Radiodramma dell’Invasione

0ice-1

Il Cielo e la Terra non usano carità,

tengono le diecimila creature per cani di paglia.

– Lao Tse –


h 01:40

A quest’ora sono già andati via tutti. Guardo la città attraverso la grande vetrata che delimita il lato lungo dell’open space. Anche se non c’è niente da vedere che non sia buio fitto, l’esercizio d’immaginazione m’aiuta in qualche modo a calmare il mal di testa che mi scalcia nella la fronte.

Un centinaio di metri sotto di me tutte le circonvallazioni della periferia sud sono prive d’illuminazione e pattugliate dalla polizia. Le ultime indicazioni trasmesse dai notiziari intimano alla popolazione di interrompere tassativamente l’utilizzo di qualsiasi forma d’energia a partire dalle dieci della sera, si parla di irruzioni notturne di controllo nelle abitazioni private, di scontri avvenuti tra forze dell’ordine e cittadini organizzati a difesa dei propri condomini.

Penso a Lena immersa nel sonno sotto due trapunte di piuma che mi aspetta dalla parte opposta della città, penso a ciò che appare in questo momento nei suoi sogni e non sono sicuro che sia esattamente il nostro futuro o un’immagine di noi.

Nessuno del resto è più sicuro di nulla, è un problema che riguarda tutti.

La mia testa ha smesso di funzionare, ho finito le pasticche e ho perso la speranza di produrre ancora qualcosa di buono, ma non riesco a decidere di mollare tutto e tornarmene a casa. Guardo il buio che occulta la città, leggo il termometro che registra la temperatura esterna. Segna cinque gradi sotto zero e siamo ad aprile, ancora in attesa che una qualche forma di primavera ci sollevi dalla pena.

Mentre lascio scorrere questi pensieri osservandoli da una distanza siderale, le prime palle di grandine si abbattono silenziosamente sulla vetrata esterna a pochi millimetri dalla mia faccia.

Sarebbe bene che mi scuotessi, se lascio passare altro tempo rimarrò bloccato dal ghiaccio. Forse è già troppo tardi per pensare di attraversare in macchina la città sotto la tormenta, ma io ho come un chiodo che mi lacera la mente, un’impressione vaga che m’insegue da giorni, niente di preciso, qualcosa che somiglia a una pulsione distruttiva, al desiderio freddo di compiere un gesto che sia privo di ritorno.

Se sto fermo i pensieri mi assalgono. Per questo alla fine raccolgo in fretta le mie cose e mi dirigo a passo svelto verso gli ascensori, solo per questo.

Il corridoio esterno è buio come l’inferno.

Raggiungo l’ampio pianerottolo tastando il muro, assuefacendomi poco a poco all’oscurità che mi pesta l’anima. Se hanno tolto l’energia ai blocchi comuni, vuol dire che gli ascensori sono fuori servizio.

La porta delle scale è aperta, posso raggiungere le rampe d’emergenza. La temperatura sta scendendo, carezza gelida su carezza gelida si infila crudelmente nella schiena. Coraggio, braccio al corrimano, respiro calmo e andatura regolare.

Barcollando, scendo incolume trentaquattro piani, contando sessantotto rampe fino al pianterreno. Talvolta il silenzio è lì, nascosto in te, in agguato come una bestia feroce, aspetta solo il momento giusto per aggredirti.

Spalanco il portone tagliafuoco.

Lentamente, accompagnata da un fruscio sinistro, la bufera di neve toglie la ribalta alla grandinata, grossi fiocchi fanno la loro comparsa nell’aria gelida.

Ci sono piccole luci d’emergenza sulla rete che fa da lungo perimetro al parcheggio, m’avvio su un lato, fortuna che la macchina l’ho lasciata sul lato ovest.

– Non c’è dove andare, impossibile scappare da un mondo che muore…

Sussulto, come colpito dal calcio di un’arma.

– Chi ha parlato..!? Fatti vedere!

La mia voce suona stridula di paura.

Muovo qualche passo ancora, lentamente, controvento.

– Fatti vedere!!

