La chiarezza più pura che hai sperimentato appartiene a quelle sonanti mattine in cui, rullando sulla pista, il viaggio spinge l’odore di kerosene fin dentro le tue vie aeree più segrete.
Infiniti feticismi minori accompagnano questi giorni e quelli precedenti in cui il sogno prende forma, il sorriso stanco di un addetto alle biglietterie, una Lonelyplanet che mostra già le orecchie della consunzione, il gioco quotidiano della sottrazione di peso a un bagaglio che appare estremamente necessario o estremamente inutile, il passo felpato che invade l’etere delle partenze, il pensiero che si parta sempre da soli, alla fine, per un viaggio iniziatico che ha poco a che vedere col tormentato concetto delle vacanze.
La casa che ospitò Rimbaud, ad Aden, è l’unico motivo plausibile per sostare in questa città di clima infernale che vive del disordine dei mercati, sotto le occhiate assassine degli addetti ai banchi del pesce che calano violentemente le roncole sulla pelle luccicante di tonni in esposizione.
Essere esposti a una lunga via di coscienza che si fa beffa delle mezze misure, tutto lo scivolo dal più distante immaginato all’estrema concretezza di un corpo che si sposta nello spazio producendo sudori e idiomi e relazioni impensabili, soltanto prima.
A cavallo del Mar Rosso, nel triangolo geografico tra Massawa, Gibuti e Aden, si vive l’arroganza di un clima che pochi altri luoghi al mondo hanno la faccia di inalberare, se avete presente l’effetto che fa entrare nella cabina della doccia bollente che scorre da cinque minuti, non c’è nemmeno bisogno di sperticarsi nel programmare l’itinere, avete già fatto metà del viaggio.
Arthur Rimbaud scrisse ciò che scrisse nel battito di ciglia di tre anni, ne aveva ventidue o giù di lì quando perse la testa o quando la riconquistò, dipende da dove si punta il binocolo, quando bruciò la penna giustiziando il fatto letterario e si mise in viaggio per le strade oscure del mondo andando a conquistarsi un’eternità privata, incomprensibile ai più, nei bassifondi di Aden.
A Bir Ali, Yemen del sud, facemmo un bagno che dirsi incanto è una boiata diminutiva, c’era una tipa di Torino ipertiroidea, imballata, naturale come una peste, che s’era ferita a un piede con certe rocce aguzze; non sapendo più in quale altra maniera affliggere l’universo degli altri la tipa cominciò a zoppicare vistosamente, zoppicò per giorni, finchè una volta, non visto, la guardai attraversare una strada credendosi sola e andava invece come una lepre, finchè poi un santo ragazzo chiuso, montanaro, di Vercelli, non cominciò a portargli lo zaino.
Ho attraversato gli anni Novanta nel mito del viaggio avventuroso di gruppo, tre estati che non sapevo dove poggiare la testa, che sbatterla era già diventato esercizio fuori del mio concetto di decenza; si fa coppia abbastanza facilmente in queste trappole per single alternativi, a patto che non si soffra ancora di quella stupida passione giovanile per la più bella o per il più fico del mazzo: ho sbagliato cavallo per tre estati di fila, Antonella, Raffaella e non ricordo chi cazzo d’altra si son mangiate le mie puntate al buio senza nemmeno arrivare in zona medaglia, ripensandoci, ricordo ancora perfettamente le altre, carucce, più provinciali, magari con i rossi alle guance, ma con ciglia che sbattevano decisamente verso di me che non ho mai smesso di essere un po’ coglione, con la benedizione di Rimbaud.
Ho cominciato a viaggiare da solo da quando sono parzialmente rinsavito, con l’avvento del terzo millennio; non potendo considerare Gibuti una meta plausibile, non c’è niente da vedere se non il buco di culo del mondo, l’estetica mutante della più bassa frontiera, le caserme francofone della Legione Straniera, una temperatura che sfora i cinquanta gradi col 90% di umidità, mi manca solo Massawa, sulla sponda opposta ad Aden, per placare la mia fame di un certo tipo di viaggio.
Ecco, mi immagino già sulla costa Eritrea a scrutare l’orizzonte marino affumicato dalle dense brume dell’evaporazione selvaggia, cercando un difficile costoso passaggio per le isole Dalhak che sono quasi totalmente disabitate e ancora sconosciute alla truppa turistica, così gettate in un mare corallino tra i più caldi del globo dove la vita marina vibra su scala gigantesca ed è talmente densa da far domandare davvero a cosa servano quei quattro sparuti uomini che sulla terra respirano l’aria.
Ecco, da questo punto critico del viaggio, l’immaginazione preparatoria, metto un messaggio in bottiglia sapendo già che non potrà aver riscontro, se c’è qualche anima dispersa che possa fornirmi qualche informazione utile a interpretare al meglio l’incontro con le Dalhak si faccia avanti, per cortesia, sono in ascolto.
Intendiamoci, è’ questo il punto in cui si ha la certezza che la letteratura non serve a un cazzo, si voglia il mare solitario o i loschi traffici d’armi e la sifilide a chiudere il cerchio in un vicolo di Aden, non c’è nulla al mondo che somigli più all’estasi che la pura sensazione, andare e tornare, andare e non aver null’altro da dire.
Sensation
Par les soirs bleus d’été, j’irai dans les sentiers,
Picoté par les blés, fouler l’herbe menue:
Rêveur, j’en sentirai la fraîcheur à mes pieds.
Je laisserai le vent baigner ma tète nue.
Je ne parlerai pas, je ne penserai rien:
Mais l’amour infini me montera dans l’âme,
Et j’irai loin, bien loin, comme un bohémien,
Par la Nature, — heureux comme avec une femme.
segui il tuo fiuto, le tue sensazioni. chi altri meglio di te, può sapere qual’è la strada giusta per te. bye bye
se scendiamo nel particolare concreto, ci son due difficoltà da affrontare: la temperatura rovente e non farsi spogliare di euro dai pochi sambuchi che navigano fino alle Dalhak.
ahhhh…beh!!!
Mi sporgo a guardare un mondo lontano, sento gli odori pesanti, persistenti, e ritrovo frammenti di parole poetiche: Rimbaud che si perde o si trova…bello, leggerti!
ma grazie, il viaggio è una forma di devozione,credo, e anche poesia scura, che prende il timone..
sono io che ringrazio te e anche germogliare, che mi ha ben consigliata invitandomi a leggerti.
io invece spero che quando tornerai avrai moltissime cose da dirci 🙂 ché come li racconti tu, i viaggi, perfino quelli ancora sulla carta, nessuno.
battutona: e se ne avessi poche o nessuna, forse, sarei salvo davvero invece 🙂
il viaggio è incanto.
“il viaggio è una forma di devozione,credo, e anche poesia scura, che prende il timone..”
ecco. tu riesci a stupirmi.:-)
“Je ne parlerai pas, je ne penserai rien:
Mais l’amour infini me montera dans l’âme,”
c’è Rimbaud e… ci sei tu.
è emozionante leggere un tuo scritto.
tu sai far cogliere.
buon sole!
gb
grazie gelso, buoni itinerari a te
grazie. “buoni itinerari” è un augurio davvero speciale!:-)
gb