La città indolente ti viene intorno camminando di sbieco, naso insù, fiutandoti appena.
Avanzi contro il vento sabbioso delle tre di pomeriggio che solleva le tende sulle misere soglie di casa, come se scherzasse tra le gambe della vecchia negra, nel suo ampio vestito giallino da caramella stropicciata.
Il vento che fa strizzare gli occhi, mostra tutta la nudità della vita provvisoria. La vecchia dorme come un arazzo crollato all’angolo del vicolo su una sedia che chiede pietà.
La città rognosa si gratta con una zampa posteriore, la vedi di fronte a te e pensi subito che non sarà facile, che è sporca e piena di malattie.
Sta appiattita al suolo in un rosario di polvere rossa, non capisce dove di preciso dove vorresti arrivare tu, e se anche lo sapesse non riuscirebbe a spiegartelo e forse, in definitiva, non la interessi affatto.
La città non si sveglia facilmente, la città è un non-luogo, non atto a procedere.
A ogni angolo ti sembra di sentire qualcosa di pesante che si rigira nel sonno. Provi ad ascoltare ma non capisci da dove possa venire, sono suoni di striscio, echi di ovatta che alludono a un etere inspiegabile, che maschera e ottunde.
Un non-luogo, a pensarci bene, non è il contrario di un luogo, non lo trovi se rovesci la manica, non t’aspetta dall’altra parte dello specchio.
Un non-luogo non è vuoto e non è deserto, non ti concede meno punti di riferimento di un luogo, solo che sono tutti spostati rispetto al dove in cui tu ti preparavi a incontrarli.
Adesso la città ha 4 anni appena, il naso che gli cola, non mangia caramelle da una vita, cosa vuoi che gli interessi se tutto se ne va per vicoli della malora e tu con la fanfara in testa, questa è la verità.
Così la città preferisce tenersi a debita distanza come un cane un gatto un topo, un uomo dalla pelle scura e dalle ossa storpiate, irrimediabilmente rotte.
Il porto invece è a soli due isolati di distanza, esattamente di fronte al luogo dove hai appena chiesto indicazioni.
Un incubo fascinoso e leggero che ti corrompe, se hai l’abitudine e il piacere a farti corrompere dalla decadenza degli oggetti, un incubo di polvere e fango e ruggine, una catastrofe silenziosissima che ti si offre con la grazia dei senza tempo, degli oltre pena.
Hai sentito parlare di Bissau, West Africa, capitale della Guinea portoghese e del suo vecchio porto fantasma da un pescatore della Casamance.
Che ci vai a fare in un posto del genere, ti aveva chiesto, rivolgendosi più che altro all’acqua fangosa in cui teneva la lenza, alla foce del grande fiume.
Una città è come una donna o come il tempo, si aggira a lato delle nostre sensazioni, si sposta in noi come colpi di vento strozzati da un vicolo. Una città interpreta la lucentezza primaria delle cose, le metaforizza, le sostiene e le deforma mentre precipitano nel rovinoso cono d’ombra del tempo.
Ma questo l’hai inventato adesso, lì per lì non hai saputo rispondere e lui non era nemmeno un pescatore, forse un tassista o il boy di una guest house o la tua guida personale che traccia la febbre di un percorso dal fondo chiuso di una tasca interiore.
Sono sette le navi affondate che abitano il porto di Bissau.
Come vecchie balene in malora le trovi che prendono il sole piegate mollemente su un fianco, legate l’una all’altra in mezzo a un altare di fango.
Le navi prendono l’acqua della lunga marea, quando è il tempo, e senza fretta e senza pena la trasformano sapientemente in ruggine.
Guardi il cielo che si vuota in un crepuscolo giallognolo di polvere, il sole come una moneta fuori corso vicino al collo spezzato di una gru che si prende mezzo skyline sopra i vecchi cantieri e un applauso da te che non credevi.
Pensi alle cose che vanno in malora, alle mura rosicchiate, alla gente che ci dorme contro in mezzo al pomeriggio pieno, alle quattro mercedes tenute su con lo sputo e molta fantasia che fanno su e giù tra il mercato alto e il porto coloniale in basso.
