Sono un ragazzo che viaggia da solo e ho un certo dolorino di schiena che mi preoccupa, proprio ora. Ho dei pensieri, come nuvole che s’avvicinano.
Sono appena stato inseguito furiosamente da un indianino minuscolo, vestito con una di queste divise tipiche dell’India stracariche di bordini. La divisa di una vita, ufficiale, consunta, di un piccolo addetto alle ferrovie la cui corsa da ultimo giorno mi ha suscitato un allarme e un moto di tenerezza.
Non so se avete presente la sezione rischi sanitari delle guide Lonelyplanet, la prima volta che aprite alla pagina stareste per dirvi che non viaggiate più, va bene, tanti di quegli esotismi e avventure sotto casa che non vi parrebbe proprio caso di spingervi così lontano.
Ma cosa c’entra l’indianino liso delle ferrovie.
E’ solo che lui vi riportava di gran carriera il walkman che avevate dimenticato su una panchina della stazione, e vi faceva un inchino riconsegnandovelo, uno Yes-sirr! sibilato e arrotato, carico di felicità. Nemmeno una rupia di gratitudine ha accettato, non c’è stato verso.
E voi avevate appena assistito all’allineamento cosmico di un piccolo ramo di fato disperso sulla terra, il destino di un onesto ferroviere Hindu che corre nella grazia del compito di cui ritiene il Dharma l’abbia investito, in quel preciso momento.
Tu devi spiegarti come mai i pensieri s’alternano nella coscienza con questa leggerezza schizoide.
Non è nemmeno mal di schiena, in fondo, solo la punta di un disagio vago che s’affaccia sopra l’osso sacro, ed è precisamente questo che ti fa tergiversare dentro.
Ma non ci vuoi pensare adesso.
L’elefante dipinto che ti trasporta ondeggia come un Tagadà lento sulla salita ripida. Quello che ti precede ha già contribuito generosamente alla vasta cerimonia della merda versata in strada che accomuna l’India.
Adesso starnutisce e il vento umido relativo ti investe pieno, non ci si può far nulla. Questo paese è speciale nel saturarti di ogni bene secondo disegni inaspettati.
La ragazza che sta seduta nel baldacchino che precede continua a girarsi di lato, prima a destra poi a sinistra, e a te sembra che voglia cogliere quell’angolo lontano di visuale dove ci sei appena tu che l’hai guardata, pochi minuti fa, all’imbarco elefantiaco, sulla strada che sale al forte moghul.
L’hai guardata certo, con intenzione, con una sicurezza effimera che ti veniva dal percepirla bellissima, come un paesaggio dell’alba dei tempi, messo lì in una lontananza incolmabile.
Una bellezza nuda e senza ritorno, portata da regina, due occhi senza fondo, tutto avvolto in una seta di sari carminio lavorato a filigrana d’oro, tutto l’argento del mondo a brillarle intorno al capo e al collo.
T’è sembrata sbucare da un altro universo, da una porta lì vicino, una ragazza indiana benestante, di casta bramina certamente, circondata da una triade di fratelli, probabilmente.
I nobili Rajput, suoi preziosi antenati, usavano colmarsi d’oppio prima di scendere in battaglia, così si trasformavano in macchine di una furia sanguinaria, così difesero per secoli i propri regni dall’avanzata del possente impero moghul. E così, migliaia di giovani vedove seguirono il nobile destino congiunto gettandosi sopra le alte pire di legna fiammeggiante.
Perciò la ragazza ha lo sguardo intenso e fiero, e i suoi fratelli quella severa grinta con cui l’accompagnano in gita, non perdendola di vista nemmeno un istante.
Non fa per me tutta questa poesia.
La ragazza ha cercato in qualche modo di restituirmi il suo. Si guarda per immaginare nudità e intrecci di sensi, loro provano a sentire in un bagliore come sarebbe sposarsi con te. Chissà se anche stavolta è così.
La rajput m’ha risvegliato i trascurati sensi, quello sguardo dritto su di lei che ho creduto di ostentare da una distanza di sicurezza è stato in qualche modo rapito, e io comincio a seguirla da lontano lungo i percorsi di Escher del forte caricato da una assurda urgenza, mentre lei se ne va svolazzando il sari lungo tutte le merlature acrobatiche, circondata dalla scorta dei fratelli.
