Guardo il campo scosceso che ho di fronte dove in mia assenza o presenza i grovigli di erbe fanno ciò che vogliono, comunque.
Alla luce delle sette di mattina, la più pura e sorprendente, quella che sfiora appena le ombre della bignonia e il folto oscuro, ingestibile della rosa selvatica, questo fiducioso apparire di contrasti sbianca e sottolinea le pietre antiche che sorvegliano le mie spalle, impennandosi per il breve monito che appare la torretta vista da sotto.
Vedo tutta questa pioggia di fotoni intensi, simile a una raffica di laser naturali tra i grandi rami torti del boschetto e nella macchia di canne inselvatichite che delimita il fosso.
Percorro la mia visione che comprende la metà infusa dei quartieri interiori cercandone i margini slabbrati, il punto dove si infilano le emozioni opache, la somma dei ricordi e degli intuiti, il polso complicato del nuovo qui e ora, e devo concedermi il fatto che tutto questo faccia ancora una leggera paura.
Intorno, la smagata campagna sabina confabula tra sé e sé producendo quel soffio o quello sputo di acuti e strofinii, di fronde che sciabordano e uccelli che stallano gridando nella grande carezza del vento, poi si impenna nella tormentosa asserzione dell’asino che abita la collina di fronte e pare il lamento di sirena di un vecchio Ferry all’ultima partenza utile della vita.
Lungo tutto il bordo della terrazza mediana del campo, tra lo svettare delle ortiche che paiono trifidi semoventi d’altri mondi, vicino al piccolo mausoleo di pietre che ho messo a protezione della tomba del mio gatto, Colpi di Sole, la terra è ancora svelta e scavata dalle scorrerie dei cinghiali che cercano tuberi, laddove l’anno scorso erano abituati a trovare le delizie di un orto da concorso. O forse, avvertono solo il sottile umore di carogna che deve percorrere il terreno intorno.
Le formiche al solito sono ovunque, in casa e fuori e attraverso il tetto, cosa c’è da dire ancora di questi esserini scolasticamente umili, qualche film sgomitante della Disney, o che a qualche marmocchio forse ancora si racconta la balla della cicala e della formica, in ottemperanza al culto conservatore della manovalanza minima dell’esistenza.
Le verità è che le ottuse formiche sono il precipitato attivo dell’esperienza naturale della campagna, e anche oltre. Il giorno che metti la faccia nell’erba ti accorgi che di questi trascurabili esseri ne esistono infiniti generi, se ne vedono di rosse, di nere, di grigie, di trasparenti, e sono di taglia piccola, media, grossa, alcune dotate di deretani davvero giganteschi, altre addirittura con le ali, e tutte sono in incessante attraversamento di altrui corsie, in eterna lotta di salita discesa di interminabili steli di graminacee, le formiche si arrampicano scambiando a caso l’orizzontale col verticale, proiettando le distanze a casaccio come giroscopi infinitesimali di un automatismo mai domo.
Le formiche fanno più paura degli scorpioni, di questi altri inquilini di casa perfettamente conchiusi che possono rimanere immobili nell’ombra per mesi, testimoni primitivi che non mutano da trecentomila anni, perfettamente solitari così come riescono a vivere, nutrendosi di nulla.
Incute timore e rispetto, invece, questo traffico incessante d’anima mundi che si svolge tra le erbe, nel dominio dell’umano impercettibile, questo universo brulicante della necessità naturale che ha il controllo capillare della terra e non la smette di scavare, fa senso il messaggio che esista un canone profondo di pulsazioni, che fuori dall’eccezione iperbolica dell’Identità umana la vita è puro schema di necessità automatizzata, senza alcun gancio di bene o male o fatica cui far seccare i propri trofei consolatori.
Il movimento è incessante e va percorso senza pena, senza ammettere la presenza di ostacoli a discarico.
Così, l’unica battaglia che sento d’aver vinto procedendo nel moto perpetuo delle formiche, quaggiù in campagna, è quella con alcune delle mie ultime oscurità personali, con il dialogo tra me e me stesso e con il transito incessante e naturale delle ombre che appaiono ai margini dell’individualità, un po’ come lo sviluppo repentino di certi formicai molesti che ho trovato sotto il tetto e sul solaio della torretta.
La provincia fuori tempo che sognavo è ben salda nel paese che sorge alle mie spalle, cento metri più su nel digradare dell’ultimo ripido poggio della collina, eppure il mio terreno è come se sprofondasse in una sua precisa bolla selvatica dedicata, se si togliesse lo scampanio dell’orologio della piazza e qualche grido distante di ragazzino che piove ogni tanto fin qui, altro non ci sarebbe da ascoltare che il subliminale scorrere e disporsi del silenzio e degli eserciti degli insetti intorno a me.
