Viaggio al termine del Turismo – [Bassi della Guinea portoghese (III)]

La cura con cui spolveriamo le nostre rigide importanze, l’incomprensione che ci lega alle ragioni dei torti e delle riparazioni, indifferentemente. E’ questo, l’off-shore intangibile dei paradisi privati, i modi da predicatore che usiamo per spiegare i nostri motivi al mondo.

Non è una malattia mortale la nostra e non è nemmeno un fatto trascurabile. Perciò la realtà, è meglio ci colpisca di soppiatto, all’improvviso, quando deve. Il brivido della scarsità ha il potere di riportarci in vita pienamente.

E’ proprio questo il vento fastidioso che vado sollevando e rovistando.

E’ desolatamente fioca la mattina di Bissau, figlia di una luce pallida, sgranata dalla polvere che cospira con l’umidità salmastra sospesa nell’aria. Il calore velenoso del mezzogiorno è una preoccupazione ancora distante.

Un maestro elementare con i vestiti seminati di macchie, improbabile come un figurante di scena preso da vicino, ha scambiato le sue due parole di raro inglese con me poco fa, mentre facevo la colazione di guerra che sembrava quella piccola omelette col pane rifatto e il caffè allungato all’inverosimile.

Parlano un incomprensibile portoghese gutturale quaggiù, lui s’è sentito in dovere di spiegarmi qualcosa della sua nazione, e m’ha parlato della carestia, a gesti più che altro, facendomi venire il dilemma se non mi stesse per caso chiedendo una mancia in cambio di quel difficile dialogo tra mimi.

Pare che l’esportazione degli anacardi sia la chiave di volta di tutta l’economia guineana, e che l’anno precedente una terribile invasione di locuste abbia pasteggiato col raccolto riducendo a puttane il già tremebondo paese.

Sono arrivato quaggiù perchè ho ceduto a un istinto di fuga, non ho ben presente la direzione che sto seguendo, voglio escludere il più possibile le ragioni del quotidiano, l’obbligo conseguente, gli ammortizzatori estetici che distanziano dal canale di scolo che la vita diventa, certe volte.

Sarà per questo che il nostro breve dialogo non ha un futuro, nemmeno immediato. Il maestro se ne va senza insistere, scuotendo leggermente il capo per un vago dispiacere, ed è anche il primo deciso segno che una qualche vita di relazione esiste in questa che pare essere una città di fameliche assenze. La mia si è aggiunta in corsa, sgusciando tra le more di una deriva differente.

Il mese scorso, il mio datore di lavoro ha accolto il mio ritorno in ufficio a consulenza conclusa e m’ha detto che non si poteva aspettare che il prossimo cliente si facesse avanti con una nuova commessa. Era bene che io mi appropriassi, nel frattempo, di tutti i giorni di ferie che avevo maturato nell’anno.

Ci penso ancora, ci ho pensato un centinaio di volte già da quando sono partito, senza trovare un capo né una coda.

Il battello in partenza tra un’ora per le isole Bijagos non si vede ancora. Mentre procedo lentamente sul pontile del molo scrutando un velo di mare che va ricoprendo la fanghiglia ancora visibile a chiazze, mi accorgo che il natante è invece già insediato agli ormeggi. Solo che infiacchisce la sua pittoresca ferraglia un paio di metri sotto, ancora, rispetto a un’ipotetica linea di galleggiamento.

Le mie vacanze beffa, finanziate con ciò che avrei dovuto trattenere in prossimità di un lavoro che si eclissa, buttano lo zaino a terra e ci si mettono a sedere contro, su un molo secondario del porto di Bissau.

Cominciano ad arrivare le donne, l’unica testimonianza diffusa che l’Africa è viva, malgrado tutto. Viene issata una scaletta di ferro, poggiata sul gradone del dislivello tra il piccolo Ferry e il pontile. Come possano fare queste tre ampie donne a scendere i gradini stretti e ripidi dell’imbarco senza mandare al diavolo i tre piani di ceste che tengono in equilibrio sul capo è un mistero.

Eppure ci riescono, ridendo, mostrando una insospettabile grazia cinetica.

Nell’ora successiva, il miracolo di un battello arrugginito che si solleva levitando sull’onda che finalmente degna il golfo di una presenza, assiste al solito fantasioso stipaggio di uomini e merci, il tutto operato con dovizia di equilibrismi sulla scaletta-passerella che cambia inclinazione velocemente.

Siamo partiti alla fine, dopo un’altra ora di attesa che le secche si diradassero, nel costante clima di incertezza che accompagna i fenomeni in questo paese.

Il vento leggero mi solleva un po’, c’è un sorriso trattenuto nelle facce di tutti, il mare ci ha preso sotto la sua infinita giurisdizione, ci ha staccato dal fango immobile di Bissau e sta indicando alla diversità di ognuno i fondati motivi di salvezza che recano le isole. Bisogna crederci.

Siamo una cinquantina di locali, un capitano di nazione creola che nell’aspetto ricorda un tigrotto di Salgari e cinque occidentali, nel dettaglio: due francesi pallidi, due australiani ben piantati armati di surf e la mia voglia di deriva solitaria.

I delfini ci affiancano appena fuori dalla baia. Aspetto che l’acqua assuma i toni dell’azzurro ma i fondali rimangono bassi, il mare torbido e marroncino. Le isole Bijagos sono considerate un paradiso della biodiversità naturale secondo solo a quello delle Galapagos, la maggior parte sono piattaforme disabitate, totalmente sconosciute al turismo per via delle oggettive difficoltà di navigazione della zona, per l’assenza di strutture ricettive e anche per quella che continua a mostrarsi come una sgradevole colorazione del mare.