Non si riesce davvero a immaginare come tutto potesse essere animato quando il tempo era quello giusto, per navigare, per commerciare, per costruire una città, per abitarla.
Le cose che vanno in malora, se le guardi bene, se sei capace di smettere la prevedibile identificazione salvifica dell’uomo bianco, le cose in effetti non hanno mai avuto un aspetto migliore di come appaiono oggi, avvolte dal silenzio, dall’attrito privo di scintille, dalla smorfia maestosa del tempo trascorso.
Bissau come certi angoli di Roma, come i vecchi quartieri industriali dimessi di Detroit, come i complessi archeologici e i depositi e le stazioni abbandonate lungo le strade di ogni mondo non inducono a riflettere sul passato, piuttosto ti proiettano profeticamente nel futuro, ti illustrano gentilmente la dinamica, il destino d’entropia delle cose sottoposte al governo del tempo.
Adesso, se avessi voglia di buttarla sul lirico, metterei giù un arabesco del genere: La dignità delle rovine è presa continuamente a schiaffi dalla paura della morte che abita il cuore affannato degli uomini.
Ma la città ti è definitivamente salita sulle spalle e mangia noccioline e pesa, puzza anche un po’, e tu la voglia proprio non riesci a trovarla.
Ti manca qualcosa da bere piuttosto, che i passi alla fine si son fatti pesanti.
Passeggiare per questa città è come procedere sprofondando, avete presente quei sogni in cui desiderate muovervi, avete l’urgenza di procedere, persino, ma le vostre gambe sono molli come gomme americane sull’asfalto bollente, e una leggera ansia comincia a impossessarsi di voi.
Vai a sederti al bar più probabile di Bissau, in Praça Che Guevara.
In mano le pagine che riportano le parole di Camilo Josè Vergara, un fotografo che sostiene la necessità di recintare le rovine industriali delle città, di farle diventare veri e propri parchi di “rovine mature” intorno a cui le città possano continuare naturalmente a svilupparsi, a testimonianza di un’estetica inattaccabile e poco considerata che allude al passaggio invalicabile del tempo, ai processi di metamorfosi insiti nella natura degli oggetti, al moltiplicarsi delle prospettive verticali possibili per semplice giustapposizione architettonica.
E pensi che se tutto questo si potesse realizzare, quaggiù a Bissau, bisognerebbe fare di tutto per salvare lo spessore di lunaticità che sghembra le facce della gente che abita il vecchio centro coloniale portoghese.
Ma ancora di più, nel nostro caso, occorrerebbe tenere sotto teca l’incredibile contrasto che cementa la scena di uomini e rovine e polvere.
Dai molti sguardi in ogni direzione intorno a te, sguardi che non riescono a stare insieme in un disegno, come un puzzle difettato che non si ricompone affatto, come lo giri lo giri.
Sui tavolini intorno si affollano quella quindicina di europei che lavorano per le ONG nei progetti di cooperazione.
Dagli scatti leggeri con cui sollevano in aria gli aperitivi, dalla furia che mettono nel trangugiare le noccioline, dalle facce appiattite come la terra prima di Colombo o crollate su se stesse o ancora, vivaci come quelle di un clown un po’ esagitato, capisci che tipo di abisso le separa dalla tranquilla deviazione dei locali.
A voce alta, a voce altissima si chiamano e sorridono e dichiarano enfaticamente le carte in qualche gioco di scale provvisorie.
La cameriera scura fa un mezzo gesto di scusa e ti indica un unico tavolo possibile occupato da un francese con una camicia hawaiana che grida vendetta.
Bien, facciamo due chiacchere, obrigado.
Saluti cortesemente e ti siedi, almeno un minuto o due, forse, poi la tristezza specifica di questa comunissima faccia d’oltralpe ti morde la coscienza.
E’ così che ti rialzi improvvisamente in piedi.
S’è fatto tardi davvero, au revoir, mon ami.
Nel rotolo delle allucinazioni che scolano per i canaletti sporchi giù dai marciapiedi, raccogli i pensieri buoni e ti accorgi chiaramente che si tratta di lei.
