Quante sono le volte che si nasce al mondo: una certamente è la seconda, avviene di solito in un punto imprecisato tra l’infanzia e la pre-adolescenza quando uno speciale lampo di vita ci rivela la prima croce del sentirsi distinto, la prima vera ipotesi fuori dal cerchio di fuoco eterodiretto in cui è prosperata l’infanzia, tutta quella processione accorata di genitori e fratelli e famiglia estesa, scuola, parrocchia, piscina, pulcini del tennis e giovani marmotte del cazzo.
Io me la ricordo ancora come se fosse oggi quella notte magica, era da poco passata la mezzanotte, il resto dei miei era già infilato sotto le coperte, io avevo dodici anni e scoprivo una nuova attitudine a fare tardi, a rimanere solo a fantasticare nel buio del piano terra. Temevo che in effetti, al piano superiore, all’uscita della scala sul ballatoio, ci fossero gli extraterrestri, piccoli e fluorescenti, che mi aspettavano per rapirmi.
Così mi attardavo nel bagno di servizio, nello stupore di uno scalino biologico che si preparava a sconvolgermi la vita senza che io ne sapessi niente, le avvisaglie avevano l’aspetto letterale della paura di altri mondi, e io avevo preso a divorare giornate intere recludendomi dentro le letture delle mie interminabili saghe di fantascienza.
Certe volte, a rievocare la mia seconda nascita, mi vien da pensare che devo tutto a Emilio Salgari, a Jack Vance e Robert Sheckley e Asimov, a Silverberg, Farmer e Dick, ma forse soprattutto alla musica con la Emme che scoprii nella melodia lunare di -Breathe- che s’insinuava nell’anima dalla finestrella semiaperta del bagno, poco dopo la mezzanotte. Una vettura sportiva con lo stereo altissimo faceva manovra per liberarsi della strada senza uscita su cui abitavamo. Fu come un missile che mi colpì nel vivo addormentato, e io crebbi di colpo in una notte.
Breathe, breathe in the air.
Don’t be afraid to care
Leave but don’t leave me
Look around and choose your own ground
Tutto ciò che poteva per la prima volta emozionarmi fece manovra dentro di me in parallelo, rapendomi per sempre. Così attraverso la musica la mia paura fu realizzata e smascherata. So solo che me ne andai a letto con un groppo di emozione solida che mi stupefaceva e con la consapevolezza che ero rimasto solo con un unico desiderio: poter riascoltare quella dannata musica, tuffarmi nell’esperienza di quel rapimento alieno che prospettava paesaggi di universi moltiplicati, poter non scendere mai più dalla selvaggia sella del brivido puro che m’aveva scapigliato.
Ho avuto la fortuna di scoprire la magia delle note nei primi anni Settanta, del perchè quella musica fosse una circostanza irripetibile non stiamo nemmeno a dire, chi l’ha vissuta se lo ricorda bene. Tutta la giostra del mondo che cambiava era trascinata nelle liturgie del Rock, ed era semplicemente impensabile poter ascoltare quella musica rimanendo uguali a se stessi.
Non andai molto avanti nella vita, negli anni successivi, se non nella perseveranza con cui studiavo la libreria e l’immensa cesta di musicassette che mio fratello maggiore strappava alle mitologie degli anni correnti.
Successe che ebbi la rogna di un’adolescenza inibita, solitaria, consegnata alle sbarre di una timidezza un po’ patologica. Poco poterono gli anni Settanta con me che non fosse aprirmi le segrete quinte di un teatro privato, le ombrose circostanze di una vita parallela che spaccava il mondo silenzioso, scavando le risposte necessarie attraverso il muto sentimento della musica. Potevo ascoltare i dodici drammatici minuti di A Saucerful of Secrets la mattina prima di andare a scuola e trovare un motivo, persino un fascino, nello scivolare lungo l’ombra del muro di cinta della mia giornata attingendo a chissà quali fialette di segreti mi sembrava di essere depositario.
Chiaro che del veicolo Rock fu la costola Progressive a scegliermi, naturalmente, la più introversa e indecifrabile della fiera.
Voi siete lo spettacolo.
Iniziamo con: Tu fai il cavallo a dondolo, io faccio il pazzo.
Prenderemo in giro il toro scampanellando ovunque.
Venite. Con un colpo di giro del mondo andiamo.
Seguiteci. Finché l’oro sarà freddo.
Danzando con il cavaliere illuminato dalla luna.
Immaginare come riuscissi a transitare indenne sotto il tiro incrociato delle grandi tette precoci di Laura, vicino ai fianchi esageratamente femminili di Alessandra, in mezzo al profumo naturale che spandeva il lungo drappeggio nero dei capelli di Monica, constatando che il passaggio del mio corpo esterno aveva ai loro occhi la consistenza di un movimento d’aria leggera, ai limiti del percepibile. Come avrei potuto fare senza quel rombo interiore dei Genesis che non smetteva mai di suonarmi in fondo alla coscienza.
Il cammino è chiaro
Sebbene nessun occhio possa vedere
Il corso tracciato molto tempo fa.