Sotto la fuga di bellissime arcate traforate del salone dei ricevimenti, a un certo punto, lei si volta e mi guarda ancora, per un battito di ciglia. E’ un gesto accennato ma deciso, il cuore m’arriva quasi in gola, sterzo la mia camminata fingendo chissà cosa, continuo comunque a non perderla d’occhio.
Il mio dolore, intanto, è cresciuto fino a un livello d’allarme. Non è più una sensazione trascurabile, quel dannato sassolino che mi abita da sei mesi forse ha scelto proprio l’India per rimettersi in moto, me lo dicono gli irraggiamenti dolorosi che cominciano a lambire il nervo sciatico.
La ragazza non si vede quasi più, solo uno sfarfallio carminio nel lungo corridoio che introduce agli appartamenti privati dell’edificio. Solo di questo riesco a dispiacermi, come di una vita vissuta nella scarsità di sogni, mentre mi viene già da piegarmi in due e so che mi rimane una trentina di minuti appena prima di andar fuori uso completamente.
Ce ne vorranno dieci almeno solo per uscire dal palazzo. Poi si vedrà.
Giù dal taxi e lungo le due strette rampe di scale fino alla mia camera m’hanno dovuto portare a braccia.
Sono arrivato fin quaggiù seguendo la fuga d’identità che accompagna certe catastrofi silenziose che avvengono dentro, nella banalità di casa tua, quelle così intime che non ce la fai a comunicarle a nessuno.
Siamo nell’estrema India che fa confine a ovest, sul limite dell’ultimo deserto prima del Pakistan. Ci sono quaranta gradi abbondanti che sciolgono l’aria intorno e me, che sono partito da casa per non dare via l’ultimo fiato di vitalità nell’attesa messianica che il dannato sasso uscisse fuori.
Adesso sto rannicchiato sul letto disfatto cercando di resistere al dolore, sotto le pale del ventilatore a soffitto che sento insolitamente vicine.
La guest house è ricavata da una vecchia haveli patrizia incassata nelle magnifiche mura della città vecchia di Jaisalmer.
°°° Potete vedere le mura al tramonto nella grande immagine che fa testata a questo blog, e anche la donna che tiene l’aquilone, m’accorgo oggi, certamente è la ragazza Rajput che attraverso il non-tempo della rete è tornata per continuare la storia °°°
Il soffitto e le finestre con le gratelle decorate a stucco di questa stanza sono bassi, adatti a far conversare amabilmente sdraiate su cuscini le donne della casa, e a concedere loro il lusso di poter guardare in strada senza essere per questo notate.
Sarebbe bellissimo se non fosse tutto così definitivo e opprimente.
Mi viene da ridere persino, perchè certe volte al peggio non c’è limite. Le mie supposte di Voltaren sono più squagliate di un pupazzo di neve all’inferno. Ciò che mi tocca fare ora non è molto dignitoso ma lo faccio, non c’è altra scelta.
Piegato come sto, sguscio dalla camera e mi butto sui gradini che portano su alla terrazza, per andare dall’aiuto cuciniere a chiedergli se per cortesia mi mette una mezz’ora il Voltaren in freezer.
Lui si inchina giungendosi, esegue l’incarico con la dignità ufficiale che sembrano assumere tutti quelli che ricoprono una posizione di servizio quaggiù.
Dopo ventiquattro ore ininterrotte di questa passione che ha rasentato il delirio, le pale basse del ventilatore che oscilla mi cominciano a sembrare una brutta copia indiana de il Pozzo e il Pendolo, sotto ci sono io che sragiono, che ho fantasticato a lungo ancora sulla ragazza del forte, sul potere di quello sguardo dalla profondità insondabile.
Mi sei mancata, penso. Come se un qualche tempo ti avessi avuta davvero, un tempo distante quanto la misura incerta che ho di me adesso, abbandonato in questa stanza rovente dal soffitto schiacciato, potrei soccombere dalle malinconie di averti persa.
Così me la raccontavo, in quelle condizioni, con quel trasporto di solitudine incurabile, a Jaisalmer.
Il delirio non passa, faccio l’ultimo viaggio della speranza verso il freezer sul tetto. La sera faccio chiamare un taxi, il dolore è ancora fortissimo, mi portano davanti a una villetta col prato all’inglese, entro a casa di un medico che mi riceve come se fossi un alto dignitario di un regno amico. Si sprecano gli inchini, i convenevoli, la presentazione di caraffe di quei loro succhi colorati fatti di polverine come si usava da noi negli anni sessanta. Io resisto piegato in due, muovo quel che posso di educazione, vorrei saltargli al collo per farmi curare e basta.