Ho scelto questo rudere per la simpatia naturale che mi facevano le sue vecchie mura di pietra centenaria spessa sessanta centimetri, e lo sviluppo verticale fantasioso, terrazzato, del terreno, ma anche per il mormorio del ruscello stagionale che abita il fosso d’inverno e primavera. Non ho mai pensato seriamente di fare vita di paese, al di là di qualche tristemente enfatica bevuta di sgnappa che all’inizio mi son concesso pubblicamente al bar centrale, a conti fatti la presenza di un fantasma schivo avrebbe arricchito certamente di più quel poco di vita di farfalla sfibrata che conducono le cinquecento anime locali.
Col paese sono anche stato in guerra l’anno scorso, perchè si fa presto a generalizzare quando si risvegliano i bassi istinti. Così, il lato oscuro della forza che alberga in provincia di Rieti ha lavorato alacremente in me, soggiacendo inizialmente a diverse forme di timore e inattitudine al maneggio della sostanza, procedendo poi per acquisizioni rapide di buio potere che mi hanno seriamente arrotondato in consapevolezza.
Non il suono degli uccellini, non l’aria pulita e nemmeno il belare affamato delle umili capre del vicino Fioravanti, che del resto ogni approssimarsi di Pasqua vivevano già la loro forma rituale di macello silenzioso; sono state violente uscite dai gangheri, un desiderio ben formato di commettere omicidio che m’hanno a tempo debito pacificato, vogliate crederci o meno.
L’uomo dei cani e non “il canaro”, così voglio chiamarlo per non offendere quel vecchio re della cronaca nera, il leggendario truculento canaro della Magliana, con questa sottospecie di lontano parente di ramo sfigato mi sono dovuto scontrato per diversi mesi prima di venirne a capo. Si tratta di un tizio che aveva occupato il campo confinante col mio legandovi alla catena i suoi cani, a dieci metri in linea d’area dalla mia camera da letto.
Vi risparmio tutto, salvo il fatto che il campo non era nemmeno suo, e che la sfibrante trattativa per il rilascio dei poveri cani e del mio agognato silenzio l’ho dovuta condurre con tale Nennello che il nomignolo direbbe già tutto, proprietario dell’impiccio campestre adiacente, uno dei tipici articoli umani scardinati del paese, ostaggio di una moglie provinciale che gestisce il misero Alimentari del corso, una tizia bisbetica con una tipica fica malamente dentata, lui latore di infinite perdite di tempo e deliranti storie sui fattori oscuri del paese che per amor suo saltiamo a piè pari, incapace di convincere un neonato a digiuno ad attaccarsi alla zinna della madre, figuriamoci un ubriacone finto-psicopatico senza arte né parte a levarsi dai coglioni, lui e i suoi maledetti cani alla catena. Lasciamo stare.
Salvo il fatto, cardinale per l’equilibrio del mio Sè, che ci sono state due o tre notti in cui, avendole già provate tutte nonché da settimane allertato la Forestale sul problema specifico, ho messo una spranga di ferro accanto alla porta e ho atteso fiducioso che costui passasse di nuovo lungo il mio stradello delirando la grappa con cui si faceva coraggio lui stesso, prima di scendere verso le zone oscure della nostra contesa.
Per la prima volta in vita mia sono stato del tutto convinto e mi sono sentito libero, incredibilmente, di spaccare la faccia a qualcuno, un senza ritorno, pensate ciò che volete, che sono pavoneggiamenti da attore, quel che pensavo io quelle notti era solo di comprare successivamente qualche testimone che nel procedimento a carico avrebbe attestato come la spranga su di lui fosse calata pesantemente, ma solo in difesa di un’aggressione precedente subita. E questo assurdo limite sfiorato oggi mi completa, meglio di un’analisi.
E’ stato un caso, davvero un caso dei tempi che maturano fregandosene, che l’Uomo dei cani abbia ceduto per primo dopo quasi un anno, alla fine, levando i cani e non facendosi più vedere lungo il mio stradello.
Così questa è la prima vera estate in cui io possa dire: abito quel selvaggio silenzio di fruscii e gorgoglii che andavo cercando dalla natura, e sono di nuovo quel pessimista felice, solitario come uno scorpione, che mi sono sempre sentito.
Di tutte le attività di manutenzione ossessiva del campo e del grande orto con cui avevo riempito la stagione scorsa non è rimasto praticamente nulla, solo la bellezza del disordine naturale, la meditativa mancanza di un obbligo e la distanza che mi separa dal regno subliminale delle formiche, questo nuovo sentirsi ospite, non si sa quanto desiderato, di queste notti di uccelli notturni e fiuto da cinghiali, il tracimare dei battaglioni di zanzare tra le erbe che ho lasciato crescere e che cominciano finalmente a bruciarsi, l’assenza improvvisa, infine, della piccola tribù di gatti semi-selvatici che fino a poco tempo fa popolavano assiduamente la zona.
Il giorno che ho seppellito il mio Colpi di Sole ho chiuso gli occhi per non rompermi in lacrime, a ricordare come l’ho trovato io stesso, morto stecchito a cinque metri dal mio cancello dove sapeva che c’era sempre una testa di spigola grigliata che l’attendeva e quelle due o tre carezze che, tradendo la propria natura schiva, lui si faceva dare.
