Quel cane a 3 zampe (Landscape ten)

eur3Le nove di mattina o forse le sei di pomeriggio.

Dalla tua prospettiva unica non fa differenza, non come guardare un po’ stupito tutto il quartiere e le metropolitane che si riversano in strada, simili al tributo necessario di un’antica piaga biblica.

Tutta la selezione di facce anonime in sequenze di avanti veloci e uscite di campo e stop per rifiatare un attimo, guardare orologi, sistemare giacche, chiamare qualcuno con la voce, con il gesto ansioso di una mano.

Tutto il tempo che gira intorno alle gambe e le fa scattare, come se ci fosse un cane ringhioso che fa la guardia alla sequenza giusta di ruoli e tempi e percorsi, perché nulla vada perso. Ad eccezione di te che sei senza occupazione, in un ruolo periferico, fermo ad aspettare.

(Godersi l’invasione dei corpi senza senso

per tutta la larghezza dei marciapiedi
lontano dalla considerazione del rischio

il rischio di diventare un rumore automatico

seppur perfetto

nell’ingranaggio grasso della ruota)

Le nove o le sei, forse, e il cane del vicino che non t’appartiene.

Seguire i contorni delle cose con piccole carezze di sguardo distratto, tenersi il pensiero che lei alla fine non verrà, che per oggi non ci saranno altri gesti notevoli che quelli del barista che risistema i tavoli sotto la tenda mobile con gli stessi movimenti lentissimi di ogni giorno, la stessa faccia di vita parallela, che si frega di tutto.

Oppure accorgersi che si avvicina sballottata tra onde di impiegati, come la vedi da un po’ di tempo, guardando in aria e al suolo e poi di lato, come se fosse distolta dalla lettura di qualcosa di molto intenso dentro di sé.

Come se giungere di fronte a te a pochi centimetri dal tuo leggero sospiro non valesse più il miracolo di occhi sgranati e sorpresa e gesti nei capelli e poi braccia intorno al collo come corde tese a rafforzare i nodi.

O forse no. Si tratta solo di una prospettiva transitoria che non capisci. Un attimo isolato dagli altri, fuggito senza padrone.

Ti parlava di lui, quell’altro, un po’ sfocata e un po’ distante.

Concetti precisi sulla presenza ingombrante dei suoi bisogni, valutazione di scarti esistenziali, sfiducia nell’idea che esista un sempre per due. L’aria incerta di chi sta partendo con una nave e va a cercare le strade e le case e i vecchi segni alle finestre finchè tutto non sparisce dietro l’orizzonte.

Capisci che sono le solite cose tra amanti che si liberano di un peso, capisci anche che il pensiero di appartenere, tu e lei, a una classe generica di amanti con un cane specifico cui sottomettersi non lo avevi mai considerato.

Guardarle il fondo degli occhi.

Ci si può accorgere di tutto se riesci a fissare quel punto concentrato di lei, per più che una frazione di secondo.

(il motivo del perché ha fatto

quel suono dolce e nessun dolore

la tua spalla di corsa sulla mia

all’uscita della metropolitana

quando nessuno ancora si aspettava niente)

Bella la tua faccia mentre affonda nel ripieno del tramezzino e si lecca le labbra e c’è una bibita gassosa che gorgoglia malamente in gola. Una folla di impiegati che vi spinge e una certa fretta che non vi è mai appartenuta.

Questione di prospettive. L’attenzione. Oggi non riesci a fissare quel punto.

Una radio che strilla sopra di voi, le percezioni che si accomodano ognuna per conto proprio, in ordine sparso dentro di te. Attenzione.

Lei ha cominciato a parlarti di lui per la prima volta, o forse ti sbagli. Parole scelte con cura, a se stessa più che a te.

Cose come la professione che lo tiene lontano, la responsabilità verso certi bambini che nascono senza le necessarie difese e tutto il tempo che lui gli ha dedicato, la fantasia e la fatica e l’intelligenza.

Bambini che non hanno. Lei senza fiato come in una morsa. Ci si può perdere. E’ più facile di quello che si può pensare. Lui s’è preso una malattia sottile che non è classificabile, qualcosa che ha a che fare con le necessità di ancorarsi alla materia, di rendersi devoto agli impegni, una specie di salvezza che lo danna.

Qualcosa che ti sfugge.

Il senso di lei che ti parla di lui, in piedi, di fretta, mentre mastica e inghiottisce e guarda in alto, mostra il collo di gazzella.

Letture possibili di un corpo che nasconde preghiere, e tu non la capisci.

Alla cassa, con gesti espliciti nelle braccia, vi schiaffeggiate le mani un po’ su chi debba avere il piacere di pagare il conto.