Più tardi, inviato con ricetta scritta dal medico cerimonioso, finisco la mia piccola discesa agli inferi al reparto accettazione dell’ospedale di Jaisalmer, dove dovrò radunare tutte le energie residue per mettere in piedi una delle litigate più insidiose della mia vita.
L’edificio appare una costruzione coloniale inglese a piano unico, di una certa decaduta eleganza, lungo il colonnato che delimita lo spazio aperto centrale si aprono le camerate. I degenti sono buttati per terra, al massimo un telo a separarli dal nudo pavimento. L’infermiere mi vuole ricoverare per accertamenti. Io sto per dar fuori di matto.
Non ho idea di quanto possa durare questo inverecondo scazzo che fa rimbombare d’echi i corridoi sporchi e accorrere il solito manipolo di sfaccendati che si annoiano, figuranti di ogni grammo della vita che cade fuori dalle righe.
Sono venuto per una razione da cavallo di Voltaren, se pensano che mi faccia ricoverare in questo torbido Relais sono più deviati di una setta di Thugs dell’ultimo giorno, Suyodhana in testa.
Finalmente mi si capisce.
L’infermiere fa ampi gesti da camerino di Bollywood che lui se ne lava ampiamente le mani.
Aaas you like, Voveram! Esclama.
No, Voltaren. Faccio io.
Voveram! Insiste lui.
Vol-ta-ren! Che diamine.
Finchè vedo la scatola che s’appresta ad aprire: dello stesso colore, stesso simbolo, del mio stracazzo di Voltaren.
Ventiquattr’ore dopo, passato il dolore, licenziata l’avventura, poso la mia stanchezza primigenia sul sedile di un bus, quello notturno che scende fino a Udaipur. Saranno quattordici ore di cui giuro, non ricordo nulla se non lo sbuffo e lo stridio delle porte che si chiudono alla partenza, le cantilene dei piccoli venditori di chay che s’affollano sotto i finestrini sulla piazza di Udaipur.
La piccola città appare come uno di quei sottili giochi di rarefazione che la ribollente India si diverte ogni tanto a procacciare, e il carattere ha una sua specifica rivelazione cromatica tra le sfumature del Rajastan.
Quanto Jaipur è caotica e definita dal rosso vivo della pietra, così a Jodhpur, la grande tranquilla, le case del centro sono uniformemente dipinte di blu, e a Jaisalmer la sensuale, ogni cosa sonnecchia il suo destino incomunicato, avvolta nei calori gialli e ocra del deserto.
Udaipur è bianca, rarefatta, silenziosa, come la pace che sperimento dopo esser stato non certo in pericolo di vita, quanto piuttosto che mi cogliesse qualcosa di simile a un banale esaurimento nervoso.
A Udaipur sto raccogliendo i pezzi sparpagliati di un duro viaggio a cui non ero preparato, posso dirmelo qui perchè non manca molto all’imbocco della giusta via del ritorno.
Non so che aria possa io aver accumulato durante venticinque giorni di storie che m’hanno un po’ consumato e azzittito. Era quello che volevo, in fondo, gettare uno sguardo alla fine della mia notte, alla fine prossima dei vent’anni, raccontarmi cose di me che non avevo mai conosciuto per ricompattare i pezzi, essere riammesso a vivere una vita piena, che segnasse altri tracciati, ne moltiplicasse le possibilità future.
Questo è quello che so oggi.
Non so che aria posso mostrare, invece, quel pomeriggio sulla discesa per il lago, all’altezza del lastrone di cemento dove le donne di Udaipur passano la giornata sbattendo i loro panni bagnati, quando Ulrike mi affianca zoppicando e mi dice semplicemente ciao, di dove capiti.
Mi volto e mi appare questo viso denso di lentiggini, i capelli biondi lunghi spettinati. Ha una voce roca, un modo di fare e dire di una nettezza che mi disarma, una strana sensualità che mi cattura, me ne accorgo solo dopo un po’ che parliamo, tra quel che ha da dire lei e il niente ordinato che esce a me.
Ma non provo imbarazzo, sento che per qualche lontana via siamo in contatto, che mi posso abbandonare.