– Maledetta l’importanza che ci diamo…Nessuno conta nulla!

La voce viene da qualcosa di simile ad un fagotto informe che va rapidamente ricoprendosi di neve, un barbone, un maledetto barbone del cazzo che mi precipita quasi addosso. Nonostante la mezza bufera se ne sente tutto il fetore.

La maledizione che gli lancio ha un suono totalmente irreale nella bolla d’aria ghiacciata che ci comprende. Suona come qualcosa di ridicolo e impaurito, qualcosa con cui non vorrei mai avere a che fare in questa vita.

Perciò lo colpisco forte, ripetutamente, senza nemmeno guardare bene dove.


Il nostro cuore batte lentamente, molto più lentamente del vostro. Il muscolo che in voi si contrae settanta volte al minuto, in noi impiega circa un’ora del vostro tempo per spingere in circolazione una sola volta ciò che voi chiamate sangue”.

Ho acceso la radio per riprendermi dallo spavento, ero ancora sconvolto quando ho trovato la macchina. Con l’adrenalina residua in circolo, a pugni nudi, ho spaccato la crosta di ghiaccio che copriva il parabrezza. Adesso il sangue mi scorre tra le dita mentre muovo il volante e innesco gli abbaglianti, la macchina sotto scivola sinistramente sulla neve nonostante i pneumatici rinforzati.

Sulle circonvallazioni che portano in centro procedo abbastanza spedito, non oltre i quaranta chilometri orari, comunque. Alcuni posti di blocco montano grandi proiettori alogeni che illuminano un paesaggio spettrale, la neve precipita di traverso come se fossimo in una gigantesca boccia di vetro rovesciata. Cerco di sorridere ai militari per evitare che mi fermino, non lo sopporterei, provo a girare il Tuning dell’autoradio in cerca di musica o di notiziari, ma c’è sempre questa dannata voce metallica che recita una specie di radiodramma.

Il nostro tempo ci concede di vedere ciò che la vostra sciocchezza occulta. La nostra conoscenza sa che la memoria sopravvive al corpo fisico, si fissa nelle particelle subatomiche, per questo siamo qui, per aiutarvi a spegnere la luce senza dolore, senza rischio di ulteriore inquinamento di materia.”

Il mal di testa intanto m’è passato, curioso, so che è pericoloso interrompere bruscamente l’assunzione delle pasticche, sembra che in soggetti predisposti possa provocare l’insorgere di episodi psicotici. Ecco, ci mancherebbe solo questo.

Con sollievo, dopo mezz’ora di allucinata odissea, infilo una laterale debolmente illuminata dove trovo le indicazioni di un centro commerciale aperto: “L’unico luogo della città notturna dove sentirsi vivi!”

Queste precise parole fanno macabra pubblicità all’ingresso. Oltre il cancello, presidiato dai fuoristrada della polizia, una quindicina di macchine parcheggiate. Eccoci, siamo al raduno degli alienati che sfidano la notte, perfino un sorriso mi sfugge dal grugno che devo avere.

Sulle mie dita e nei palmi il sangue si è seccato.

Prima di scendere, rimango per un tempo che non saprei dire a guardarmi le mani, mani gigantesche, mani di uomo fatte apposta per stringere, colpire, impugnare, scardinare, percuotere.

E non mi sembra che ad altro possano servire.


La portiera si chiude con un rumore secco. Capelli e sopracciglia si ghiacciano mentre mi dirigo all’entrata. Dentro le vetture blindate qualche poliziotto fuma. Fuori, a darsi il cambio a gruppi di quattro, le divise fronteggiano un pugno di disperati.

Visiera, casco e corazza riscaldata, mentre a qualche metro, coperti solo da poche e malmesse coperte logore, fosche figure di uomini battono i denti aspettando, nel cambio della guardia, una distrazione che non ci sarà.

Uno di loro si lancia barcollando sui cancelli mentre gli altri, come indistinte creature della notte, più che sostenerlo lo sospingono, usandolo come diversivo per sfondare la rete in un altro punto.

