Anywhere out of the world (Fine del mondo a Lisbona)

0000Antonio-Tabucchi2

E niente, sai, davvero niente basta,

nemmeno le ginestre che fioriscono

a maggio per chi sa vederle e che io guardavo senza vedere,

come di solito facciamo tutti, fino a cadere

nella nostalgia dell’irreversibile

-Antonio Tabucchi-

Questo racconto è stato ed è ancora oggi uno dei miei orologi esistenziali.

E’ il testo che ho riscritto più volte, a mia memoria di scrivente, a occhio e croce siamo oltre le dieci versioni, in un montare di evoluzioni che ho smarrito da tempo nella labirintica articolazione delle mie cartelle di lavoro.

Negli anni si è chiamato, alternativamente, Fine del mondo a Lisbona, oppure Anywhere out of the world, così come l’autore del racconto che ha ispirato questo testo chiamò il suo.

Cosa guida le cose, un caso, un niente..”, così faceva l’incipit originale.

Era giusto l’altro ieri che correva il primo anniversario dell’uscita dal mondo visibile di uno scrittore che ho amato visceralmente: Antonio Tabucchi.

Visceralmente nel senso che per Tabucchi non ho ammesso camere di compensazione intellettuale, mi son fatto annoiare da una buona parte della sua produzione letteraria, ho conservato solo lo splendore di quelle pagine da cui mi sono sentito “letto”, decifrato intimamente, come poche altre volte in vita mia.

Quelle pagine stanno tutte dentro: Si sta facendo sempre più tardi, una raccolta di flussi di coscienza che è uno dei vertici della letteratura italiana di fine secolo; L’Angelo nero, una raccolta di sei racconti miracolati, uno più bello dell’altro; e infine quest’altro maledetto flusso di Anywhere out of the world, appunto, che sta dentro: Piccoli equivoci senza importanza.

Con la chiarezza del tempo che è scappato avanti, riconosco oggi in quale giro di destino significante s’infilò quella storia tipicamente sfumata, quasi pudicamente “inconclusa”, di Tabucchi. Storia capitata sotto lo sguardo avido di quel trasparente passaggio dell’esistenza, in quella sottigliezza di motivi così sfumati che facilmente ci sfuggono, pur essendo tramezzi portanti della torre che si costruisce nel tempo.

Si diventa adulti quando si smette definitivamente di attribuire le cause dei nostri malesseri a qualcosa o qualcun altro. Si fa questo scatto quando ci si rende conto che non c’è nessun altro al mondo che noi, noi e i riflessi della nostra coscienza che viaggiano nelle immagini degli altri.

Quando ci si trova al cospetto di quel gran vuoto che rimane, in prima battuta, un vuoto sfondato che non trattiene nulla se non una vaga malinconia del non essere, uno spazio gigantesco che rimbomba nuovamente di echi sconosciuti, come fosse la vita che ci batte sotto i piedi e noi lì, rovesciati e congestionati, come in una quarta o quinta nascita del novero possibile.

Anywhere out of the world, il racconto di Tabucchi e il mio testo, rappresentano tutto questo ben o mal di dio.

Ricordo perfettamente che, posata la tastiera, guardando quella paginetta scarsa che nel tempo sono diventate due, quasi tre, mi dissi: gesù, ho scritto un racconto, il primo che mi appare tale, il primo che non sia un’accozzaglia di pensieri senza centro, il primo dove si sente una “trasformazione”.

Ciò che non sapevo allora era che ero io, precisamente, il racconto.

Riporto di seguito una delle versioni che ho trovato, non ricordo affatto quale, in verità.                 

————————————————————————————————————————–

“Ho viaggiato molto in questi tre anni. Ho preso aerei e navi e treni e autobus, senza pensarci troppo. Ho cambiato casa e macchina e mi sono abituato ad andare a letto più tardi. Sono diventato persino più gentile.”
Adesso sono in giro sotto la luce implacabile d’agosto. C’è come un’onda di vuoto che mi sciacqua lo stomaco, è da stamattina che fa avanti e indietro.
Non ci voleva molto, bastava consultare il calendario. E poi avrei dovuto saperlo, sentirlo sulla punta dei nervi, invece di farmelo dire da quei pensieri che pretendono di essere i miei pensieri.
Quel giorno viene da me tutti gli anni, il ventitre di agosto.
Sarà il caso che anche oggi io faccia le condoglianze al nostro amore, rigorosamente, dopo la piccola esplosione del segnale acustico.

Invece no, un attimo prima, intuisco che qualcosa non va come dovrebbe.
Sento il vento che si alza improvvisamente. Mi accorgo di bambini che si rincorrono, molto lontano dalla cabina telefonica di fronte al vecchio cinema Le Ginestre, verso l’angolo più lontano del centro commerciale.
Un attimo prima so che questa volta lei alzerà la cornetta.

Mando giù il respiro a piccoli sorsi. Guardo ancora le sagome lontane dei bambini che si raggiungono.
Si saltano addosso e rotolano per terra senza fare un suono.

