La città ti va al cervello, la pensi come un labirinto buono per topi addomesticati, in giro per mattine come queste. Ti spingi a est, a ovest, poi a nord, il tuo grugno di ferro sciabola la sua cattiva presenza sui viali trafficati e tra i gas sospesi addosso a palazzi senza volto, nel mezzo la città ti cambia di continuo le prospettive e le circostanze e i tempi di percorrenza.
Se la ride lei, che ha il creatore dalla sua parte.
Ho fatto un casino. Questo deve aver pensato il creatore osservando tutta la fiera dall’alto. Forse è bene che intervenga sul cittadino per evitare che si stressi troppo.
Dopotutto l’uomo è quello che è, mai sostenuto in vita mia di aver fatto un capolavoro, non fatemi dire fesserie. E poi, mica mi devo giustificare, facciamo che per sostenere il cittadino nel suo annaspare quotidiano creiamo i Bar. Bella questa, diciamo che sono luoghi dove l’uomo può sostare cinque minuti per iniziare bene la giornata, rifocillarsi, scambiare due chiacchiere d’umanità per ricordarsi almeno la debita appartenenza di genere.
Così, più o meno, il tizio del bar sotto casa all’angolo di via dei Durantini ha avuto la licenza di caffetteria e luncheonette.
Trattasi di un tipo di Bar che all’inizio pare facile da interpretare.
Il banchista è un ragazzone apparentemente gioviale, alla mano, malato di Formula 1, apparso persino fugacemente una volta in TV, amico personale di un pilota di Roma nato a poche centinaia di metri da qui.
Ma soprattutto amico personale di una cricca di sfaccendati che occupano il piazzale antistante con i Suv e le Golf a ogni ora del giorno. Volano in giro cazzate di sport e poco altro, roba semplice, ma detta col vocione bello alto e una grinta semi-borgatara che fa colore ma è un po’ un casino quando devi passare per andare a fare colazione e ti tocca piegarti e insinuarti e loro sbracciano e si muovono a scatti proprio davanti la porta scorrevole a vetri.
In un locale di questo genere socio-edipico, il cittadino foresto che non è del giro ha possibilità estremamente limitate di esprimersi ma anche di passare inosservato.
Può anche alzare la voce a bestia guardando un po’ di lato per ordinare il suo, come par essere la regola ambientale, tanto la trappola comunicativa scatta in genere all’uscita, loro sono perfettamente collaudati e connessi, bancone e cassa e sfaccendati vari.
Se provi a salutare e scappellarti le buone giornate di rito, loro sono troppo occupati a cazzarare per risponderti.
Se pensi che qui non badano a queste cose, il giorno che esci senza salutare ti raggiungono alle spalle sulla porta con una raffica di enfatici: arrivederci! Grazie, eh!!
Così i giorni successivi procedi per un paio d’isolati alla ricerca di un’oasi migliore. Il prossimo bar che metti alla prova sta pure lui d’angolo, belle vetrate a illuminare il cittadino barista in piena attività che si spertica per il benessere dei suoi accoliti.
Perché un Bar dovrebbe naturalmente tendere a fidelizzarti, nel Bar si crea senso, microcultura, perdio!
Questo pensa il creatore, che dalla notte dei tempi ha dato in affitto il locale a un tizio con la voce ancora più alta di quello di prima e festante come un Bobtail, precipitato in città dall’Umbria, c’è scritto persino nell’insegna: Bar Umbro.
Buon giorno caro! Che ti faccio caro, un cappuccino, caro?
Caro in che senso, fai tu che fatichi a svegliarti e odi le urla soprattutto di mattina presto.
Non ti preoccupare, caro, ci penso io, caro. Faccio un cappuccio, caro? I cornetti stanno qui, caro.
Così ti risponde lui sin dalla prima volta che entri.
Azzo, pensi, deve essere che ci porta la cultura contadina, che noi cittadini siamo frollati e incapaci di comprendere. Ma perché mi deve chiamare caro tutte le volte, che magari invece sono pure un po’ stronzo?