Lei in divisa bianca lerciata dal ketchup e dalla polvere che si posa ovunque, lei che distribuisce nervosamente i Martini Dry.
Si tratta di una certa paura, delle sue ardite flatulenze di peste.
Se vuoi, il timore che una qualche forma di corruzione o morte profonda li abbia colti nel pieno della loro realizzazione professionale, quaggiù in Africa.
E’ solo lei, questa paura mortifera che nulla valga, in fondo, che spinge ognuno ai margini invisibili della cornice umana.
I venditori di ammennicoli, simili a statue di mogano invalicabili, presidiano senza sosta il perimetro esterno del bar.
I taxi Mercedes barriscono inutilmente a caccia di clienti, mentre girano ossessivamente l’ovale della polverosa piazza.
Una puttana giovane, raffinata e molto carina, si aggira sorridendo tra i tavolini cercando di scacciare la morte volatile dalle spalle crollate degli europei.
Ti dai un ultimo sguardo intorno e stai quasi per sorridere di rimando, vivaddio, perché no.
Si tratterebbe solo di cooperazione bilaterale, in fondo.
West Africa, Bissau, 14 febbraio 2004, ore 16,10.
E’ ora di rimettersi in viaggio.
Ho creduto fosse Roma… fino a quando non ho letto Bissau. Ed è ancora Roma, Grazie Liz.
felice di vederti passar di qui, tra le nobili rovine del mondo 🙂
grazie a te
le città hanno bisogno di etica, non di estetica. quelle europee, perfino le grandi capitali, con le aiuole davanti a ogni municipio dove troneggia la data odierna fatta di piantine fiorite, non stanno meglio. e non è il tempo che le assedia (il tempo con le pietre è galantuomo). le rovine, con buona pace di John Ruskin, siamo noi. IMO.
Sissignora…agli ordini, compagno Ji 😀
concordo con Jihan: prima di etica e poi di dignità, più che di estetica. Ho letto e l’ansia mi è venuta. Sei riuscito a portarmici dentro.
grazie a te, amico mio, di esserti fatto trascinare.
Stai proprio dentro a quello che vedi e questo è molto bello. E’ una caratteristica dei bravi fotografi, nonché di chi ha qualcosa da raccontare dopo aver “vissuto” dentro qualcosa.
Un reportage denso, crudo, vero.
Un piacere leggerti. 🙂
Grazie cara, non credo d’aver mai potuto fare altrimenti.
La vita di un Sagittario introverso è un po’ un casino fino grossomodo a metà, poi diventa improvvisamente una pacchia, interno ed esterno fusi nel medesimo calderone e via, più veloci della luce. 🙂
è un piacere leggerti. regali le scene riportando ogni dettaglio, odori compresi. il non-luogo attraversato dall’uomo, senza mai essere abitato, è sempre uguale, in ogni territorio.
grazie adi, vero, e dalle tue parti ne sapete dolorosamente molto.
siamo maestri, meriteremmo un premio. per prendermi cura di questi posti, qui, mi sono fermata.
una volta, mi piacerebbe che mi raccontassi meglio.
poesia, nient’altro che poesia con le sue spine e tutto quel fiore o città o come vuoi che prima non c’era e adesso c’è.
baci
belle parole tue, grazie
baci
Ti faccio i miei complimenti. Ottima padronanza della scrittura e, soprattutto, la cosa più importante…cittadino del mondo. Non è facile esserlo.
grazie Tina, non è facile ed è un po’ scomodo, ma la passione per il viaggio aiuta come ben sai 🙂
Vero. Appena ti entra sotto pelle non te ne liberi più…ed è difficile da spiegare agli altri.
Quindi, essendo sagittario, quando finalmente inizierà la pacchia saprò di essere arrivato a metà della mia vita. Bene.
Per ora mostriamo rispetto per la solitudine, per il tempo che passa sopra alle 7 navi affondate nel porto di Bissau, per i saluti che si raccolgono da persone sconosciute al mercato Bandim, per i viaggi che ispirano poesia. Anche il mio tempo a Bissau è terminato, si riparte.