I Gatti di Baudelaire

cbaudelaire

“…S’atteggiano pensosi nobilmente

come le grandi sfingi solitarie

immerse sembra in sogni senza fine

feconde le reni e piene di magiche scintille

e come sabbia fine minime parti d’oro

vagamente costellano le mistiche pupille”. *


Giselle porta da mangiare ai gatti in fondo al vicolo cieco. Cammina lentamente piegata su se stessa, allineando minuscoli passi che strisciano l’asfalto bagnato. Un sacchetto pieno d’interiora, scosso da piccoli tremori, le fa pendolo alla cintura.

Grigio e Nera le corrono incontro, disegnano perfetti equilibrismi di feltro sul pavè scivoloso di fango, riconoscono il sacchetto, rallentano, si fermano. Grigio stira la muscolatura compatta, accappona il mantello gonfio di piccole cicatrici, sferza in alto la coda. Fa un piccolo ruggito di gola

Fino a qualche tempo fa Giselle riusciva ancora a chinarsi per accarezzarlo. Oggi il dolore nelle ossa le permette solo un sorriso. Eppure, con uno di quei miracoli provvisori che solo i vecchi riescono a concepire, lei è sicura che i gatti volino ogni mattina nel paradiso delle proprie carezze.

Dev’essere stato così da moltissimo tempo ma non ne è sicura. Giselle non ricorda quasi nulla, guarda i gatti che fremono e s’azzuffano ai suoi piedi, il suono rauco di una risata che sale dalla grata sulle cantine e poi il silenzio, privo di ogni associazione.

Non ricorda nemmeno come ci è finita qui, non sa dire chi siano queste persone che vengono ogni tanto a visitare la cantina ammuffita.

Qualcuno deve averle detto che hanno a che fare con un vecchio poeta malato e maledetto che visse qui, dimenticato, gli ultimi giorni di sofferenza della sua vita.

I gatti, il gocciare pigro di una fontanella, il chiosco di fiori all’angolo del vicolo, il macellaio che ogni tanto viene a portarle gli avanzi di carne della giornata. Tutta qui la coscienza di Giselle, il punto di sutura del mondo. Mai un filo di memoria che la obblighi troppo a lungo. Più in là nel grande viale Parigi affolla le sue arti di metropoli, i traffici eleganti, gli odori di baguette sfornata e fiori marci e gas di scarico. Nel vicolo solo umido, fogna, prurito di gatto, e quando c’è il sole una lama sottile di luce che precipita al suolo dall’alto dei palazzi, tra mezzogiorno e le due del pomeriggio.

Eppure ci sono alcune memorie abbastanza precise nell’ordine minimo dei suoi riferimenti. Ricorda lo sguardo braccato e le orecchie tese di un Grigio di pochi mesi che sguscia spaventato dall’imboccatura del viale. Lo vede ancora mentre scuote il mantello di elegante Certosino e corre da lei che sta infilando la chiave nel portone.

L’aveva preceduta sulle scale del palazzo e s’era fermato sicuro davanti alla porta della sua piccola camera in attesa che lei scalasse faticosamente l’ultima rampa del piano. Poi era sgusciato dentro con dignitosa naturalezza, come se fosse di casa da sempre.
Grigio dormiva giornate intere sull’unica poltrona della stanzetta buia e si alzava solo per mangiare. Poi le veniva addosso a strofinarsi il pelo, modulando un suono profondo di basso che la faceva addormentare felice.

C’era qualcuno che veniva ancora a visitarla in quel periodo. Qualcuno di cui non ricorda altro che una voce dal tono basso, rassicurante, e occhi scintillanti mentre sulla porta di casa le poggiava un bacio sulla guancia e poche parole dolci vicino l’orecchio che le facevano accapponare la pelle di un sentimento strano, dai contorni languidi, che le confondeva i pochi pensieri:

Rientrando trovava poesie e magnifici fiori che tripudiavano sul tavolo. Il profumo si mischiava a quello dei pasticcini e all’odore di spazzatura abbandonata in qualche angolo, a quello dell’urina di Grigio che ormai era tutt’uno con la piccola camera scura.

Giselle non ci faceva molto caso, odori e oggetti e persone cominciavano a entrare e uscire dal fuoco della sua attenzione senza lasciare traccia.

Poi un giorno Grigio era scomparso improvvisamente, per un periodo molto lungo.

Giselle ha un altro ricordo, ma solo perché quel pomeriggio, dopo mesi di dolori, aveva scoperto come camminare senza avvertire la pena nelle ossa. Era semplice, bastava muoversi lentissimamente. Pochi muscoli di vecchia avevano trovato la sospensione giusta intorno alle articolazioni infiammate.