(girare su una ruota panoramica

volando a comprendere

tutti i limiti dei palazzi che spezzano il cielo

verso il mare e nell’interno)

Offrire il tuo tempo e il tuo vuoto all’espressione più pura della sua inquietudine. Farci l’amore sopra per sentire quanto siete connessi, benché provvisoriamente, da legami irrazionali di carne e sangue.

Tu che ti rialzi spossato, e in fondo a tutto pensi che non esista nessun legame in nessun luogo. La carne trattiene il sangue, come se gli impedisse di perdersi.

Il vostro spazio puro come fosse capitato da un tempo lontano, prima che una certa mutazione genetica liberasse una brutta serie di cani affamati in giro per il mondo.

Gli scherzi. Il suo viso e le tue mani.

Sono solo prospettive.

Come dipingere a manate e secchiate di colore le pareti della casa al mare, perché tanto i muratori prima di qualche giorno non si faranno vedere.

C’è la musica che fa bussare i vicini e tu che vai a nasconderti puntando i piedi nella cabina armadio. Dopo c’è un balletto di occhiate e sorrisi per ristabilire l’amore, la complicità, un balletto che dura poco.

Un grido che lei fa, lungo e modulato, diresti un po’ privo di contesto, mentre viene con gli occhi rovesciati, aggrappata provvisoriamente al ripiano delle sue camice.

Che non ci sia altra spiegazione da scambiarsi, solo rimettersi i vestiti e osservare il movimento che fanno le cose quando muoiono o riprendono vita, per qualche strana prospettiva che non riuscite a leggere.

Tu che ridi, lei ti cade in braccio, il suono molesto della gente che rientra dalla spiaggia, alla fine del week-end.

Se è questo davvero.

(tutto l’esilarante vuoto che sta lì in mezzo

diventerebbe sostanza

se la ruota dovesse fermarsi

per uno stupido guasto meccanico)

Una sera che lei organizza fuori con i colleghi a casa di qualcuno e non puoi dire di no, con tutto il tempo che hai dalla tua parte.

Vieni citato come esperto, il gran gioco degli affari, delle dinamiche umane. Uno che per eleganza non concorre più a una posizione di dominio sociale, una specie di saggio in sospensione sabbatica, con molto spazio e anima davanti a sè.

Lei ti tratta come un esperto di metodi, uno di quelli che in fondo a tutte le confusioni tengono lo schema di una geometria precisa su come collocarsi al mondo. Se fossi distratto ringrazieresti quasi, ma non sei proprio sicuro.

Di là senti come parla di lui. Disegna con belle frasi un panorama generico di complicanze maschili e sistema la sua non appartenenza dolorosa in mezzo a tutto, con il gesto di ambiguo affetto con cui si tratta una ciliegina candita.

L’impossibilità di considerare se la torta sia riuscita o meno e a quale fine specifico. Se la mangerete insieme o finirà in offerta a qualche fiera di beneficenza.

Poi la compagnia che si ricompone e c’è uno di quei tuoi fuochi sociali di parole e sorrisi, il gesto dell’esperto che si concede, la bella luce sotto cui ballate stringendovi al limite.

Più tardi un’altra volta amore con i graffi sulla schiena e lo stupore. E un silenzio molto ben messo dentro.

Un silenzio portato a braccia, tu e lei, per sequenze di incerte mezz’ore in prossime settimane rapide come treni di schegge, dopo l’esplosione.

In primo piano resiste il fondo del bicchiere da cui la guardi senza smettere di bere e farti spazio tra i gomiti e le voci incongrue che ti chiudono lo spazio appiccicoso del pavimento.

Qualcuno ha rovesciato il dolce.

(non voglio sentire la sorpresa

il rumore dolce che fanno le strade

quando non hai i sensi tesi dalla necessità)

Un cane a tre zampe viene fuori dalla folla e tu stai per andartene.

I tavolini sono ancora tutti al loro posto, il solito barista deve essersi licenziato.

Le sei o le nove passate e la luce è chiara, accecante, vedi le sagome degli impiegati come figure scontornate di un film di fantascienza. Ma potrebbe anche darsi che ti sei fissato controluce, là da dove ci si aspetta che vengano le cose.

Viene fuori questo cane ai tuoi piedi, piccolo, fa tre salti su tre zampe, atterra sempre in perfetto equilibrio.

Potresti ancora essere il figlio di un altro mondo, sceso nel quartiere metafisico per popolare di passeggiate veloci i larghi corridoi sotto i colonnati fascisti, cinque o sei giorni a settimana

Questione di telefonate. Riprendere i contatti giusti.