Semplicemente, non ha nulla da dirmi. Ora, tra un mese, nei prossimi dieci anni. Così dice.
Potrebbe finire qui, e forse è già finita senza che me ne accorgessi. Forse sono solo una stupida memoria nervosa che mi si riverbera addosso, un arto fantasma, una morte fantasma ben truccata e azzimata, che balla l’ultimo foxtrot.
Lei in pochissimi secondi mi ringrazia del pensiero e degli auguri. E se fossi un commesso, se le avessi appena consegnato le pizze, forse mi allungherebbe pure una bella mancia per far si che me ne vada via presto, col prossimo soffio d’aria.
Io faccio un passo di lato, mi lascio spegnere la comunicazione sulla faccia.
Forse mi dovrei incazzare, provocarla, farle del male. Utilizzare quell’attimo di sospensione in cui mano e cornetta rallentano impercettibilmente procedendo verso l’ultimo binario di questo silenzioso, solitario ultimo viaggio.
Metterci dentro un urlo e uno sparo senza guardare.

Anywhere out of the world.
Nel racconto di Tabucchi la telefonata termina da nessuna parte.
Nè voce, nè segreteria telefonica, nemmeno il suono ossessivo dell’occupato. Solo un lontano crepitare di impulsi elettrici sulla linea che non squilla, che non appartiene più a nessuno.
Scaduto il tempo del disco registrato, nemmeno il conforto del nuovo intestatario che segnala l’errore.
La linea non c’è più, nessuno si e’ preso la briga di riassegnarla, nessuno che sappia nulla.
Nessuno da nessuna parte.

E allora esco dalla mia cabina rossa, calda, me ne vado in solitudine a guardare la foce del Tago. Mi appoggio alla spalletta del lungofiume e guardo giù verso la corrente scura, nel punto in cui va ad abbracciare le onde dell’oceano.
Ed e’ tardi anche per far danzare la malinconia, si capisce da questo sguardo ottuso, da come sfoca l’immagine dei bambini che hanno ripreso a giocare e si lanciano sassi e invettive e risate afone, da come la traccia si confonde e il cinema del centro commerciale non e’ mai stato cosi’ abbandonato, e io così randagio, e Lisbona cosi’ spenta.
Si sente la città respirare in un rantolo d’aria.
Si vedono lampioni radi, come lucciole ubriache, riflettersi sulla superficie incerta dell’acqua, e moribondi tram sferragliare per l’ultima corsa sulle Avenidas cariche di desolazione.

Cos’è che governa la proiezione.
Non il dolore che illumina e scontorna.
Non la ragione che si schianta sui particolari, frullando le ali come una mosca impazzita.
Rientro in me per registrare l’inutilità dei pensieri, la vertigine di solitudine che arriva come uno schizzo isolato di pioggia su un mio cielo distante.

Vent’anni fa ridevamo fra le poltrone arancio caldo del cinema.
Si rideva accarezzandosi le ferite dopo la corsa e la caduta e le invettive.
Si rideva come pazzi per la pellicola inceppata e il fotogramma squagliato dal fuoco intollerabile del proiettore.
E tra poco si riaccenderanno le luci.
Devo tirar via le scarpe dalla poltrona, ricompormi, fare due passi in corridoio e forse comprare noccioline e Coca-cola.
Anche considerando cinque minuti di pausa, il secondo spettacolo termina poco prima del tramonto.
Faremo in tempo a uscire e respirare tutta l’aria che vogliamo.
Prima che faccia sera.

20 risposte a “Anywhere out of the world (Fine del mondo a Lisbona)

  1. …c’è ancora tanta aria da respirare, sopratutto nelle notti di primavera.
    sento che questa lettura migliorerà la mia giornata, te ne ringrazio.

  2. ho la testa piena di parole; quelle di Tabucchi, di Pessoa, le tue, le mie. ci sono anche le immagini del mio viaggio in Portogallo e del Tago visto da me 15 anni fa.
    eppure c’è ancora tanto spazio per il vuoto che si crea irrimediabilmente quando si diventa consapevoli di se stessi..
    porca paletta, il tuo racconto mi fa sentire troppo adulta. non va mica bene eh?!
    e io che leggo per dimenticare.. 😛

  3. bello il racconto ma bello soprattutto e vivo quello che lo precede, che stare accanto a tabucchi, leggerlo, possederlo, smarrirlo e ritrovarlo, è proprio così, tristano quasi muore ma mai del tutto.
    ml

  4. quella linea telefonica sospesa sull’altrove sembra anticipare i temi di “matrix”. Le tue pagine, così, puoi continuare a riscriverle. Anzi, devi.
    Auguri di Buona Pasqua

  5. racconto intenso e bella l’immagine delle “risate afone”, quasi che l’assenza di suoni all’altro capo della linea abbia ingoiato anche il loro suono.
    eh, occhio però che non avesse ragione quasimodo.
    : )

    • Quasimodo appartiene al passato dei nonni. oggi basta mettere indietro le lancette tutti i giorni e si va, si sopravvive nell’oltranza del pomeriggio.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...