E così con dei e uomini
Le pecore rimangono nel loro recinto
Sebbene molte volte hanno visto il modo di andarsene.
Così una parte di me mandava in giro il Golem del proprio corpo lungo le insipide giornate, un’altra parte trionfava all’oscuro di tutto, beveva senza cognizione la vita incredibile che sgorgava dai flauti e dai versi simbolisti di Peter Gabriel, dal lirismo della chitarra di Steve Hackett, dalle mille chiese della memoria che si aprivano fra le illuminate tastiere di Tony Banks.
Così si diventa facilmente uno spirito racchiuso in un carillon, una ninfa trasformata in lago, il panorama precoce di una società che si sgretola sotto i colpi dei Brand selvaggi che l’accecano, del tempo che a furia di macinare rovine finirà per riprendersi tutto. Vendendo l’Inghilterra by the pound.
Cavalca maestoso
Passa case di uomini
Che non fanno caso oppure fissano con gioia
Per vedere là riflessi
Gli alberi, il cielo, i bei lillà
La scena di morte si stende appena sotto.
Le sabbie del tempo sono state erose
Dal fiume di costante cambiamento.
Ascolto ancora oggi con una certa frequenza Selling England by the Pound, davvero è l’unica traccia musicale che porterò con me il giorno che ci toccherà di evacuare questo esausto pianeta che ci ospita. E dopotutto fu grazie all’esperienza di Selling England che usciva sulle mie labbra che si svolse la prima conversazione di una certa cazzuta consistenza con una ragazza.
Era già qualche anno che meditavo solitario intorno a Firth or Fifth e The Cinema show, così sa dio solo cosa riuscii a dirle di nostalgie di vite non vissute, di estasi armoniche, di quel travolgente, lungo assolo di tastiere che ti fa scorrere tutta la vita davanti e prepara il finale dell’Ellepi, e sembra allora che cali il Giorno del Giudizio recitato dalla roca disperazione della voce di Peter Gabriel, e quando tutto è finito, poi, ci sono istanti solidi in cui senti che qualcosa t’ha lasciato definitivamente e non riesci più ad alzarti dalla sedia.
Torna indietro nel tempo con padre Tiresia
Ancora il vecchio che racconta di tutto quello che ha vissuto
Sono stato ovunque, per me non c’è mistero
Quando ero uomo, come il mare mi infuriavo
Quando ero donna, come la terra regalavo.
In realtà, c’è più terra che mare.
Certe volte la grazia divina che ci folgora spinge il limite umano verso la distruzione. Gli anni Settanta sono seminati di costellazioni bruciate, ai Genesis toccò la consunzione degli eletti, la maniacalità con cui l’anima inquieta di Peter Gabriel costringeva il gruppo a dodici ore di sala di incisione al giorno, ha generato la perfezione inarrivabile di un Selling England, l’ultimo fuoco creativo di quel magnifico doppio allucinato, imperfetto, che fu The Lamb Lies Down on Broadway, poi nella band i rapporti esplosero, e intorno gli anni Settanta franarono sul drammatico cancello del Settantasette.
I Genesis senza Peter cominciarono a tirare la volata musicale al disimpegno generale degli anni Ottanta, seminando le radio e le discoteche di oggetti inesatti che somigliavano sempre di più a canzonette. Lui, del resto, se ne partiva in solitaria come molti dopo la frana di un’idea di collettivo, andava a salvarsi l’anima inventandosi letteralmente un paio di altre brillanti carriere d’autore.
E io venivo fuori dai miei diciassette anni con la grazia di un mutante, come un risibile incrocio tra un pallido saggio e uno che non ne sapeva davvero un cazzo. Eppure quella ragazza che avevo intossicato col mio sermone m’aveva sbattuto gli occhi vicino più volte con una strana frequenza, mentre non so proprio come, lei non riusciva a staccarmi gli occhi di dosso e io quel pomeriggio continuavo a inventare storie sui Genesis perchè sentivo che qualcosa di grosso stava succedendo ed avevo paura, ma si che avevo una paura fottuta di dover nascere una terza volta, ancora, paura che tutto questo ben di dio potesse rapirmi di nuovo, per sempre.
Qualcosa dentro di me è appena cambiato, Dio solo sa cosa ho fatto
E l’agnello si stende su Broadway, Su Broadway
Dicono che le luci splendono sempre su Broadway
Dicono che c’è sempre qualcosa di magico nell’aria.
Musica, emozioni, sentimenti. Tu riesci a fare un bel mix di tutto questo con le parole. E non è poco. Bravo.Molto bello.
non sai quanti anni erano che avevo questo pezzo sulla punta della lingua 🙂 mercì Penny
molto bello e importante, grazie per la condivisione 🙂
ma grazie a te kati per la presenza, è un piacere che qualcosa rimanga.
Play me old king cole…
La parola carillon accede sempre questa musica e il ricordo di una adolescente che ruota su se stessa come la piccola ballerina della scatola, incapace di fare un passo verso il mondo.
mi fai contento, the musical box era ingiustamente rimasta fuori dal post, grazie alla tua adolescente.
meraviglioso, e così vero!