E agitare un orologio e un telefono hi-tech e una borsa di cuoio nella mano, sbattere i tacchi sulle grate delle cantine di venerdì sera tardi, quando i palazzi e le strade riprendono la sostanza di un plastico di dimensioni giganti e l’aria intorno fa un certo sapore, difficile da inghiottire, un ronzio di assenza leggera, come un piccolo sogno zuccheroso che ti si infila nello spazio tra i denti.

Bambini senza le necessarie difese, di questo in definitiva si tratta.

Il motivo per cui lei non verrà più.

E tu fai come a non esserci, immaginando che lei arrivi infine di corsa, venendoti a cercare perché la sbilanci o le dai equilibrio, perché fate parte di un movimento essenziale o di uno stop.
Così vedi che lei ti si precipita addosso attraversando la tua carne decomposta e sbucandoti fuori dalla schiena. Senti quasi la carezza di un conato, qualcosa che ti spingerebbe a vuotarti del tutto.

Lei continua a correre e tu ridi, dall’abisso di un mondo parallelo, hai varcato la soglia e non c’è nulla da dire, solo il dolore che calpesti e lasci schiacciato a terra.

(il piccolo cane a quattro zampe

che corre in circolo

sui tuoi passi

fa uno strano sorriso)

13 risposte a “Quel cane a 3 zampe (Landscape ten)

  1. ci sono storie che si possono raccontare solo a se stessi
    l’ambientazione è perfetta, come se il “quartiere metafisico” colasse direttamente nella scrittura, non dico l’immagine, proprio la materia
    una si chiede come mai questo non stia fra i paesaggi ma subito viene trasportata dal cane tripode che ritorna, uno a cui manca qualcosa senza la quale sopravvive senza sforzo, a meno che non si tenga troppo all’ordine, alla simmetria
    non lo so perché fa male, di poco sopra il diaframma

    • ho fatto l’impiegato all’EUR per tre anni, ce ne sarebbe da raccontare, quaggiù qualcosa aveva già deciso di deragliare per conto suo, e l’Eur è quartiere perfetto per uscire dal mondo, uno state-of-Mind dell’universo parallelo.
      (uno si chiede come mai questa non gli venga automatico il timbro del maledetto Like 🙂
      poi in effetti, la vince il cane tripode, cui ricresce improvvisamente un arto.

    • prova tu a muoverti dall’Eur, in coda sulla Cristoforo Colombo verso Casal Palocco una sera che è un unico fronte di pioggia, senza nemmeno un Like di speranza 😀

  2. Bello tutto, ma questo pezzo in particolare:
    E agitare un orologio e un telefono hi-tech e una borsa di cuoio nella mano, sbattere i tacchi sulle grate delle cantine di venerdì sera tardi, quando i palazzi e le strade riprendono la sostanza di un plastico di dimensioni giganti e l’aria intorno fa un certo sapore, difficile da inghiottire, un ronzio di assenza leggera, come un piccolo sogno zuccheroso che ti si infila nello spazio tra i denti.

    Ho sentito i rumori, i sapori, le immagini, le sensazioni.
    Complimenti Alex, ti leggo sempre con piacere, devo sempre leggere la seconda volta per assaporare meglio è! Che la prima vado troppo veloce!
    🙂

  3. e poi ci sono quei momenti in cui i nostri pensieri si fanno parola,suono, perché qualcuno li ascolti o per cercare di rassettarli. e si muovono in un non-luogo, perché le storie di passione confusa abitano in questi spazi. e si generano e rigenerano, lasciando traccia.

    ( e mo! giusto un po’ confusa, ti saluto…)

    • del bipede “come del maiale” non si butta niente.. 🙂
      soprattutto le storie e i luoghi delle nostre sconfitte, non c’è nulla di più tenero e dolce, nella vita, che guardare come un giorno quei luoghi e quei gomiti ciechi rifioriscano, esattamente da quel punto dove ci hanno sparato, dalla consapevolezza che non c’è bene e non c’è male nel percorso del Sè, solo capacità di osservare come le cose mutano, nella luce e nell’ombra, necessariamente e senza sosta.
      (anch’io ti saluto, figlia degli altopiani 🙂

  4. Devo rileggerti ancora, Alex!
    Non sto bene e…
    “Bambini senza le necessarie difese, di questo in definitiva si tratta.”
    Scritto molto profondo.
    A presto!
    gb

  5. Affascinante la tua scritttura. Non tutto comprensibile ma il dolore sì. Con la fine di una storia si perde sempre qualcosa. Raccontata così, si percepisce il dolore

    • in realtà non c’entrava tanto il “dolore”, quanto lo spaesamento di una rottura consapevole coi riti del collettivo, amorazzi clandestini compresi, ma questo lo coglie meglio chi vive-scrive, benvenuta anna, grazie

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