Quei tuoi speciali disordini di piazza (Landscape three)

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Con quale scatto di destrezza lui si permette di tagliare il traffico in diagonale sulla grande piazza della basilica, alle otto e mezzo del mattino, e accostare la macchina sul lato del bar, in doppia fila, pochi metri prima dell’incrocio.

Poi dà un ultimo colpo d’acceleratore, innesca le luci d’emergenza e scende di fretta senza infilare il giaccone, come se tutto fosse normale, come se si trattasse di controllare una botta al parafango, una di quelle da saldare lì per lì, soldi in mano e amici come prima.

Si darebbero un bacio sulla guancia proprio così, schiacciati sulla sporcizia della carrozzeria dal traffico che li sfiora a scatti, innervosito dalla brusca supponenza della manovra.

Si darebbero un bacio ma non se lo danno.

Lui guidava sciolto sentendo un pezzo jazz di quelli ostinati, tre note scarne all’infinito che si avvitano nelle ossa e niente pensieri.

Lei si sta pentendo di averlo riconosciuto, o almeno poteva tirare dritto, evitare di cedere alla tentazione di chiamarlo con gli abbaglianti.

Pensa anche al gioco del destino, ci va di lato, per un solo pudico istante.

Si dicono ciao con la stessa smorfia sulle labbra, due forme di vapore che si mischiano a metà strada.

Decidono svelti per una colazione nel bar all’angolo.

Lui si infila nella coda alla cassa, si affanna per non farsi superare da un paio di doppipetti sbucati di lato, sbuffa un po’ e saetta gli occhi.

Ordina un caffè doppio e un latte macchiato e due cornetti.

Prende anche due pacchetti di sigarette Lights, paga, si gira, poi ci ripensa e aggiunge qualche moneta per un bacio perugina.

Non doversi rifare la faccia allo specchio tutte le sante mattine, ecco. Non dover combattere con la barba e le ragioni e gli slanci da trovare.

C’è forse un motivo migliore di questi per lasciarsi appassire?

Chissà se lei lo sa, adesso, mentre scorre chinandosi leggermente la vetrina delle paste con gli occhi incerti, una punta di lingua in evidenza tra le labbra, proprio come una dannata bambina.

Chissà se si nota, dall’imbarazzo con cui lei si gira più volte a cercare la figura di lui oltre il viavai di gente che occupa la sala, se si nota che lei ha un gorgo, un gorgo nello stomaco.

Il barista le ha chiesto semplicemente lo scontrino e lei è arrossita, si è schiarita la voce cavernosa, si è data della stupida.

Ci ha messo un attimo a riconsiderare tutta la vita orgogliosa che ha speso negli ultimi tre mesi, a giudicarla inutile e sprecata.

Lui ricompare vicino alle sue spalle, posa lo scontrino sul bancone, si solleva leggermente sulla punta dei piedi per scegliere il cornetto e poi ricade, fa un paio di respiri innocenti all’altezza del suo orecchio.

Lui qualche giorno fa ha sciolto gli schizzi di calcare accumulati sul cristallo del bagno, ha lucidato la cornice cromata col prodotto giusto e spazzato sotto il letto, dietro il divano.

Lui ha trovato delle cose e le ha messe in una scatola da scarpe, sotto il lavandino.
Adesso le dice frasi brevi di nessun conto, la fa scivolare tra la gente verso il banco dei cappuccini tenendola per un braccio.

Si girano fronte a fronte e si guardano un po’ così, a piccoli cauti sorsi. Lei sente le guance sciogliersi, sente che non riesce a comandare nessuna mimica, perciò si ordina di tenere gli occhi fissi nei suoi.

A lui sfugge un sorriso, si vede le mani impegnate dal cornetto e dal cioccolatino. Mette allora il bacio sul banco, molto vicino al gomito poggiato di lei.

Si parlano con locuzioni spezzate, sette otto parole senza punteggiatura. Lui si muove a scatti senza un ordine preciso, solo l’intenzione di rimanere in superficie con qualche complimento leggero.

Anche il Bacio, almeno crede, deve segnalare la fine delle ostilità, ma da una distanza che non è affatto sicuro di aver messo, né che lei abbia colto.

Poi mordono i cornetti, sbriciolandoli con lo stesso spunto di tensione.

Si voltano verso il barista perché sembra ormai evidente che manca il cappuccino, a anche piatto e cucchiaino.

