I nervi sono tesi. Sono partito stamattina alle 8e30 dal Saltinho sotto la luce arrogante di un sole il cui calore mi squadra loscamente fin dentro il metro quadro d’ombra da cui vorrei farmi ora nascondere.
L’agitazione della piazza si esprime di fronte come una paradossale moviola tra cortine di calore e polvere, nessuno sembra un personaggio reale all’incrocio di Makuti.
Dai puntelli ancora visibili, qualche tronco di ciò che una volta era alberello testimonia un’antica cura evaporata. Oggi, poco prima delle quattro di pomeriggio, a ottanta chilometri scarsi dalla capitale, quelle filiformi nudità di tronchi sembrano puntellare la scena tutta, compreso quel poco di affetto assente che provo per questo che sembra l’oltretomba di un paese.
Aspettiamo tutti che qualcosa si metta in moto, realmente. I piccoli venditori d’anacardi con il negozietto chiuso in una mano, qualche improbabile funzionario con camicia a righe scure e cartella sotto braccio, molte donne cariche di ogni genere di pacchi, alcuni starnazzanti, tenuti provvisoriamente per le zampe. Una famiglia in viaggio che ha tirato su una vera casa d’emergenza con tre cartoni, un pareo stinto e una vecchia trapunta a far da pavimento, e ora si passa una mezza carcassa di avogado dove piccole dita nere ancora raspano con desiderio.
C’è stato un momento un paio d’ore fa, ero appena sbarcato sulla desolata piazza, che ho visto tutto questo circo minore di pendolari bisognosi sollevarsi faticosamente e cominciare a correre sbandando sulla destra, davanti all’unico porticato dello spiazzo, poi ancora sul lato opposto, gettando a terra e riprendendo più volte con inesausto tono tutto l’universo tascabile che li accompagna.
Due o tre vecchi furgoni si stavano muovendo, nessuno gridava Bissau, Bissau, Bissau, come quando un trasporto collettivo apre il proprio fantasioso check-in, e i furgoni stessi si avviavano con portelli e finestrini chiusi ma, in un giorno di festività nazionale, la fame di distanza colmata è una molla insindacabile quaggiù, nei meandri rarefatti della Guinea portoghese.
Ero allegro e trasognato stamattina, m’ero svegliato presto e avevo saldato colazione e conto entro le sette, per un vago fastidio che m’era venuto a pernottare nella pousada di questo sinuoso signore portoghese. Uno che non poteva proprio brillare di simpatia, a meno che non fossi venuto fin qui per esercitare l’hobby del bracconaggio. Questo appariva il tema risolutivo del luogo, a giudicare dalle foto esposte alle pareti e da quell’occhiata confabulatoria con cui m’aveva accolto ieri, da quante volte m’aveva già ricordato i prezzi di noleggio delle sue preziose jeep.
Volevo liberarmi di un errore, una complicata escursione di due giorni che avevo progettato per trascorrere i giorni in attesa che il battello si muovesse tra gli inusuali estri delle maree, alla volta delle isole Bijagos.
Ho sempre pensato alle maree come a eventi quotidiani, non immaginavo esistesse un’acqua marina bi-settimanale. In effetti ero tornato in momenti diversi della giornata a scrutare la gettata di fanghiglia giallastra che fin sotto i pontili malmessi si stendeva a partire dall’orizzonte. Le grandi piroghe da pesca mezze seppellite nello sconfinato pantano, la lugubre sagoma di ferraglie arrugginite di un porto che chiudeva la baia, non si riusciva a trovare un angolo che sollevasse lo sguardo, che desse un po’ di fiato all’anima, in quella fatiscente capitale di una neonata nazione trentenne.
Al consolato di Roma, ospitato in una stanzetta di un’altra ambasciata africana, un modesto funzionario m’aveva rassicurato, quasi scusandosi: girare il paese non presentava alcun reale problema, solo l’anno prima c’era stato un golpe militare, ma non s’era sparato tanto, avevano solo deposto il vecchio presidente ubriacone. Nessun reale problema, quindi, a ribadire il concetto.
Il problema non è affatto reale, infatti, nessuno m’ha dato fastidio quaggiù, ed è proprio questo il punto, le persone sembrano come vivere un’esistenza retrocessa, un po’ silenziosa e sfumata, e le cose intorno procedono in uno sfacelo trattenuto, quasi disorientato, opera delle dimenticanze dell’uomo e della natura. Il problema, se ce ne fosse uno, sarebbe filosofico.
Se c’è un motivo valido per arrivare fin quaggiù, in una realtà africana moribonda, laterale, che non gode nemmeno dei casuali riflettori di qualche sporadica indignazione occidentale. A poche centinaia di chilometri da qui, in Liberia e Sierra Leone per citare un esempio, si continuano ad addestrare i bambini soldato. Periodicamente una memoria ci raggiunge, lasciandoci un brivido, mai nulla di questo paese.
Nella onirica Bissau, lunghe file di cittadini intorpiditi occupano il marciapiede divelto che dà accesso all’unico internet point della città. La fila più corta serve a prenotare la visita alla Rete, quella più lunga ad attendere che i collegati presenti finiscano di sforare la loro finestra temporale dedicata e lascino libera di nuovo la postazione.
Si sopravvive come ovunque, nel terzo e quarto mondo. La vita si sposta altrove, restano a casa i cimiteri delle presenze, le mani protese, le ricevute dei pochi denari che viaggiano da banco a banco, le file interminabili che riconnettono gli affetti scomodamente ma a prezzo ragionevole, tra server e server.
Solo dieci paesi al mondo producono meno pro capite della Guinea Bissau. I trasporti pubblici non esistono, la gente si organizza con ciò che di marciante gli riesce di trovare lungo il percorso. Nell’anticamera di nessun cervello appare un concetto alieno come quello del turismo, nessuno si cura della mia presenza, non ci sono mendicanti in giro ma parecchi ne hanno il dolorante aspetto.
Non c’è nemmeno il sorriso della semplicità spontanea, cammino nel centro di vuote strade polverose come all’oscuro di ognuno. Il senso del viaggio mi appare e mi sfugge continuamente e non potrà che saltar fuori tra qualche settimana, quando in una lontananza recuperata il comodo della memoria l’avrà vinta sul fastidio che mi prende deciso.
Sono in moto da sette ore e sto ancora rintanato nella stesura esorcizzante di un taccuino, nel calore svaporato di un’ombra sulla piazza di Makuti.
E siamo tutti in attesa che qualche primitivo mezzo di locomozione si muova perchè si possa contendere la corsa e l’assalto collettivo di uomini e pacchi a un posto in quella ancora ignota strettoia sudata e semovente che dovrà riportarci vivi a Bissau.
1-continua
hai reso benissimo l’idea di un mondo arreso, con corollario di “esistenza retrocessa” e di senso del viaggio che (insieme ad altri sensi) appare e sfugge continuamente.
come nota di perplessità, invece, direi l’anteposizione dell’aggettivo (“desolata piazza”, “inesausto tono”, “inusuali estri”, “vuote strade”) che stanno benissimo in una poesia di carducci, ma qui non so.
attendo il prosieguo.
prendo nota, lieto di ritrovarla malos.
Eh, sì, mi raccomando, il prosiieguo…. Buon Natale, aeroplanino
Ehi ma davvero sei in Guinea portoghese? Che bello!!! E bella anche la descrizione
No Frensis, magari, sono memorie del 2004 che ho riscritto oggi.