Nella confusione il corpo finisce per terra tra le urla degli altri. Si rialza. Ci riprova. Il calcio di un fucile automatico, stampato sulla mandibola, lo ributta in terra.

E’ una donna, una donna lacera, appesantita da un’avanzata gravidanza.

Avanzo deciso verso il mucchio. Mando a gambe all’aria un paio di loro e con la suola antighiaccio sotterro la testa di un terzo. Altri due si tirano in piedi cercando di reagire.

Mi basta guardarli negli occhi per incutergli un timore. Alla fine desistono.

Prendo in braccio la donna che è in un leggero stato di shock. La polizia non ha mosso un dito, lasciando che ci scannassimo tra noi.

Mi avvio verso il locale ristorante che ha ancora qualche luce accesa, non so nemmeno io sperando cosa.

E’ il freddo. – La sento dire senza muovere le labbra.

Cosa dici?

Era l‘unico modo possibile. Ogni centomila anni una glaciazione fa pulizia…
Mi fermo, incredulo, davanti alle sentinelle. Non voglio pensarci, la bufera è ovunque.

Estraggo la tessera tenendola ben in vista con due dita, mi avvicino a uno dei mastini, galloni dorati sulla tenuta antisommossa.

– Sergente, sono della protezione civile, centrale meccanografica, c’è un modo per entrare? –

Lui si fa una grassa risata sotto i baffi ghiacciati.

– Scherza? Abbiamo ordine di non far entrare nessuno. Vuole un consiglio? Si precipiti a casa, tra poco qui l’inversione termica raggiungerà il picco, li vede questi? – Indica con un gesto vago il piccolo plotone di disperati.

– Se non se ne vanno in fretta faranno la fine dei ghiaccioli nel freezer.

Poi esita un attimo, mi guarda un po’ perduto, quasi scusandosi.

– Lei sa di cosa diavolo parlano le radio? Non riusciamo più a metterci in contatto col comando, solo quei dannati messaggi, ma chi cavolo diffonde questa maledetta roba?

Non so cosa rispondergli.

La donna si lamenta, un gemito sottile. Qualcuno deve occuparsi di questa donna gravida, accidenti.

Sostenendola, guadagno a fatica la portiera della mia macchina. Mentre la corico sul sedile posteriore, il mal di testa mi riesplode dentro con tutta la sua potenza distruttiva.

Ho bisogno di riascoltare quelle parole, quelle frasi deliranti di cui nessuno osa immaginare nulla.

Da settimane i rapporti vengono respinti, tutti sanno, è questa l’impressione che si ha, tutti sanno o intuiscono qualcosa, i governi sanno, per forza, e se non lo dicono forse lo scatenarsi del panico collettivo è il problema principale.

Le dita mi tremano per l’ipotermia, l’automobile riparte sbandando, la radio vomita ancora il messaggio, curiosa litania che penetra, devasta l’attenzione senza lasciare che una pallida traccia di senso, per lo più inafferrabile.

Lungo i viali deserti i blindati dell’esercito hanno rinunciato a combattere la battaglia con la neve, soldati infuriati proiettano alogene quasi ad implorare un bersaglio. Soldati infuriati e senza una guida certa.


Da qui si vede bene la bava di chiarore sporco che sorge dalla campagna a nord-est della nostra prospettiva, più che un alba sembra il rigurgito di un sole fulminato.

Sono le sei e un quarto e la macchina si è appena incagliata in un fosso di ghiaccio in cima alla collinetta che delimita il pianoro su cui sorge il quartiere.

Mi chiedo se siamo arrivati fin qui grazie alle pillole datemi dal sergente dell’ultimo posto di blocco o se sia stata solo una volontà cieca di resistere alla disperazione. Qualcosa in me ha riparato il lume della ragione, qualcosa che se ne sta andando ora qui, a un chilometro da casa.

Per tutta l’ultima ora in cui abbiamo proceduto a passo d’uomo, la donna gravida è rimasta sdraiata sul sedile posteriore, sembrava priva di vita.

