Un’alba sanguinosa di settembre, nello Yucatan

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Sono le 5 e 20 della mattina quando scendiamo dal bus ancora con gli occhi sigillati dal sonno sullo spiazzo polveroso della stazione di Palenque.

La sensazione precisa che ho è di una spalla più leggera, la spalla che tiene lo zainetto a mano.

Sono circa quattrocento dollari che hanno preso il volo insieme alla mia Yashica col cannone tele già montato, di questo sono consapevole di lì a poco appena l’adrenalina mi dà la giusta scossa del risveglio.

Per tutta la giornata in cui stiamo entrando, il Messico decide di rimangiarsi le nuvole, di mostrarci il grugno brutto del viaggio, l’attesa quattro ore sotto il sole per fare una denuncia inutile a una poliziotta ignorante e incazzata, la camera d’albergo che non troviamo, la Western Union cui ci presentiamo come rifugiati per chiedere informazioni, la litigata epocale con la mia compagna di viaggio, tutta la sugna di una vicenda d’amore trascorso che si dà appuntamento quel giorno di merda in mezzo alla foresta immacolata del Chapas.


Di preciso è il 3 settembre, andiamo avanti a girare la regione per amore della bellezza naturale che ci avvolge, come due amici affettuosi che hanno rimandato i funerali a data da destinarsi.

Siamo comunque di ritorno a Tulum per il 10 del mese, con una certa fretta che ci fa voltare su finestrini diversi.

Lei guarda i campi su cui le donne piegano l’anima fino a spezzarsi, io del resto è come se ringraziassi la foresta di essere così vergine da non presentare altro che assenza, confusione di verdi agli occhi che vorrei bassi, come si conviene alle cerimonie solitarie e sbrigative, come abbiamo di fatto convenuto con Francesca.

Ciò cui aneliamo, ognuno nel chiuso di sé, è soltanto passare un’ultima notte nel bungalow di canne da 80 dollari, con la veranda attraversata dall’amaca, col baldacchino e le maschere tribali alle pareti, su una delle tre spiagge del mondo su cui volentieri avremmo vissuto per sempre, più o meno fino all’altro ieri.

Questo ci è dato oggi, senza la Yashica imbarazzante a immortalare nulla, per non aver sorprese nei cassetti del futuro.


Succede questo e poco altro ancora.

Ovvero che all’alba dell’undici settembre, fuso orario di Cancun, Yucatan, apro un occhio dal profondo del sonno e vedo tutto il rosso dell’aurora fondere intorno alla piccola finestra del bungalow verso mare. Penso: che irripetibile meraviglia, laggiù. Peccato sprecarla in un letto di salme affettive quali questo viaggio ci ha drasticamente ridotto.

Poi mi chiedo come mai mi son svegliato così, per pochi secondi appena, prima di riaddormentarmi secco verso eternità che non mi competono.


Alle 10 della mattina siamo già sul bus, pronti a sorbire le silenziose tre ore che ci recapiteranno all’aeroporto di Cancun.

L’autista guida con una mano e con l’altra sintonizza e regola il volume della radio, per tutto il tragitto.

Il mio scarso spagnolo mi fa capire appena che è successo un bel casino da qualche parte, forse negli Stati Uniti. Francesca ne sa parecchio di più, ma non è di alcun aiuto.

Forse vorrebbe ammazzarmi, o forse ammazzarsi, lei che è una passiva-aggressiva.

Io ondeggio tra voler sapere e dormicchiare e fottermene, sono già entrato in stato di animazione sospesa da ritorno lungo e fastidioso.

Intorno a me i messicani sembrano tutti cattivi e imperscrutabili e annoiati, come in un western di serie B.


Il volo per Roma, via Miami e Parigi, tarderà per 14 ore il decollo.

Miami scalo si fotte, viene architettata una rotta lunga a sud, verso l’Africa.

La mia ex piange allacciandosi la cintura, ci hanno detto solo che ci sono stati due gravi attentati a NY, che lo spazio aereo è chiuso, ce lo hanno detto con delle facce che avrei voluto farvi vedere, e lei s’è messa a piangere, non si capisce più di cosa, se di noi, se degli attentati, se della cattiva sorte del suo mondo da riedificare.

Dovrei rassicurarla, anche solo per amicizia residua, ma ormai è tutto troppo maledettamente ambiguo, vorrei prendere un po’ tutti, capitano e hostess e la mia ex e mia madre persino, ma che cazzo succede, vorrei chiedergli a brutto muso, ecco.

E naturalmente riusciamo a litigare anche su questo.


Solo a Parigi, un numero pazzesco di ore di dormiveglia scomodo dopo, mentre cerco di sgranchirmi le gambe spezzate camminando veloce sotto le arcate da odissea nello spazio dello Charles de Gaulle, compro le Figarò a un chiosco e mi appoggio da una parte per non cadermene giù di peso.

Era intorno alle 9 della mattina quando il primo aereo s’infilò nella prima torre, se non vado errato.

Mi metto subito a fare i calcoli di fuso e trovo la coincidenza, tremo: ora so perchè qualcuno o qualcosa m’ha fatto aprìre quell’inconsueto occhio poco prima dell’alba, sulla meravigliosa spiaggia di Tulum.


Ripensavo a questo proprio oggi, mentre camminavo per Roma duellando con il tempo che scappa e altri vicende minori.

Ho visto Zero Dark Thirty, ieri sera, la storia della fantomatica cattura di Bin Laden.

Si può definire “datato” un film del genere?

Si, è concesso. Perchè questa è l’impressione forte che ho avuto.

Il mondo non sarà più come prima, dicevamo il 12 settembre, con fosche grinte da Nostradamus, tutti.

In realtà, Francesca s’è rifidanzata di recente, finalmente, dopo un boato di lunghi anni di mezzo.

Io penso che tutto questo è già memoria di memoria, non so, l’odore è quello chiuso da museo.

Penso così e aggiungo un misto di formaggi grattuggiati, la guerra non mi preoccupa più, pensate che culo.

Adesso gli spaghetti scusate, sono quasi dieci anni che Francesca non la sento più, e il messico è sempre il messico, per carità. Dire fare baciare lettera e testamento.

Ieri compravo i datterini per il sugo al mercato, c’era una coppia di vecchietti storti che si tenevano per mano, chini su un cumulo di frutta e verdura gettate di lato, in stato avanzato di semimarciume.

Comunque in cucina sono bravo, provate a smentirmi, se ci riuscite.

12 risposte a “Un’alba sanguinosa di settembre, nello Yucatan

  1. E quanto sei bravo a raccontare, srotoli gli anni girando quella pasta.
    Memoria di memoria che si accumula, come la polvere sulla storia che mette a tacere i dolori, eccheperò lascia uno spiraglio al nuovo.

  2. per smentirti bisognerebbe assaggiare 🙂 ma da quello che metti sul piatto, c’è da crederti sulla parola. Non sono molto eraclitea, m’incaponisco sempre sul sasso deviante, ma faccio sempre caso al fatto che per ogni strage, attentato, terremoto, noi si abbia un pacchetto di ricordi (a quell’ora ero lì, facevo questo, dicevo quello) che circoscrivono il planetario al punto esatto, il collettivo all’individuale, come a cercarci il centro. Io ricordo lo sgomento e la paura di non sapere da che parte stare. Che sia stato o meno spartiacque, quello che scrivi nelle cinque righe prima di leccarti le dita, danno il senso di dove le acque sono sfociate. Almeno per ora. A parte la fortuna dei cuochi sensitivi.

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