Tra il fastidio e il senso di colpa mandi giù la colazione cercando una forma di dialogo smorfioso col banchista-padrone-bobtail, fino al giorno in cui capisci che attrezza questa muina comunicativa in parallelo blobbandoti con chiunque si agiti nel locale, da chi sta sulla porta d’ingresso a quello che tira la catena nei recessi del sottoscala, chiedendo pareri su tutto, sudando, rovesciando i cappuccini, gigioneggiando sempre interrogativo con la frusta affilata dei suoi “caro”, talchè alla fine nessuno è sicuro a chi cazzarola il tizio umbro festante stia rivolgendosi, ma comunque caro.
Il prossimo bar di questo ramo bacato d’universo l’hanno aperto che sta già tutto rintanato in una traversa laterale, una stradella senza uscita, e ti pare persino una nuova garanzia, siamo via dall’apparire delle strade di punta dove gli uomini si sparano le solite pose.
Esistono ancora minuscole sacche di culture paesane rattrappite nelle more metropolitane, vere sacche di etere antico in cui resiste qualche vecchina annerita abbandonata su una soglia alla misericordia di una paglia di Vienna che ha già sostenuto diverse generazioni di culi stanchi.
A parte che in questo genere di Bar il primo problema che ti attanaglia è la mancanza di luce, un’oscurità che sorge dal fondo buio del locale e si mangia ogni emozione, si riverbera negli occhi piccoli del gestore, un articolo secco e baffuto che si colloca tra le ragnatele del soffitto e la bottiglia centenaria di Biancosarti che gli protegge le spalle allarmate e ti introduce al secondo problema di ordine filosofico, non banale.
In che lingua ci si parla davvero tra uomini?
Sono i gesti, gli atteggiamenti verbali, la grammatica, la grinta sottesa o cos’altro?
Perché qui fai letteralmente le prove.
Dopo che la prima l’hai bruciata mostrandoti cortese come t’hanno insegnato, la parlata precisa, i modi rispettosi, e lui per qualche motivo s’è impaurito, è diventato deferente e falso, ha abbassato la voce, t’ha chiamato: “signore”.
Allora hai provato a immedesimarti nel buio del locale, ti sei fatto ombra, hai evitato di guardarlo direttamente in faccia, sei rimasto composto in un accento vago da fossi di periferia.
Ebbene quando te ne sei uscito lento lento, zitto zitto e un po’ curvo, lui t’ha fatto un cenno vago ma incontrovertibile di saluto con la testa, l’hai visto dal riflesso dello specchio dove s’abbuiavano lo Stravecchio e il Biancosarti e l’amaro del Trappista, l’hai sentito con un brivido, che forse se avessi insistito altri giorni lui t’avrebbe pure accolto tra i suoi fedeli di strada senz’uscita.
La verità è che il mio personale burn-out da bar mostra cicli di soluzione sempre più breve. Potrei scrivere una guida allarmata agli ambienti pubblici delle colazioni romane disperse tra i quartieri.
I miei passaggi sono sempre più rapidi, i miei resoconti sintetici. Sono diventato esperto nell’interpretare modi e tempi utili di questa iena di città, è una questione di sopravvivenza primaria.
L’altra mattina ripartendo da un posto che vale solo per il fagottino caldo di sfoglia con crema di latte e marmellata ai frutti di bosco, dopo duecento metri di strada che finivo appena d’accarezzarmi un fugace nirvana papillare, ho dovuto inchiodare violentemente per evitare di entrare a fare il ruttino addosso a una signora che aveva lietamente ignorato il suo stop.
E’ stato spiacevole, così ho tirato giù il cristallo, ero ancora tranquillo, volevo solo dirle velocemente che culo aveva avuto a incontrare il mio riflesso repentino, è mancato niente. La mia macchina ha diciottanni, alle prossime elezioni può votare, m’avrebbe dato una bella mano sociale a rifarmela.
Solo che un secondo dopo tutta la colonna che stava alle sue spalle ha iniziato a darci dentro con le trombe e io, con tutta l’assertività regalatami dalla crema di latte coi frutti di bosco, sono andato un metro avanti con la macchina per inquadrarli meglio, ho estratto il braccio dal finestrino e distintamente, come un direttore d’orchestra del rodimento, li ho mandati affanculo in blocco, tutti, e senza passare dal via.
Sia frode al creatore.
