L’unica donna che abbia mai avuto (landscape seven)

Maddalena, Maddy, Lena, Maddalenina, Nina.

Sono un milione le parole senza senso che ho attraversato per ricomporre un’immagine di noi, al tempo in cui la nostra passione si rivelò degente e io la intubai con l’amore che avanzava, donandomi intero alle cerimonie segrete di quei nomignoli che la mente cardiaca attribuisce ai rematori delle proprie ombrose galere.

Perdonami Nina, le retoriche da cui abbiamo provato a salvarci ci si ritorcono contro ancora, a distanza di anni. E forse noi mostriamo quel muso di randagio in cerca di un ultimo osso utile, ben sapendo che di carne ne abbiamo consumata tanta, che ci è rimasta sfilacciata nei denti rendendo difficile la prevenzione del tartaro e della carie. Forse le strade vuote che abbiamo imboccato nulla davvero possono che la miseria tipica delle generosità terminali.

Perciò perdonami amore, insisto, anche se in questa scarsa luce del tuo perdono non so davvero che farmene. Non c’è protesta in questo, solo partecipazione muta, come quella che dovremmo dedicare al sorriso strattonato che mettiamo sulle nuove storie che ci hanno spodestato.

E oggi che senza un vero perchè ho deciso di ridare fiato a questa parole, sarà la stanchezza del rumore che fai, come una porta mai curata che sbatte negli anni, mettila come vuoi, la speranza ambigua che quel perchè possa ancora manifestarsi in questo giro tardivo di dichiarazioni false e tendenziose.

Oppure è stato solo l’altro giorno in metropolitana.

Nell’occhiata persa che si riserva al buio della galleria, tra i fantasmi rifratti della gente di cristallo, mi sei apparsa tu.

Ti guardavo da un minuto già, senza riconoscere altro che una vaga aureola bionda, un’immagine poco definita del viso su cui si percepiva un effetto di ombre approfondite, un’idea complessiva di volto stanco, un poco pesto.

Poi c’è stato un cenno, un micromovimento, come un piccolo scatto nella cui dinamica ti ho riconosciuto istintivamente.

Ho guardato meglio. Mi sono immaginato tutta la scena nei minimi particolari.

Io che mi stacco dal palo di ferro intorno a cui danzo la mia immobile noncuranza.

Io che, nell’ondivaga cinetica del vagone, acciacco piedi e assalto costole, mi profondo in scuse che non sento, finchè tutto il mio corpo sbilanciato afferra alla cieca il nuovo palo di sostegno catturando una tua mano gelata che stringe sotto.

Ecco, in questo punto preciso la scena s’interrompeva, lo sguardo non riusciva a passare oltre.

Ho guardato meglio nel buio fitto che correva oltre il cristallo. Mi è apparsa quella tua espressione sarcastica con cui usavi bruciare il pelo superfluo che ci cresceva sullo stomaco.

Ho pensato a tutte le volte che i tuoi magnifici glutei voltati si sono arresi all’uomo sbrigativo che mi abita, alla terra di nessuno in cui ti offrivi, al di là di ogni ragione comprensibile, per farti dominare e sciogliere così quella tua rigida anima antiproiettile presso cui sopravvivevi.

Ho guardato ancora il fantasma e ho perso i tuoi connotati nella figura di un volto che sembrava accoglierli tutti. Tutte le donne percorse nell’effigie in una sola, l’unica femmina della mia vita.

Quel volto mischiato, deformato, sciolto in rivoli di materia come una pittura allucinata di Bacon, m’è sembrata la smorfia di un Kurtz impallidito nell’attesa che qualche ardito Conrad lo rendesse libero dalla necessità di collezionare il marcio che s’accumula.

Tu sei l’unica donna che io abbia mai avuto. Con questa certezza disarmante sono sceso alla fermata successiva, molle come un ladro sfilando sotto la tua muta occhiata congelata sono sceso dal viaggio, anche se ero appena a metà del percorso che m’ero dato.

Certe volte di notte, effigie mia, dopo aver presenziato allo scambio sempre un filo sbrigativo dei nostri corpi sanguinanti, quel coso mio smarrito di durezze imposte nel tuo fradicio interiore, l’avvolgersi del tuo baricentro vuoto intorno a un mio vertice sottile, così come s’avvolge lo zucchero incandescente che fa brillare i bambini. Certe volte m’è venuto di andarmene per sempre, come l’altro giorno in galleria.

Le parole giocano su noi, figlie di una stanchezza di percorsi circolari che ci mutano in occhi e bocche deformate, un poco spaventose.

Ricordi quanto siamo stati infelici quell’estate sotto le palme di Kovalam beach, infelici e trasognati come solo quelle due inconcluse nuvole di monsone che stentavano a formarsi all’orizzonte. Piove ad agosto, qui. Ma siamo noi che abbiamo bisogno di troppa luce, noi che respingiamo il corso naturale delle stagioni.

La febbre m’era salita a quaranta, e forse pure qualche rotella cominciava a ingripparsi nell’aura essenziale di un delirietto incipiente, era per quello, per non coinvolgerti in un piccolo deragliamento fisiologico che mi prende sempre ai tropici che cercavo di evitare la tua presenza, nascondendomi in quella atroce evidenza di piccola stanza, nella nostra guest house sulla spiaggia.

Volevo toglierti un peso dalle spalle, avrei voluto persino cantarti La Cura con la voce spiritata di Battiato, e forse ce l’avrei fatta pure, ottenendo nient’altro che la deflorazione ultima del nostro ventre molle, quella visione insostenibile che avrebbe concluso la nostra storia in quel preciso istante d’universo, ai tropici.

