In effetti, la faccia che mette su è proprio quella di una qualche faina immobilizzata che incroci coi fari mentre sei in giro con la macchina per una Wilderness notturna in una riserva su per i monti.
Occhi, figura e lineamenti in cui si è appena quietato un istinto di fuga, un nervosismo latente da preda pubblica, esposta alla curiosità passionale di qualsiasi squilibrato lettore di romanzi che capiti a tiro.
Se sei un autore famoso, benché schivo, te lo dovresti aspettare in qualsiasi momento, venendo allo scoperto nel traffico rumoreggiante flagellato di mezzi gesti sospesi in una montatura di gente a sfondo, uscendo entrando dalle sale cinematografiche in centro, di sera, o qualcosa del genere, come forse scriverebbe lui stesso.
C’è che gli squilibrati eravamo noi, quella sera, davanti al cinema Mignon, e lui l’autore che ci pandemizzava il cervello letterario: il bell’Andrea De Carlo che dalla stampa si è sempre fatto intervistare col contagocce.
Lui ci è sincronicamente apparso accanto a un motorino parcheggiato di traverso che la sua ganza Eleonora Giorgi cercava di smontare dal cavalletto in tutta fretta, vista la mala parata.
Noi eravamo messi lì in anni che l’adolescenza ci sfumava addosso, attardandosi come un acquazzone tropicale in un paese in via di sviluppo.
Uscivamo allegretti in quel periodo, io ed Elisa di Casal Bruciato, grande anima ipersensibile in occhio ceruleo, maniaca di romanzi. Ci smerciavano storie come fossimo pifferai magici della piazza di Marrakesh.
Avevamo modi che tagliavano corto sulle possibilità di fermarsi a stare in due per giocare a Coppia, così accettavamo con trasporto anche gli slanci saltuari, l’impossibilità di raggiungersi in fondo, i fatterelli di boheme come corse sugli arenili vicino Roma e fuoco di sterpi, salsicce, amorazzo e sabbia dentro i pantaloni per qualche giorno e film esistenzialeggianti alla sera, in qualche cinema del centro, appunto.
Ora De Carlo mi guarda di tre quarti e di sfuggita, mentre gli schizzo incontro tutto invasato senza nemmeno sapere bene che accidenti di cosa gli dirò, e per quale ontologico motivo, soprattutto, mi accingo a disturbare il suo anonimato da santone di libreria.
La scena ha una qualità notevole di densità percettiva. De Carlo cincischia con qualche atteggiamento di falsa noncuranza del tipo: piedino a tamburello, grattatina nasale, alzatina di occhio di pesce, poi si sposta rapidamente sull’altro lato del marciapiede parandosi dietro la Giorgi che pedivella energicamente il motorino.
Io faccio un altro mezzo giro di campo e gli sono di fronte, mentre vedo con la coda dell’occhio l’Elisa ferma sul posto che si gira di spalle per timidezza o per vergogna.
Lui non può più scappare, questa è la verità, lui di cui immaginavi frasi e dinamiche e respiri e tutto il resto. Perciò di fatto, nel tuo lampo allucinato, è come se lo avessi già rapito, come se lo avessi trascinato con te nel privato fino ad ammanettarlo fisicamente ai montanti della libreria, dove lo hai mangiato pezzo a pezzo, un pochino alla volta ogni giorno, per paura che si consumasse troppo in fretta.
Ecco, con questa faccia da Hannibal ti stai presentando, proprio così.
Lui davvero s’irrigidisce tutto e monta un sorriso falsissimo dentro cui baluginano strani coltelli affilati.
Qualcosa deve aver capito, e forse crede pure d’essere un qualche John Lennon sul marciapiede del Plaza in un drammatico 8 dicembre, forse ha solo sonno o fame o le sue cose di celebrità mentre io non saprei, nel senso che alla fine allungo una mano che lui si guarda bene dallo stringere, e non trovo di meglio che uscirmene col più stolido degli:
“Andrea De Carlo..!?”
Che cazzo di domande, non voglio l’autografo, che diavolo ne so che voglio veramente, forse solo vaneggiare che ho avuto abbastanza anch’io le mie Cecilia Chailly da rincorrere nelle nebbie dell’agro pontino ed era come a Milano, bella città di merda Milano, De Carlo, bel palcoscenico post-moderno che ti affigge le scene al cuore in un riverbero cubista inafferrabile e svenevole alle tre del pomeriggio di un griggennaio che è già notte.
Allora lui, che cosa glie ne potrebbe fregare anche se, attrezzatura mimica da paraculo, mi fa: “Bè allora, hai visto il film? …Bello, eh? T’è piaciuto il film…??”.
Mentre la Giorgi che intanto è riuscita ad avviare il cinquantino se la ride sotto i baffi calcandosi uno zuccottino di lana colorato sulla capoccia bionda,
e io faccia da fesso, e loro di corsa via, più veloci della luce.
Succede questo e poco altro, per la verità, succedono un sacco di anni in cui il bell’Andrea se la spassa riverseggiando se stesso fino alla paranoia dei sensi, srotolando le sue frasi ridondanti e le sue palpitazioni sfrizzate fin dentro veri e propri rutti letterari del tipo di: Pura Vita, un libro che ha fatto da zeppa per il mio PC infilato di traverso nello scaffale basso della libreria, finché non l’ho terminato a resa in un negozietto dell’usato.