Mi giro adesso e la trovo seduta compostamente, con gli stracci risistemati addosso, lo sguardo illucidito, fisso su di me. Le chiedo stancamente:

Ricordi cos’è successo all’ultimo posto di blocco? Almeno tu, ricordi esattamente tutto?”

La donna sta immobile, forse lievemente oscilla in cenno di diniego, ma potrebbe essere altrettanto un: lascia perdere, oppure un: non capisci.

Perché ci hanno lasciato andare dopo averci picchiato e minacciato? E tu chi sei davvero, chi era quel colonnello dell’esercito cui hai fatto cenno, che ha stracciato l’ordine di arresto?”

Provo a prenderla per le spalle, a scuoterla.

Mi stupisce la fiacchezza estrema del mio gesto, ma anche i suoi occhi tranquilli, quasi compassionevoli, la fiamma tagliente che li anima a tratti.

Ho voglia di urlare, di spaccare qualcosa. Capisco che la lucidità mi sta velocemente abbandonando, che se voglio sperare di raggiungere Lena devo scendere a piedi in mezzo alla neve e soprattutto devo fare presto. Non posso e non voglio più prenderla in braccio, che si fotta pure la donna, nel suo silenzio ambiguo di gravida senza nome.

Immerso nella neve fresca, mulinando gambe e braccia come un ragno impazzito, così raggiungo la base della collina davanti a cui si aprono i perimetri dei parcheggi del mio condominio.

Guardo in su verso la macchina, lo sportello è ancora aperto, la gravida rischia di restarci secca per assideramento ma non è più affare mio. Davanti a me vedo avvicinarsi il capo del comitato di difesa civile delle torri est, un tizio burbero che abita tre piani sotto di noi, lo vedo che procede teso imbracciando il fucile, gli mando un cenno per farmi riconoscere.

“…Buon giorno!”

Mi urla lui da una cinquantina di metri di distanza mentre rallenta il passo.

Con lei siamo al completo, finalmente. Abbiamo i viveri, qualche giorno di autonomia energetica e siamo armati fino ai denti. Se provano a venire giù con i blindati gli scaldiamo il culo con il piombo. Venga, che la metto al corrente.”

E’ a casa che sono arrivato, era quello che volevo, calore e sicurezza, un riparo per la stanchezza e il senso di vuoto che mi scioglie le ossa. Eppure c’è qualcosa di storto nei modi di questo uomo, qualcosa di affilato che mi tiene in allarme.

Che notizie avete voi?…Di chi sono queste maledette voci che appestano le radio!?”

Gli ribatto io, mentre automaticamente giro lo sguardo in cerca di riparo.

“…Deve capire…è stata una notte difficile…anche sua moglie continuava a farneticare quelle balle sulla fine del mondo, stava diventando pericolosa. Conosce i tempi…non potevamo fare altro…”

Deve essere perché mi vede pallido, sulle soglie di uno svenimento, deve essere questo che lo fa avvicinare a me abbassando decisamente la guardia.

Dal fondo di quel po’ di furia adrenalinica che mi rimane gli sferro addosso un calcio improvviso. Lui si sbilancia dalla sorpresa, lascia cadere l’arma. Come un ossesso mi getto sul fucile caduto nella neve, mi rialzo e urlando lo abbatto di calcio sulla sua faccia da idiota degli ultimi giorni.

Sento appena il rumore delle ossa fracassate, vedo il sangue che proietta un arco rossastro nell’aria prima di precipitare come una raffica sul suolo di ghiaccio. Faccio appena in tempo a gettarmi per terra e a rotolare sotto una macchina del parcheggio, mentre le fucilate dei condomini acquattati dietro il perimetro dei condomini fanno schizzare la neve intorno.

E’ finita.

E’ finita mi dico, tra un paio di minuti mi faranno a pezzi.

Hanno ammazzato Lena, maledetti.

Sento le urla che s’avvicinano, sto rannicchiato su un fianco e mi arrendo alla stanchezza, al dolore che mi succhia la mente.

Eppure una parte di me prova sollievo, il sollievo della fine.