Il capitano Chiquinho esce dallo sgabuzzino di pilotaggio ogni cinque minuti per sondare con una pertica la portata utile del fondale. Si inginocchia a prua e batte con la mano aperta sul bordo dello scafo urlando incitamenti o chissà cos’altro ai delfini che non ci perdono di vista. Poi torna nello sgabuzzino e tira fuori una chitarra, comincia ad arpeggiare.

E’ ammirevole nel manubrio ostentato di quei baffoni ottocenteschi, la tuta sporca del grasso dei motori e la pelle olivastra del viso tutta raggrinzita dalla militanza esistenziale dell’uomo di mare, mentre si sente investito della responsabilità di tirar su il morale della ciurma dei passeggeri, oltre quella di recarli a destinazione.

C’è tempo di fare due chiacchiere, Chiquinho parla una parola di ogni lingua, non provo nemmeno a chiedergli da dove venga, come abbia scelto di suonare la chitarra e il timone sui bassi fondali impervi di questo grande golfo che racchiude le lontananze divergenti, il non voler apparire luogo a pieno diritto, nessun orizzonte né obbligo, il motivo segreto suggerito dai desolati set che la Guinea allestisce come sfondo.

Mi parla dei portoghesi, della grande nazione che avevano edificato, la cultura che avevano introdotto, la speranza che si erano portati via. Lo lascio parlare, in effetti non sembra appartenere al tempo diacronico della terra, piuttosto alla sospensione dei giorni di cui vivono i marinai, a una romantica visione del mondo stratificata per genti, inclinazioni, destini, aliena ai politicismi complessi dei popoli di terra.

Uno dei due francesi ci scruta ogni tanto, come aveva scrutato periodicamente me dall’inizio della traversata. Strana coppia loro due, entrambe dotati di quelle pelli diafane che l’Africa riduce al motivo di uno spalmarsi continuo di misture solari protettive.

Uno rilassato con modi morbidi, l’altro con sguardo infossato, una reattività cinetica rasente il paranoico. L’avevo osservati un paio di volte all’imbarco, curioso dell’antitesi fisica e modale che li sottolineava, certo non per sondare il verso delle loro inclinazioni sessuali.

Non so quanto il magro paranoico della coppia l’abbia inteso, tuttavia.

Sbarchiamo a Bubaque che è ormai buio, scarsissimi lumi a petrolio aiutano a dare un senso al piccolo paese sparpagliato che ci ingoia, alla strada che c’è da fare a piedi per raggiungere la mia guest house.

Inciampo e cado un paio di volte nel buio pesto di un sentiero di sabbia, nemmeno la fioca torcia che m’è rimasta serve a tanto. Comunque arrivo, mi danno un piccolo bungalow vicino al bordo di un terrapieno, il rumore del mare arriva leggero e distinto.

Mi metto fuori su una sedia e mi preparo a passare tutta la notte che riuscirò senza cadere addormentato. L’aver abbandonato terra ha placato un po’ i miei pensieri, quel circuito di risultanze in perdita che la capitale e l’inutile, labirintica escursione al Saltinho s’erano divertite a foraggiare nei giorni precedenti.

Il paradiso delle Bijagos è pressochè intangibile per la totale assenza di informazioni e supporti turistici. Le barche a motore dei locali fanno prezzi per americani sbarcati da yacht senza conoscere nemmeno bene la geografia di dove siano andati a finire.

Mi si parano davanti tre giorni scarsi di meditazione priva di qualsiasi scopo.

Mi troverò solo in un paio di baie selvagge, con il solito mare torbido che non invita esattamente al bagno liberatorio. E anche la densa vita sottomarina che si avverte sulla pelle, il sentirsi sfiorati da un fitto popolo di pesci che ogni tanto saltano fuori oltre la superficie, non invita.

Penserò che sono arrivato al capolinea di un viaggio al termine del Turismo. Il paradiso è qui, perfettamente indifferente, e io ne sono clamorosamente fuori. Non posso noleggiare il sogno, non posso fare snorkeling e nemmeno chiacchierare sornionamente con alcun beach boy a caccia di dollari.

Solo il francese paranoico del battello appare a un certo punto dietro una macchia lontana di complicate mangrovie, ma è un istante, rimango in una pace rarefatta e sfuggente, con la sensazione che finalmente, fosse proprio questo sospendere ogni cosa a margine di un’assenza ingiustificata che andavo cercando per sciacquare un po’ di buio.

Tutti gli sguardi persi, le occhiate radenti, i muri decomposti.

Tutta quest’ombra sociale che è più fitta dell’oscuro di me.

Una polvere non detta a scomporre il filo delle labbra, e gli incresciosi stratagemmi dell’attesa, il preavviso dei malumori che evaporano lasciando campo al vuoto.

E ogni cosa così come si mostra, carica delle deviazioni necessarie, spinta all’infuori che accade, insensibile.

La geometria sregolata di ciò che sopravvive, poi da ultimo.              

6 risposte a “Viaggio al termine del Turismo – [Bassi della Guinea portoghese (III)]

  1. Il Viaggio è osmosi tra l’esterno che si impone alla vista e l’interno che d’improvviso si espone, è un sogno che ci reinterpreta, e tu riesci a rendere perfettamente l’idea. Narrare che si sbilancia tra il raccontare e il raccontarsi, cosa non facile e poco scontata 🙂

  2. ritrovo qui qualcosa che nei precedenti episodi mi è parso in sordina, un riflesso caro, che là dove mancava faceva cupa la tua aria. sarà il brivido della scarsità, che, come dici, t’illumina (e, di riflesso, ci illumina) o lo sguardo che hai posato oltre. v.

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