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Il sesso affannoso e tremebondo praticato dai suoi simili l’aveva reso esausto. Parlarne poi, passarci il tempo sopra, teorizzare, empatizzare, millantare nelle concentrazioni dei corridoi di scuola e alle feste, tenendo sempre vive tre o quattro versioni della realtà commerciabile senza poterne abbracciare interamente nessuna, questo gli sembrava intollerabile.
E come fosse facile, dopotutto, averla vinta con l’adolescenza. Questo, oltremodo, gli provocava un sorriso di intima condiscendenza che dedicava alle convenienze sociali obbligate dei coetanei.
Il cinema gli era sembrato una soluzione, o anche solo un ambito dove isolarsi pacificamente per un po’ e cominciare a sciogliere il filo delle questioni urgenti che gli si imponevano al cuore.
Eserciti sconfinati di pixel erano stati trascinati giù dalla rete fin dentro l’imbuto del suo sguardo traverso. I suoi occhi, come piccoli visori appuntiti che contenevano a stento l’eccezionalità svalutata di un ordinario difetto cognitivo.
Su Geko un ricco medico sbrigativo si era espresso così: un deficit di attenzione, una tendenza, seppur apparentemente leggera, ad un esito esperienziale alessitimico, privo del vissuto emotivo adeguato al contesto.
Aveva anche precisato, correttamente, che la sindrome aveva la sua complicata classificazione, ancora incerta tra la normalità e il disturbo, e che tutto questo non pregiudicava affatto lo sviluppo intellettuale del ragazzo, anzi, da molte prospettive ne potenziava le opportunità e gli strumenti culturali, le leve per l’interpretazione della realtà.
Lui aveva finito per abbandonarsi all’epica delle trame Horror e alla nuda prassi delirante suggerita degli Snuff movies, lunghe giornate di sangue che eseguiva diligentemente come fossero un salasso liberatorio di qualcosa di sé che gli era ignoto. Poi un giorno, quasi per sbaglio, aveva visto quel filmetto stupido, al confronto, quella commediola americana che si rivela essere, oltrepassata una certa originalità di incipit, Charlie Bartlett.
Qualcosa della propria neonata coscienza di individuo si era smosso deviando, gli sembrava un fatto inaspettato e anche che facesse un rumore strano dentro, una sorta di ronzio ottuso, poco simpatico.
A tredici anni, nel terzo millennio, non solo poteva dire di averne già viste abbastanza di tutti i colori, ma aveva già operato sintesi, tratto indicazioni, succhiato slanci dal mondo ancora un po’ sfocato che lo ospitava.
Aveva chiaro, ad esempio, come la realtà che girava si fabbricasse collettivamente nelle narrazioni dei media, sulle piattezze liquide dei video; chiaro come la tradizionale regola paterna che gli veniva imposta tra le righe degli affetti familiari di un figlio unico benestante fosse un capolavoro di ipocrisia difensiva, uno spreco improvvisato da piazzisti dell’esistenza.
Discendere dalle rigidità possenti di un padre esperto bocconiano dell’alta finanza come il suo poteva apparire un vantaggio o un peso immeritato, indifferentemente, a una coscienza superficiale.
Tredici sono gli anni in cui si fabbricano le rivoluzioni, e Geko non aveva alcuna inclinazione che lo costringesse sui tracciati perduti della propria generazione. Le contraddizioni paterne, i matrimoni finiti male e quelli che si trascinano a stento, tutte le stupidaggini adulte che ricadono indietro immancabilmente nelle tasche dei figli gli sembravano orbite distanti.
Tutto questo parlare ossessivo, questo ostentare denaro, influenze, serietà, principi, induzioni di sensi di colpa, affetti condizionati, gli sembrava una brutta danza concordata da balera esistenziale. L’essenza dei balli di gruppo sono i movimenti semplici, coordinati, che danno la possibilità di esprimere una forza erotica contenuta, facilmente governabile.
Ma se lo schema è semplice e ripetitivo, non deve essere difficile aggirarlo e prenderlo alle spalle. Perciò Giacomo, o meglio Geko, come lo chiamava da sempre il padre stesso, se l’era presa col finale di quel film.
Avrebbe voluto alzarsi e andare sotto il muso consolatorio di Charlie Bartlett a dirgli quelle quattro scosse che sentiva: che fosse un ragazzino inutile, privo di attributi, che tutta la sua genialità trasgressiva avesse fatto tremare l’edificio normativo paterno per nulla, solo per rientrare a casa nel finale della storia chinando il capo da bimbominkia sotto la grotta del più banale lieto fine da consociato umano medio.
Geko non sapeva bene cosa averebbe voluto fare della propria vita, percepiva però di essere parte di una generazione iperstimolata, ricca, ambiziosa, leggermente deviata da un’ambigua deriva chimica, dagli psicofarmaci imposti agli adulti e dalle droghe suggestive che si spacciano tra i giovani. E sentiva dentro un testardo estro trasgressivo che lo rendeva sicuro di non dover sottostare ad alcuno dei banali problemi della crescita.