Forse m’addormento per qualche istante, forse è niente, è solo finita, sono attimi di psicosi reattiva.

Sento un calore che mi preme sulla schiena, mani che si avventurano su di me, cercano il viso per carezzarmi gli occhi. Sento il volume della pancia della gravida che mi stringe da dietro come se volesse farmi entrare dentro qualcosa di sé.

Mentre da sotto la macchina, lontano, mi pare di vedere i fuoristrada dell’esercito che scollinando si gettano in discesa verso il comprensorio delle torri est, la sua voce addolcita mi raggiunge le orecchie.

Pensa al respiro, al vuoto che serve per fare di nuovo un pieno. Questo mondo sta esalando l’ultima aria. Noi non facciamo altro che spingere perché si svuoti in fretta. Noi selezioniamo naturalmente le forze e gli uomini che daranno vita al nuovo respiro. Questa è la legge, non c’è altro da sapere. Adesso puoi dormire, finalmente, adesso ti cureremo noi.”

Forse è questo ciò che sento, forse è solo una parte di me che muore, la follia che mi manda in pezzi.

E’ pazzesco, ci deve essere una fine diversa.

Buio.

24 risposte a “Radiodramma dell’Invasione

  1. Meraviglia! Il gelo del mondo e del cuore, insieme, sono una vera catastrofe.Perciò è tutto vero… lo sento…
    Baci

  2. E’ veramente ben scritto. Non so come dire, ma si entra con facilità dentro a questa apocalisse imminente. E’ molto fluido, intrappola il lettore in un clima soffocante, ma reso in modo semplice ed immediato. Il tema è di facile immedesimazione perchè, in fin dei conti, non siamo poi così lontani dallo scenario del tuo racconto, nonostante suppongo ci piaccia pensare di essere migliori…

    • grazie, in realtà ci manca davvero poco, la follia già impera in strada (almeno nelle città), e pure aprile cavolo, si fa pregare sempre di più…:-)

  3. Devo correre ora, ho un aereo che scalpita per portarmi a 9000 m d’altezza e poco tempo per approfondire, ma volevo dirti che questo pezzo è scintillante e liscio proprio come una lastra di ghiaccio. E come il ghiaccio, scotta. 🙂

  4. I tuoi racconti fanno rimanere incollati allo schermo, quando leggo le realtà descritte si materializzano intorno a me proiettandomi al loro interno.
    Mi è piaciuto molto.

    • questo fa molto piacere, M, dopo tanti lustri di assidue letture, in effetti, se una storia non è avvincente non la prendo nemmeno in considerazione..

  5. questo scritto ti rende schiavo di ciò che stai leggendo.
    un incanto allora!
    quel gelo che percepisco è totale e… vero e… brucia come il ghiaccio sa fare.
    ghiaccio-fuoco.
    tu sai far scendere nella profonditò più reale di tutto.
    incredibile!
    gb

  6. ammazza che ansia. e che freddo!! io spero di non essere selezionata per dare vita al nuovo respiro perché sono sicura che il mondo che verrà sarà una cacata come questo che se ne sta andando, finché la selezione comprenderà anche gli esseri umani.
    si sente la mia “vena” positiva, vé? 🙂

  7. OT: ma a te il reader di WP funziona? il mio mi dà solo gli ultimi 10 post e sono due giorni che non lo leggevo…
    la fine del mondo è vicina. si capisce da questi dettagli…

    • WP fa cagare, pardon, uno non si lamenta solo per la gratuità, ma è pieno di buchi, e il Reader a me s’incappella almeno ogni venti giorni!
      Orate frates, tutti gli altri sottoterra al Rave party di Morpheus 🙂

  8. bello (mi pare di averlo già letto?). negli scenari leggermente obliqui del delirio (febbricitante o meno) dai il meglio di te. qui c’è pure qualche dialogo: cosa posso chiedere di più?
    : )))
    vagamente ballardiano nel senso più catastrofico della sua produzione, il racconto prende il lettore nella morsa di ghiaccio, bianco come una pagina non scritta senza fine (diversa).
    compliments.

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