Era uscita di casa per mercanteggiare un po’ di cibo col panettiere del viale e c’era un bel sole a carezzarle la schiena curva. Aveva deciso di allungare la millimetrica passeggiata sul marciapiede largo di folla fino ai giardini di Lussemburgo. C’era un gran frastuono di automobili, e manichini dalle pose enfatiche dietro le vetrine, bambini che si rincorrevano, giovani che si amavano sfacciatamente, donne bellissime sotto braccio a uomini eleganti, dal portamento eretto.

Giselle sorrideva a tutto e tutti e non s’era accorta d’aver attraversato da un pezzo le alte cancellate di ferro dei giardini.

Non l’aveva notato subito, forse non lo aveva nemmeno riconosciuto. Lui, mantello di fumo ricamato di piccole ferite. Stava sdraiato zampe lunghe sulle assi scardinate di una panchina vicino all’entrata opposta del parco. Era cresciuto il doppio della sagoma adulta che Grigio di pochi mesi faceva presagire. Aveva alzato una grossa testa distante e tirato fuori un piccolo ruggito rauco di saluto. Poi era scattato in piedi e l’aveva seguita posando potenti muscoli di feltro nel ritmo lentissimo della sua camminata di ritorno.

Giorni vuoti sarebbero trascorsi, giorni scanditi da contrappunti minimi dell’esistenza di Giselle, notti affollate di sogni che non avrebbero mai superato la soglia dell’alba. Grigio non era più salito nella sua piccola camera. Aveva fatto tana tra i bidoni della spazzatura in fondo al vicolo insieme a una bellissima gatta nera comparsa improvvisamente da chissà dove.

Giselle provava una stranissima sensazione a vederli starsene gran parte del giorno sdraiati l’uno sull’altro, occhi semichiusi e sguardo lontano, oppure a leccarsi reciprocamente il mantello, leggermente frementi, come docili amanti che oziano nel cerchio stretto dei propri calori selvatici.

Giselle rientrava in casa e si fermava davanti a un vecchio specchio annerito. Laggiù di fronte vedeva occhi che sorridevano e se stessa accarezzarsi i capelli. Apriva allora vecchi astucci polverosi, stappava boccette, avvicinava piccoli pennelli e piumini infeltriti a gote e occhi e labbra.

Da che parte andasse il tempo, se avanti o indietro o solo intorno a se stesso, Giselle non avrebbe saputo dirlo. Così come quando fu che che venne quella precisa alba livida a bussare alla finestra opaca della piccola stanza.

Giselle apre a fatica gli occhi sull’oscurità appena schiarita e trova lampi di dolore a frugarle tra le ossa, immagini chiare come non mai che ballano in fondo ai pensieri. Immagini e sensazioni e suoni perfettamente a fuoco, come se mai si fossero allontanati dalla coscienza.

E sbattere penosamente le palpebre non serve a nulla. Il fantasma resta lì, incrollabile, a ridere sfacciatamente di lei.

Diomio, diomio, prega a voce alta Giselle.

La risata di Jean sui suoi modi defilati di ragazza modesta.

La risata di Jean sui suoi occhi bassi mentre l’invita al centro del salone delle danze.

La risata di Jean per le sue smorfie recitate davanti a uno specchio ovale.

Jean amava più di tutto un grosso gatto grigio che si chiamava Charles.

Dio mio Jean. E’ ancora vita questa, si domanda Giselle, mentre come una muta di lupi infreddoliti i ricordi tornano a cibarsi della sua coscienza.

C’era una gran calca di folla al Bistrò e odore di cipolle sospeso sui camini fumanti delle pipe strette tra i denti. Era rosso in volto Jean, aveva gli occhi cerchiati da troppe notti e il fiato corto dei lunghi sigari, delle diatribe letterarie che si consumavano ogni sera intorno ai tavolini affollati. Dalla strada arrivava il suono di Parigi, fragori di tram e voci alte e passi svelti a percuotere il selciato.

Successe in un attimo in cui lei s’era voltata, distratta dalla grande porta a vetri che imbarcava i vestiti da sera degli spettatori del teatro che venivano a bere a fine spettacolo.
Aveva sentito come un boato silenzioso, una specie di crollo dentro. Si era sentita soffocare da singhiozzi. Si era chiesta perché.

Jean non doveva vederla in quel modo. Lei era solo una piccola ragazza dalle gote infiammate, da poco giunta dalla provincia, cui la fame giocava ancora brutti scherzi.