Poi dici che uno va a cercarsi i boschi.
tu mi piaci ad morire…mo te l’ho detto!!!
accidentaccio, devo imparare da te a scrutare la gente, no che io non lo faccia, anzi, ma la descrizione dell’omo di strada, così, mi intriga molto, a me manca. E, siccome quei bar li conosco…riconosco gli omini..
saluti e baci!
ps
certo che c’hai la fissa con i cornetti, tu
Ah che miracolo, sei atterrata tra i procioni canadesi e t’è tornato il sorriso, son felice, che eri partita tutta ingrugnata
mhhh… sono atterrata tra una bufera di neve, altrochecavoli. e ora sempre sto 0 meno o poco più. e quindi tu fammiridere cheèmeglio.
pensavo vivessi in campagna. e comunque la colazione meglio farla a casa. secondo me. risparmi e mangi meglio. secondo me.
mezzo e mezzo, ma dal Bar non si scappa, nella mia frazione di 500 anime (in pena), solo, ce ne sono tre 🙂
sarà, ma uno che mi guarda di prima mattina e mi dice DICAAA con la stessa espressione che gli ritroverei alla sera, mi avvelena anche il miglior cappuccino.
Lo Zen e l’arte del giusto Bar, alla fine ne ho trovato uno qui a Parioli, vicino a dove lavoro 🙂
vuoi vedere che abbiamo già bevuto un caffè insieme?
per chi vota la tua macchina?? 😉
una via di mezzo tra che guevara e grillo 😀
Il tuo post sembra un documentario di Piero Angela (antropologia del banconista, tipo..). Ho provato a leggerlo con la voce di Claudio Capone. 😀
mmm, meglio il figlio, allora, anzi meglio marcorè che lo imita migliorandolo 🙂
(come si fa il broncio, che non ti sento da un sacco di tempo..)
il broncio con le faccine, tipo questo 😦 ?
si fa così: due punti e apri parentesi tonda.
effettivamente è un po’ che non leggo, non scrivo e che mi sopporto poco, anche.. barcollo, ecco.
after all, detesto faccine e like 🙂
got the blues? ma dovremmo esserci abituati, c’è la musica, la lettura e la scrittura apposta.
anch’io detesto faccine e like ma le uso perché fanno parte della lingua che si parla nel paese del web (come se germogliare in nord america si ostinasse a parlare l’italiano, per esempio). cerco sempre di adattarmi alle cose.
prima mi ritiro, poi m’infrango. i’m like a wave when i’ve got the blues.
p.s.: tu continua a scrivere che io ho bisogno di leggere. 😉
sei stato nominato. per info vai su http://proficiscorestvivo.wordpress.com/2013/03/24/liebster-blog-award/
grazie!
Giro solo con una macchina più vecchia della tua( la mia ha vent’anni) ma non ci penserei proprio a cominciare la giornata facendo una colazione così. Potrei diventare una bestia 🙂
infatti, finisce a bestia qui 🙂
bisogna che smetta di leggere libracci di psicologia e cominci a frequentare un po’ i bar…
baci
Già, io sono Barologo specializzato, adoro il genere.
Che leggi di bello?
A questo punto “bar sport” di stefano Benni…
😉
“A parte che in questo genere di Bar il primo problema che ti attanaglia è la mancanza di luce, un’oscurità che sorge dal fondo buio del locale e si mangia ogni emozione, si riverbera negli occhi piccoli del gestore, ”
mmmm… non è difficile a questo punto indovinare il nome di siffatto bar in cui si brancola nell’oscurità. è evidente che trattasi del Bar Lume.
: )
ecco si, mannaja cara, dicevo, mi mancano di questi tuoi arditi tremens 😀
Fare la colazione al bar è qualcosa di terribile per me. Non posso affrontare il mondo senza aver bevuto un caffè a casa. Se dovessi aspettare finchè raggiungo un bar inizierei la mattina ienata e non so nè se nè come arriverei a sera.
Mi piace come scrivi
ma si anch’io mi sveglio abbracciato alla moka non transigo sul cornetto al bar, però, che, colazione a parte, è uno degli ambienti elettivi dove monitorare il polso del bipede più tronfio dell’orbe. 😀
Grazie dell’apprezzamento, da penna a penna, lusingato.