I Settanta sono irripetibili, anche per banali questioni di età biologica 😀
grazie di cuore..
dei settanta, ne ho sentito solo l’ eco. le tue emozioni le ho vissute con la musica degli ’80 ad esser sincera. ma ricordo benissimo la musica che ascoltava mia madre, gli aprodithe’s child, i genesis, la joplin. memorie forti, e mi sento fortunata ad averle.
uh, non so cosa avrei dato perchè mia madre ascoltasse Janis Joplin…:-D beata te, la mia solo casa e chiesa…
comunque, Peter Gabriel è rimasto splendidamente vivo fino a oggi, non c’è altro artista pop che ami con lo stesso trasporto 🙂
Quando vivi un emozione importante, quando credi di sentirti pieno, bastano un paio di note di quella musica così giusta per farti capire che c’era ancora un infinità di posto da riempire, e la musica fluida, ti abbraccia e riempie quei vuoti che solo lei riesce a farti vedere, che solo lei sa riempire… Ho sempre pensato che avrei dovuto essere adolescente negli anni settanta, ma sono arrivato una decina di anni in ritardo, ma prima di dormire ascolto ancora Surrealistic Pillow… Nice trip complimenti
Tequila
One pill makes you larger…one make you slow…aaah che favola! 😀
Grace Slick era una delle mie “innamorate” virtuali, that time.
Baron von Tollbooth ancora mi fa sognare… 🙂
e comunque, grazie Teq per la risonanza
Penso che ognuno abbia dentro la “sua” musica che ha segnato l’ingresso cruciale nel girone infernale dell’adolescenza. Io non sono stata così fortunata da imbattermi nella musica “tosta” degli anni settanta, facciamo che per decenza non ti dico quali fossero gli album “scatenanti”, però ti assicuro che la malinconia struggente dei pomeriggi passati sdraiata sulla moquette blu della mia stanza ad ascoltare musica me la ricordo ancora con grande tenerezza. Bello assai questo nuovo pezzo di te. 🙂
mmmmmm…qui Blasco ci cova 🙂
ma va bene, dai, Avevo il 45 di Vita spericolata, e Tofee, bollicine e una Splendida Giornata te le passo volentieri, yeah 😀
FANTASTICO
sei un amico 🙂
Ero passata frettolosamente, sono tornata con calma perché tu richiedi attenzione. Leggevo te con trasporto e a ogni passo, automaticamente facevo il confronto con il mio percorso, dove la musica di allora erano solo canzonette al confronto (l’educazione musicale è avvenuta dopo 😉 ). Però, la mia rinascita l’ha segnata la storia dell’arte, più volte e più volte :).
Ma quanto sei bravo!?
contentissimo del tuo ripassaggio, amica mia, 🙂
quanto? la questione andrebbe riformulata: quanto si è bravi o meno ad andare a trovare se stessi con la scrittura. perchè si scrive anche e soprattutto per dare una forma di riconoscimento/riconoscenza ai figli dispersi del Sè 😉
Sai, è un periodo in cui non ho molta di scrivere ma penso penso tanto. Figli dispersi del Sè…mhhh… grazie! Avevo bisogno di uno spunto. Buonagiornata 😉
ogni cosa parla di noi, soprattutto ferite e idiosincrasie, e poi meditare senza agire è il primo avvincente passo della scrittura, buona giornata anima migrante 🙂
e così con dei e uomini
le donne rimangono nel loro recinto
sebbene molte volte abbiano visto il modo di andarsene.
quando ero donna, come la terra regalavo
in realtà, c’era più terra che mare.
è strano come per caso ritrovi in parole e canzoni degli altri il tuo pensiero di adesso sulla via delle donne per rendere il mondo migliore come all’origine femminile della specie
in effetti il mito racconta che il povero Tiresia, catturato da una di quelle cazzutissime contese tra Dei dell’Olimpo, fu trasformato in donna e gli si diede la facoltà di godere. Lui concluse che tuttosommato, convenisse aver le tette 🙂 si scherza ma c’è una verità dentro.
Breathe, però, Pink floyd
ho visto che ti sei scelto il giovane arcangelo come nuovo avatar! Approvo incondizionatamente. Ieri commentavo su un altro blog che conosco nota per nota a memoria tutta la suite di “supper’s ready” ma in realtà conosco nota per nota tutto dei genesis, quelli veri con Peter Gabriel e Steve Hackett, fino appunto a the lamb… Poi, dopo che si sono sciolti, devo dire che quello che ho seguito maggiormente è stato proprio Hackett.
Baci
grazie davvero cara, attendevo da giorni l’intervento di un fan “indemoniato” 😀
un giorno ci cantiano insieme tutto Nursery e Selling, dai.
Si, l’aurora fu Pink, ma l’alba se la prese tutta la Genesis, in me.
E invece, sono rimasto devoto a Peter fin’oggi. Come potevo diversamente: mi chiamo Gabriele di cognome 🙂