Il ragazzo del banco è fermo con le tazze in mano, il mento sollevato, gli occhi stretti.

Loro seguono il filo dello sguardo fino alla vetrina sulla sinistra e poi fuori nella larga piazza che li guarda. Il bar in mezzo s’è quasi svuotato, arrivano rumori di folla e percussioni attutite.

Si avvicinano insieme alla vetrina e vedono una fila di vigili che si è messa tra l’incrocio e il viale che scende costeggiando la basilica.

Lei ondeggia la testa, dice: ahi.

E anche che sta arrivando la manifestazione, che se non escono di corsa rischiano di rimanere bloccati per chissà quanto tempo.

Lui va a sbattere su un ricordo, mentre beve il cappuccino freddo in un unico sorso e butta il resto del cornetto nel cestino dei rifiuti.

Lui l’ha sollevata e portata in braccio giù da una scalinata in Sudamerica. Lei tratteneva le lacrime, ma la botta era stata forte. Avevano chiesto un passaggio ed erano tornati in albergo, nel letto alle quattro di pomeriggio a tirarsi le lenzuola, a ridere di quel suo strano incedere maestoso di gran sacerdote precolombiano.

Dicono grazie e arrivederci.

Lei ha già le chiavi in mano mentre fanno scattare l’automatismo della porta a vetri.

Fuori l’aria è agitata dai fischietti e dai tamburi, lui si ferma e accende una sigaretta riparandosi dal vento.

Lei gli va vicino, affonda nel suo sguardo con una direzione precisa, un gesto da chirurgo navigato.

Gli toglie le briciole dal petto della giacca, stringe un angolo di labbra e lo bacia sulla guancia attraversando la forma di fumo scoccata dalla sua bocca.

Poi va via girando una mezza piroetta sul cofano della macchina. Mette in moto e parte verso l’ultimo vigile della fila che sta per bloccare il flusso del traffico.

Lui si appoggia a un vecchio muro su strati di cartelloni pubblicitari increspati di onde.

Finisce la sigaretta, la getta sotto di sé e la calpesta due volte, senza riuscire minimamente a spegnerla.

Il rumore dei fischietti è fortissimo, anche l’ultimo vigile dopo aver sistemato l’ultima transenna s’è tolto il cappello, ha passato una mano tra i capelli.

Adesso se ne viene lentamente verso il bar.

Sembra che non ci sia proprio nulla da fare, e non è chiaro esattamente per quanto diavolo di tempo.

23 risposte a “Quei tuoi speciali disordini di piazza (Landscape three)

  1. Ma che bella cosa ho ho letto! Complimenti sei proprio bravo. Non c’è solo il distacco ma tutto quello che spesso ognuno di noi ha provato fi fronte ad esso. Ci sono i non detti che parlano ancora di più.( Unico neo per me quella fastidiosa interlinea che spezza la lettura)

    • Grazie Blanca, benvenuta, è un piacere, da una bella penna come la tua. L’interlinea a me funziona al contrario, mi trovo meglio a leggere i testi non troppo “densi”, forse sono solo un po’ astigmatico 😀

  2. questo è il tuo mood che preferisco. accidenti, è mercurio sfuggito a un termometro.
    e anche sta pagina, quando la apri ha un font, se passi sul testo col cursore, il font cambia. miracoli da pippi calzelunghe. (e stamattina wp non mi riconosce, perfetto)

  3. un ritmo sincopato (quello del racconto) per descrivere un’umanità sincopata (lui, lei, il ragazzo del bar, i vigili).
    anche il finale che non è un finale è perfetto.
    apprezzato tanto. 🙂

    p.s.: ascoltare jazz mentre si guida è pericoloso. la mente va da un’altra parte e il guidatore pure.

    • non son proprio d’accordo sai, per me i weather report sono stati la migliore anfetamina che m’ha guidato nei miei duri anni di traffico. è peggio il Prog, distrae di più, e per me la radio non va bene, mi fanno incazzare le pubblicità 🙂 ci devo scrivere una cosa su.

      • io, invece, non riesco ad ascoltare musica se sto facendo altro. la musica mi porta sempre via..
        in macchina ascolto radio2, programmi tipo “Il ruggito del coniglio” oppure “610 (sei uno zero).. e rido da sola!!
        🙂

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