Mi racconta che è olandese, venuta qui da un anno e mezzo con una borsa di studio per storia delle religioni, non si decide a ripartire, sono sei mesi che vive qui spiaggiata, trattenuta nella morsa dell’indecisione, facendo poco o nulla.
Tornando da cena mi mostra il bel bastone di legno intarsiato che l’aiuta a camminare, mi dice che glie l’ha regalato il suo padrone di casa il giorno che s’è storta la caviglia, qualche settimana fa.
E’ molto antico, per quel che se ne sa viene da un orgoglioso bisnonno baffuto, la caviglia non è guarita ma non fa nulla, non se ne vuole preoccupare troppo lo stesso.
Siamo a casa sua, una stanzetta disordinata che affaccia su un bordo melmoso dove il lago ristagna. Un po’ dappertutto stanno seminati resti di spiraline per zanzare, e se ne capisce di buon anticipo il perchè.
Tiro fuori dallo zainetto l’Autan d’emergenza e glie lo regalo con una piccola buffa cerimonia e mezzo inchino.
Ci viene da ridere parecchio, per la prima volta.
Lei mi prende e mi dedica un lungo bacio, profondo e tranquillo, privo di qualsiasi fretta. Io non muovo quasi muscolo, per timore che la magia possa rompersi.
Poco dopo mi ritrovo steso su di lei. Ha la pelle bianchissima Ulrike, di quelle pelli che fanno intuire i traffici del sangue attraverso una tenue trasparenza che rivela il disegno complicato delle vene.
Entro ed esco da lei senza accelerare un attimo, con una naturalezza che mi pare di non aver mai sperimentato prima, lei sorride chiudendo gli occhi, pare sognare qualcosa di bianco come la città che discreta ci ospita omaggiandoci un po’ con le sue complicate zanzare.
Solo ora, in un rapido flashback che contiene tutti i bagliori del percorso, la fuga, la solitudine, gli incontri, i languori, la sventatezza, l’assurdo fantasma d’amore per una bramina dal sari di fuoco, gli ultimi giorni che hanno operato un taglio primitivo sull’ultima linea d’ombra, solo ora il complicato meccanismo del viaggio mi pare giustificare l’urgenza del suo presentarsi a casa, prendersi gli ultimi pensieri utili, un giorno che ogni cosa pareva sciupata, finita.
Ulrike viene dolcemente sotto di me, senza quasi che me ne accorga, viene con millimetrici sussulti, stringendo gli occhi e il viso, scombinando il disegno delicato delle sue lentiggini. Poi si addormenta come una memoria antica, buona da raccontare nei brividi delle fredde sere di pioggia.
Potrei abbandonarmi qui, tra queste braccia percorse da vene di cui non so nulla. E domani, forse, dovrò trovare una forma di giudizio assennato che mi riconsegni a me stesso.
Domani o dopo dovrò per forza tornarmene a Delhi con la solita Bollywood che mi solleva e mi sfianca attraverso gli altoparlanti dei sanguinari bus musicali.
Temo che non sopporterei di allungare queste ore fuori tempo, forse, per un languido giorno ancora.
Ho paura di venir sommerso da un’onda ingombrante di gratitudine che mi trascinerebbe ancora una volta lontano da me.
Dovrò trovare coraggio di smettere d’accarezzarla, ora, come se fosse questo l’ultimo dei giorni e io, solo una lontanissima frazione di me che testimonia in silenzio.
E andarmene stanotte stessa, forse, prima ancora che le torni tutta intera questa vita sorprendente, un po’ malinconica, che teniamo nascosta negli occhi.
Ma che bello questo Viaggio indiano a puntate…… E quanto è vero che le catastrofi interiori, quelle così intime che non ce la fai a raccontarle, sono a volte indispensabili a far grandi pulizie d’anima: allora sì che si viaggia leggeri e spediti…..
E’ molto diverso quest’episodio dal precedente. Tanto è estroverso quello, col 28 mm montato, tanto è introverso e a occhi chiusi questo. Ritorna ancora, e sembra ti sia così cara, la dualità tra donna sognata e donna reale, e ancora riesci a riunirle. Ma per quanto forte, è tema laterale: quelo centrale mi pare una specie di sgomento che non passa, una tempesta silenziosa, rallentata, che mi sgomenta, soprattutto per come ti togli i veli, tutti, fino al settimo. Mi è piaciuto assai 🙂
me lo dovevo, letteralmente.