Sull’idea che esistesse un canone psicanalitico che governasse le anime degli uomini la sua brillante mente si era già esercitata con dovizia di letture e giovane sottigliezza, producendo per sé esiti logico-esistenziali impensabili, degni di uno degli horror salvati sul suo disco rigido.
Del mondo di Geko non si sapeva ancora molto, solo che la sua coscienza trafficava frequentemente tra gli ozi della facile popolarità di cui godeva tra i coetanei e quel vissuto di felino goffo, dal tratteggio un po’ spaurito, che si sentiva intimamente lui. La mente agile e informata operava quel piccolo miracolo d’equilibrio affilato su cui la sua anima imprevedibile si appoggiava. Tutte le nuove regole erano ancora da concepire e scrivere.
Nel frattempo, languire in una zona sospesa tra la noia e l’incertezza, con la sensazione d’aver già scostato quasi tutti i veli dal panorama dell’esistenza.
Così, vagando appuntito tra lo studio, le camere, i ripostigli, i grandi saloni da ricevimento della villa di famiglia, aveva facilmente scoperto i segreti: una Beretta semiautomatica seppellita in un cumulo ordinario di scartoffie. Con quel gioiellino smart, più adatto a un Tom Cruise penzolante da una fune che a quel professore lobbysta e occhialuto, rigidamente etico, che suo padre si sforzava di sembrare, Geko aveva già fatto fuori diverse lucertole, un certo numero di segnali stradali e un povero gatto randagio zoppicante.
Del figurino materno invece, una curatissima signora che sapeva mascherare gli anni con dovizia di strategie e un fare di nonchalance acqua e sapone che riusciva a spiazzare tutti, aveva scoperto la multipla misteriosa vita profilata in un archivio elettronico criptato.
Tutto questo non contribuiva affatto a rendere interessante l’idea che Geko s’era fatto di loro. E c’era poi sempre quella vasta zona di sé vuota definita come alessitimia, in cui vagava una deriva di geometrica stupidità anaffettiva che lo attirava e lo sconcertava, una corrente di sperpero infantile che non sempre riusciva a sovrastare con il filo teso del proprio coltello mentale.
Perciò quel pomeriggio, nell’accadere di nient’altro che una grandinata feroce di ghiaccio male arrotondato sulle grandi finestre del locale piscina, Geko si ricordò del natale, di quanto poco precisamente mancasse a quell’accadere catastrofico di bontà relative imposte al mondo.
Ed ebbe voglia di quella cosa semplice e inaspettata che sono i regali, di provare ancora quella tensione informe che ti avvolge quando a sei anni ti intrufoli sulle ripide scale di cantina perchè indovini che laggiù, seppelliti tra le ombre di domani, stanno già i pacchi di ciò che ti aspetta, in attesa di essere recapitati sotto l’albero quel preciso giorno.
Così fu ucciso Babbo Natale, quell’anno.
Con quest’aria di sciocchezza un po’ beffarda Geko se torna oggi verso le cantine sfidando un mistero diverso, quel modo di un padre come ha imparato a conoscerlo, tanto abile nel controllo di sé e del proprio tempo quanto capace di cedere a rari momenti di furia domestica. Guai a sconfiggere una delle rigide procedure stabilite con cui governa l’universo inconoscibile delle sue azioni.
Il Gioco del Mondo sbuca fuori da una piccola scatola incartata con gusto che sta seppellita in fondo a tutto.
Saranno i pollici di un tablet e una consolle-tastiera integrate in un bel design curvilineo di tono antracite. La scatola non contiene rivestimenti plastici né simboli né istruzioni né alcun tipo di accessori.
Geko solleva il game e lo avvicina a sé per osservarlo meglio.
Lo tiene qualche attimo sospeso sul cuore.
Così messo in quella posizione precedente a uno slancio, si percepisce interamente e sorride.
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Ah, e chi mi sposta da qui. Io aspetto…
🙂
felice màdam di non dover attendere da solo, che non ho ancora bene idea di dove questo serial vada a parare…intanto si serva pure il prosecco e peschi nel vaso delle noccioline, prego 😀
yum…
glomp…
grazie.
Insomma un soggettino mica male; a questo non lo freghi nemmeno col DSM-V prossimo venturo….. ho come l’impressione che al contrario, sia invece lui che ci fregherà tutti. 🙂
accattivante. soprattuto il disvelarsi d’una fabbricazione collettiva di realtà nelle affabulazioni mediatiche. “tutto questo parlare ossessivo, questo ostentare denaro, influenze, serietà, principi, induzioni di sensi di colpa, affetti condizionati, gli sembrava una brutta danza concordata da balera esistenziale”. eh, nell’ossessività dei moti dell’animo ripetitivi e prevedibili è la chiave della socializzazione al comsumo.
: )
questa frase, invece, l’ho riletta un po’ di volte e non ne vengo a capo. manca qualcosa? “Con quest’aria di sciocchezza un po’ beffarda Geko se torna oggi verso le cantine sfidando un mistero diverso, quel modo di un padre come ha imparato a conoscerlo, tanto abile nel controllo di sé e del proprio tempo quanto capace di cedere a rari momenti di furia domestica. “
gli ho dato una revisione appena, andrebbe tirata giù una seconda stesura.