi, il solito mzungu roso da invisibili frette, da una fonologia aliena, da incomprensibili procedure a carico degli strani oggetti elettronici che mi seguivano. Questo penso, mentre in piedi, nel piccolo corridoio del bus dell’alba, contendo i millimetri di spazio che non c’è alle esorbitanti mami colorate che salgono lungo il tragitto di ritorno.

A Kilindoni porto, vado ad attendere il passaggio barca per nuotare con i mansueti squali balena al Whale Shark Lodge, un resort semplice e alla mano dove stazionano varie nazionalità turistiche in attesa di imbarcarsi.

I procacciatori locali sono ragazzi tranquilli, poco insistenti, abituati alla presenza turistica moderata e defilata dell’isola. Se ne stanno stravaccati ai tavolini o sulle balconate panoramiche chiacchierando amabilmente con un gruppetto di ragazze olandesi che prendono il sole studiando le Lonelyplanet.

C’è Canada, Germania, Sudafrica, più in là in giro per il patio, età differenti ma senza che questo imponga barriere. Si chiacchiera un po’ tutti, all’occorrenza, e la sensazione generale è quella di uno star bene al mondo.

C’è anche un gruppo nostrano di qualche tour operator serio che ha occupato tre tavolini di bar, e l’aria si inspessisce subito. Saranno una quindicina, fanno ampio circolo fra di loro, spalle agli altri. Non sembrano felici, nemmeno rilassati, gli sguardi del gruppo ruotano gli uni sugli altri all’interno del cerchio, cercando appoggi di fortuna reciproca per un’ansia che mi pare abbastanza manifesta. Ed è chiaramente un’ansia sociale, di confronto.

Mentre tra me e me sorrido sotto i baffi, considerando con indulgenza che forse può dipendere dalla forma deresponsabilizzante del viaggio di gruppo, mentre valuto che, rispetto agli altri paesi occidentali, è poco che la massa italiana s’è messa a girare il mondo e forse è solo un po’ di inattitudine collettiva che li storce, dai bungalow più vicini alla terrazza si aprono i portoncini e ne sbucano fuori ben due coppie italiane che viaggiano da sole, prive dell’ombrello operator.

Sia lode a questi quattro coraggiosi, dunque, penso, mentre si nota una minima agitazione tra i ragazzi locali neri che procacciano gli affari. Hanno smesso di far chiacchiera con le olandesi, si guardano tra di loro e si accennano, niente di che.

E’ appena uscita dal bungalow la star che si nasconde tra le due coppie italiane. Una ragazza di accento piemontese, ossuta, dal viso lungo, cavallino che, ferma in bella vista a cinque metri tra la sua porta e il patio, si mette a giocare col pareo che tiene, arrotolato sui fianchi, a coprire una sorta di bikini interdentale brasiliano.

Lo scioglie e l’allunga, apre lo spacco e fa un passo a tutta coscia, lo riprende e scopre i bei glutei che da una magra trascurabile non t’aspetteresti, girandosi verso l’interno a dir due parole al compagno.

Passa un paio di minuti così, si gira e si sporge, si piega, si copre e si smutanda, ripetutamente, fino all’inguine come arricciando una ciocca al telefono col fidanzato. Lì davanti nessuno se la fila se non i quattro ragazzi di Kilindoni di cui si diceva, cui s’è scurito lo sguardo e che stanno adesso confabulando.

Lei si slaccia un lato del pezzo di sotto e si rigoverna l’assetto di chiappe, rasatura, profilo preciso di perizoma, come si farebbe tranquillamente nel chiuso di un camerino. Poi avanza seria al centro del patio senza cenno di sorriso o saluto a nessuno.

Sto per stupirmi un po’, non siamo in spiaggia e localmente sono di religione mussulmana, isolani per di più, con tradizioni antiche e persistenti. Nessun altro gira seminudo per quel bar. Poi esce dal bungalow il fidanzato, sembra uno scherzo.

Quanto lei ostenta nudità, lui appare ricoperto della mercanzia migliore che si possa mai rinvenire alla boutique del Giovane Esploratore, bandane, bandanucce e belle firme comprese. Tutto nuovo fiammante o perfettamente stirato.

Un Livingstone della domenica? Un Harrison Ford della gita fuori porta? Mettila come ti pare, fa comunque impressione il grande obice da trecento millimetri che sbilancia la reflex che tiene in mano e che lui si mette a provare-puntare in ogni angolo inutile del patio, glutei in comodato compresi. Ovunque.

Scatta.

Riscatta.

Zoomma.

Aziona il motore e mitraglia.

Che strano concetto quello della “nazionalità”, presuppone qualcosa di condiviso, di basilare che ti accomuna a un altro che non hai mai visto né frequentato prima.

Mi alzo e vado a chiedere un accendino in giro che il mio è sparito. Mi affaccio sul circolo degli italiani distaccati e uso la lingua. Si girano in due, quasi spaventati, comunque sorpresi e niente sorriso.

C’è un attimo di agitazione cinetica, mani e voci basse che si richiamano, spunta un bic usa e getta, un cenno del capo, una fiammella e un grazie, e vado via.

Gli squali m’aspettano, anche se minaccia temporale, la barca sta per partire.

Attendere oltre non si può, decido io.

5 risposte a “U.K., France, Italy. I campionari dei Culturismi da viaggio a confronto

  1. questo è attraente senza riserve. così piene di incisive di senso – non antagoniste con l’assenza d’incisivi dell’obliteratrice felice – ti porta, ti trasporta, ti riporta, come “la lunga marea che si ritira”. Accidenti. Mi formicolano le dita dalla voglia di partire, proprio ora che sta per nevicare.

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