Tu prendesti quel grosso mango maturo dalle belle sfumature arancioni che la direzione ci aveva fatto trovare infiocchettato sul tavolino di rattan e me lo scagliasti contro.

Così io non potei cantare lì sul posto, solo abbassarmi con la velocità del pensiero d’un fulmine, se si considera quanto spossato potessi sentirmi in quelle condizioni.

Sono momenti in cui la vita sfila davanti agli occhi, in quel cerbero di secondo mi apparve un brutto essere mutante, con tanto di belle teste issate sul corpaccione incandescente.

Nello sguardo fosco della prima appariva manifesto ogni coriandolo di disgusto che i nostri esagerati carnevali ormonali seminavano nell’aria.

Perchè stuprarsi vicendevolmente come capitava a noi non solo non è una garanzia d’amore, né che gli uccellini cantino sempre gli odiosi versi zuccherini di un mattino, ma piuttosto il segnale di un possibile agguato dell’irragionevole da cui guardarsi.

Nella mimica disarmante della seconda restava intatto tutto lo stupore infantile che ci aveva fregato la prima volta, quel pensiero che la vita va vissuta per momenti come quelli, e tutta la collezione di scemenze atroci che sanno passarsi sottobanco gli innamorati di primo pelo.

La terza e ultima faceva umana pena, credimi, non c’era nulla di registrabile se non il rumore ottuso di un’opera di ricomposizione esausta, il conto dell’entropia che occorre a sostenere una vibrazione di estremi inconciliabili, di tutte le memorie che mangiano speranza.

Ecco qua, mio dolcissimo participio passato, non ho la più pallida idea del perchè io ti stia scrivendo queste frasi. So solo che avevo bisogno di lasciarle correre dentro di me, di scriverle a penna su una vecchia carta lettera bordata, di firmarle con una goccia di profumo, di affidarle all’affanno fisico delle poste moderne, alle lune storte di un postino precario che per ripicca fa fuori nei cestini della straccia una buona metà delle carte da recapitare.

E sto appena ripartendo per l’India, mia unica donna, il Magno tuo sta per imbarcarsi con tutta la trippa esposta del suo essere filosoficamente bulimico, come un legato dell’antica Roma latore di un messaggio che ordina spargimenti di sale sui campi abbandonati di ciò che è stato.

E vorrebbe già trombarsi ciecamente tutta la squadriglia di hostess di terra che gli fanno i gestacci di composizione della fila umana necessaria.

Torno a imbucare questa lettera negli sprofondi geografici di Kovalam beach, da dove sarà ancora più difficile che il vuoto messaggio dell’intimo di me possa raggiungerti.

E’ risaputo, amore mio, che i postini indiani passano lettere e cartoline al vapore.

Lo fanno per staccarne il valore del francobollo, per mettersene il controvalore, furbescamente, nel fondo di una tasca buia inarrivabile.

Ale20

26 risposte a “L’unica donna che abbia mai avuto (landscape seven)

  1. Mi viene di entrar qui in punta di piedi, con delicatezza, dopo aver letto questa bellissima e sanguinante lettera d’amore. Ci sono persone che attraversano la nostra vita e poi ne escono, e ce ne sono altre che invece “fanno” la nostra vita. Difficile a volte è ammetterlo, a volte, ancora più difficle farlo con la sincerità con ciu l’hai fatto tu.

  2. Mi piacciono le lettere d’amore. Credo dipenda dal fatto che non sarei mai in grado di scriverne una, vera o immaginaria che possa essere. Ma del tuo post mi colpiscono soprattutto le immagini. Mi viene istintivo decontestualizzarle, non so perchè. Forse perchè amo i dettagli. Le considero individualmente e ce ne sono moltissime che trovo assolutamente magistrali.
    Bel testo davvero

  3. Lettera-diario: scorrono le immagini di pensieri in fila indiana e non importa affatto cosa sia vero e cosa no. Tanto è solo a noi stessi che scriviamo, il francobollo non serve.
    Baci

  4. vedi cosa c’è sotto certe barbe! siamo uomini e non caporali in fondo, e questa non è una lettera d’amore, è qualcosa di più, che fa pensare a tutti quei pali di ferro e a tutte quelle mani che ci sono passate sopra, carrozze piene di glutei e di manghi che non saranno mai remoti ma resteranno per sempre participi… grazie e buon viaggio

  5. Incredibili immagini iniziali, tre volte i. Per un attimo ho visto davvero cos’è l’amore dietro a quel telo attraverso cui lo filtriamo per illuderci che sia meno crudo. Grazie.

  6. …Ale caro,che dire?….Resto basita da tanta bellezza,arditezza….sei un giocoliere, con le parole ed i sentimenti ci sai proprio fare….Una dote della famiglia Conte!!!……..A presto vederti…bises Pup

  7. @solounoscoglio – l’uomo è un perdente nato per condizione primaria, e poi, l’amore è il sogno, finita la storia finite le nuvole per tutti e due.

  8. bella l’immagine del sorriso strattonato e pure il “micromovimento” che porta al riconoscimento dinamico del fantasma.
    spettacolare il gesto atletico che, con guizzo febbricitante, schiva il mango: lei però doveva saperlo già da prima, intendo, quando ha scagliato il frutto, che inevitabilmente ti avrebbe mangato…
    : )
    quindi pure lei ha un suo intero spettro di responsabilità.
    ah, l’entropia, che tuffo al cuore. ebbenesì, l’entropia, incontrastata signora dell’universo, vince sempre.
    ottimo il finale, con l’opera dei postini indiani a specchiarsi metaforicamente in quella dell’io narrante, col “controvalore” segregato “nel fondo di una tasca buia inarrivabile”.
    (occhio, refuso: “a questa parole”)

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