C’è che ’altra sera ho finito di leggere quasi in un fiato: Giro di Vento, l’ultima cosa pubblicata che ho atteso prudentemente di veder uscire in economica prima di accingermi all’acquisto.
E che dire, mi si è stretto un po’ il cuore, che la storia invece non è male, al di là delle caratterizzazioni dei personaggi un po’ stereotipate, tutto stretto in una vicenda abbastanza avvincente che si giova almeno di una solida unità di tempo e luogo.
E mi son tornati in mente gli anni in cui il De Carlo tagliava in due il gruppo di quelli che avevano il vizio della lettura: di qua coloro che ne santificavano lo stile personale, la cifra visivo-panoramica, le spettacolari sequenze cardiache che allarmavano le pagine, di là gli scettici che tendevano a dargli del fighetto superficiale, rivolto a narrare quel poco di affari propri che lo coinvolgevano.
E m’è tornata in mente la sottile Elisa dai seni pallidi che sorride in fiamma cerulea, o sul più bello di un mezzo attacco di panico, o cinguettante qualcuna delle storie delle sue amiche disastrate, di suo padre elefante senza nemmeno i cristalli, o meglio ancora ribaltata fremente sul muschio umido nei boschi tra il Lazio e l’Abruzzo, una volta che facemmo l’amore d’inverno sotto i faggi spogliati, tremando come fachiri sull’orlo di una trance antartica.
Gli anni in cui vivevamo di percussioni sensoriali prive di domani, di Tecniche di Seduzione che rimanevano mistero.
E accidenti, De Carlo.
Ora che è tanto che t’ho liberato dal giogo letterario posso anche dirtelo, infine: certo che m’era piaciuto il film, quella sera.
Ma ti pare fossero cose da chiedersi.
allora confesso anch’io, Due di due e Tecniche di seduzione mi incontrarono nel momento perfetto, talmente perfetto che li ho letti e poi lasciati lì, in un vecchio appartamento. libri così non bisogna mai rileggerli, sono perfetti in un istante, e nel successivo non lo sono più
io lo seguii un po’ di più, Yucatan, Arcodamore e Uto compresi.
Vero, la targa anni 80 e 90 non si può nascondere. Eppure, lui rimane ammirevole per non essersi mai mischiato con l’ambientaccio letterario italiano, credo caso unico di “intellettuale” nostrano che si licenziò polemicamente dal comitato truffaldino del premio Strega.
Bei racconti scrivi tu, a presto
A
🙂
“Eppure, lui rimane ammirevole per non essersi mai mischiato con l’ambientaccio letterario italiano”
vero (almeno in parte, il suo non essere presente credo fosse strategico).
però, anche, chissenefotte. Ci sono scrittori americani puttane fino all’inverosimile che hanno scritto pagine splendide. e autori eticamente fantastici che non sanno mettere due righe una via l’altra.
Arcodamore finì nel cassonetto davanti alla GS di via Tevere, nel 2003.
Per il resto, al De Carlo degli esordi: chapeau (casa mia trabocca dei suoi libri). Ultimamente mi fa quasi ribrezzo.
🙂
occhio che quando non funziona la posta di via Yser vengo sotto da te…:-) t’avessi beccato quella volta lo recuperavo subito io, amore mio Arcodamore 🙂
Diciamolo: il Deca “inventò” una cifra di scrittura.
ma che film avevate visto ?
non me lo ricordo, qualcosa mi dice i fratelli Dardenne, il tipo di mood congeniale alla pallida Elisa.
Ho visto in libreria Villa Metaphora già al 25% di sconto……
A me De Carlo ha sempre fatto impressione. Mi era piaciuto uccelli da gabbia e da voliera. Poi, con amici, una sera provammo a mischiare i personaggi dei suoi romanzi, creando una storia. Credo che, in fondo, sia anche la sua tecnica. Io credo che De Carlo sia uno scrittore dimenticabile. Più difficile è dimenticare gli anni in cui si leggeva de-carlo.
mah…qui siamo in italia, però, gli scrittori americani sono un altro pianeta, e anche l’ultima tradizione letteraria nazionale veramente viva.
Come temi posso esser d’accordo con te, lui ha raccontato alcune cose italiane degli anni 80 e 90, non è che si sia sforzato molto. Ma quello che non consideri, invece, è la “tecnica di scrittura”. Lui aveva uno stile personale e inconfondibile, che ha fatto scuola. In Italia, la “scrittura sensoriale” l’ha introdotta lui, così come una certa tecnica visiva di narrare (straordinariamente bene) le scene collettive.
Io non amo la riconoscibilità di uno scrittore. Credo nell’annullamento a favore storia. Ma è discorso compelsso e difficilmente affrontabile via blog.
E qual era il film? Adoro come scrivi.
son passati vent’anni, non me lo ricordo 🙂
grazie, fanno piacere i tuoi complimenti sempre, un abbraccio
sto leggendo Uccelli da gabbia e da voliera, ma non lo trovo entusiasmante. tanti gesti descritti senza un motivo preciso…