Aveva atteso qualche istante prima di girarsi di nuovo.

Aveva atteso ancora per ricomporsi il sorriso sulle labbra.

Jean…” aveva detto infine tirando su col naso.

Jean andiamo via” aveva ripetuto voltandosi.

Jean…”
“Jean!”
Giselle trema, le sembra peggio del solito oggi.

Il dolore cambia forma, s’arrampica lungo le ossa, gira intorno alle articolazioni, prende possesso infine dell’intero suo corpo. Così chiude gli occhi e cerca di trattenere il respiro.

Se mi sforzo di resistere, pensa, i ricordi se ne andranno così come sono venuti e io potrò dormire per sempre.

I miei gatti. Tra poco avranno fame, riesce ancora a dirsi Giselle.

Avranno fame come tutti i gatti che per anni l’hanno aspettata sul greto della Senna, sotto Pont Saint-Just, e vicino ai giardini di Place Vendome, nei lunghi anni in cui non aveva fatto altro che sognare Jean, e cercare Jean, e domandare di Jean a una città che per lei non aveva più risposte, solo folla indifferente sui marciapiedi dei boulevard e cortine di nebbia che salivano dal fiume.

Folla e nebbia e una casa dalle tende di porpora e merletto da pochi soldi, una maitresse gentile e delle compagne ciarlanti e comprensive, il pane sicuro dietro la porta di casa.

I gatti sanno già tutto, amava dirle Jean, anche che è inutile porsi troppe domande.

Ecco, avrebbe capito Jean.

Il giorno che fosse tornato non ci sarebbe stato bisogno di spiegare nulla. Giselle l’avrebbe aspettato, nel frattempo il destino si sarebbe preso cura di lei, e lei, avrebbe imparato presto a non arrossire più.

E’ ormai giorno pieno quando il corpo di Giselle percosso da violente convulsioni si accascia nella sporcizia del vicolo appena di fronte al portone del palazzo.

I gatti le sono addosso in un attimo. Grigio strappa il sacchetto delle interiora dalla cintola e corre via come un fulmine a nascondersi tra i bidoni dell’immondizia.

Rimane Nera accanto alle rughe moltiplicate della sua smorfia supina. Nera che con un piccolo balzo le si arrampica sul corpo vestito di stracci e mette il muso vicinissimo ai suoi occhi socchiusi. Mentre ancora, forse, si sente il suono di una risata che le arriva addosso, salendo dall’entrata delle cantine.

Se così fosse, davvero, siamo certi che si alzerebbe un vento a portare via l’ultima cenere di luce dal corpo di Giselle, a farla cadere tra le pupille screziate e nei riflessi selvatici di Nera che avrebbe un sussulto.

La gatta abbandona il manichino immobile del corpo di Giselle.

Si allontana lentamente verso i bidoni della spazzatura dov’è acquattato Grigio, in attesa dell’amore.

Nera ha un movimento diverso e una scintilla in più nella fessura degli occhi.

Grigio freme. Lui sa.

Sappiamo che ha sempre saputo.

* da I Fiori del Male – ed. Einaudi, traduzione di G. Raboni

***

– questo racconto è dedicato a Colpi di Sole, con tutta l’anima, lui sa cosa.

17 risposte a “I Gatti di Baudelaire

  1. il tema dell’oblio senile mi attrae e mi respinge da sempre, il “gattolicesimo” è una dottrina che mi affascina, Parigi mi gonfia il cuore e la memoria. Direi che gli ingredienti per centrifugarmi il cuore in questo pezzo ci sono tutti. Enchantèe…

  2. certe volte vorrei che i gatti (ne ho due) fossero un po’ cani… ma l’unico vero abbandono è quello di se stessi, in questo senso il tuo bel racconto è anche malinconico monito

    • già, un po’ come per i bambini, la retorica comune non considera il lato inquietante dei gatti, che ha molto a che vedere con quello degli uomini, grazie del passaggio kati

  3. io rischio di far la fine di Giselle, se non l’ho già fatta. (comincio a pensare di essere lievemente masochista Alex, a tornare a farmi scartavetrare da te, ma ha ragione che dice che è impossibile resisterti)
    v.

    • io farò la fine di Grigio, di vita in vita prima o poi il gatto va provato, magari si scopre che la tappa del karma è sanamente evolutiva.
      guarda, se ti candidi a Gisella (ma in romagna non ci sono più le case di tolleranza) ti meriti minimo un millennium di Galliano, non so se hai presente

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