Ho voluto interpretare il fatto come una fatalità e ho voltato pagina, per non pensare ancora a quella maledetta spranga di ferro che non potrò più togliere dalla prossimità della porta della mia casa interiore.
Ed è così che l’uomo è venuto al mondo, come un turbamento necessario della natura, come un affronto all’ordine cosmologico delle formiche, con una mazza in mano per difendersi dal pericolo che la propria stessa coscienza genera e propaga di riflesso. Perciò, come ogni oscurità vissuta, tutta questa vicenda deve essere accettata come un dono, né buono né cattivo, solo un margine di strapiombo in più reso consapevole, una ridefinizione della mappa in uso agli equilibristi tra nature.
L’unica persona con cui continuo a chiacchierare in paese è il mio discreto vicino Fioravanti, uno armato della storica diffidenza dei Sabini verso i Romani ma che si definisce aperto e “progressista”, a cui di recente ho chiesto che diavolo di fine avessero fatto tutti i gatti dello stradello.
Ha fatto un sacco di giri di parole, lui era al di là della sua rete, io di qua nel vuoto del parcheggio dove lascio di solito la macchina, un posto un po’ maledetto dove storicamente vanno ad accumularsi le sporcizie del paese, percorso fognario e adolescenti molesti e spazzatura che lasciano al vento e che il comune non toglie più da anni, compresi.
Fioravanti a un certo punto ha fatto uno stop e ha tirato fuori la vecchia buona retorica del “parliamoci chiaro” e quel paletto ambiguo, un po’ ostentato e un po’ vergognoso, intorno a cui s’avvolgono spesso qui i precipitati dei discorsi: chi viene dalla città non si rende conto di come è la vita da queste parti.
Il punto è che questa volta associa il cazzo di paletto al fumoso discorso che lo impegna da un po’, e che io continuo provocatoriamente a riproporgli, sulla sparizione misteriosa e improvvisa dei gatti dello stradello.
Dice, ad esempio, che i cinghiali sono troppi, e vallo a spiegare agli animalisti, santiddio.
Dice questo e saluta, che ha un monte di cose da fare, e allora, infine.
Quale delle due nature fa più paura.
hmm…aria di campagna. mi ci voleva proprio. grazie.
grazie a te Ale e ben tornata, dici che ti ci voleva? ma sicura d’aver letto tutto? 🙂
si assolutamente. e conosco tutte le dinamiche descritte, le ho vissute. tutte. mi hai fatto tornare in mente un vecchio episodio, doloroso vissuto proprio in campagna, dove appunto le nature si mischiano ed è sempre più difficile riconoscerne la bestialità. ma il profumo acre della campagna ricopre anche quello dello sterco alla fine….per fortuna
perdona la “mancanza di fiducia”, ora capisco, era che se l’ho scritta vuol dire che l’ho metabolizzata sta storia, eppure credo sia una delle vicende più truculente che io abbia mai messo sul piatto, c’è una spranga accanto alla “porta” che lo testimonia.
mi piacerebbe passare da quelle parti. chissà, un giorno…
Io ora voglio la campagna sabina.
le chiavi son qui, per gli amici aggratis pure.
L’ha ribloggato su solounoscoglioe ha commentato:
un post che mi ha toccato nel cuore. proprio ieri mi è tornata a mente una crudeltà subita proprio in campagna e io non avrei mai trovato le parole giuste per descrivere certe emozioni di fronte la bestialità della natura umana.
mi approprio di questo post pubblicandolo nel mio blog perché, semplicemente, lo sento.
e questo è un grazie speciale, per le formiche e per i gatti
😉
dirti che non esistono due nature? che non ci sono distinzioni tra le specie e che l’animale-uomo in luogo della continuità continua a scegliere il dominio, in ogni suo atto?
non me la sento di fare discorsi. ti abbraccio e basta, Alex
(ah, stavolta dovrai rinunciare alla ciliegina e considerato che non hai avuto nemmeno la torta, abbi pazienza)
grazie ma..che ci faccio con la ciliegina, son spuntate certe more nel campo che ti farei vedere, non ci si nutre delle cazzate degli uomini, il quesito non mi si pone proprio, quante nature esistano è la tipica amenità che spiega la specie, ma niente contro di te, intesi? 😀
Le formiche, sono le formiche il centro di tutto, e lo scorpione che immutato e solitario le ignora. Il fatto è che i veri alieni sul pianeta siamo noi, la razza umana, la cui condanna originale è stata quella di non aver potuto abbandonarsi alle meccaniche perfette e pervasive della natura. In quanto alle spranghe, hai ragione, non ci si affranca da se stessi fino a che non s’impara ad accettare il bisogno di averne una appoggiata alla porta. Che sia di ferro pieno o meno, poi, non importa, assolve ugualmente al suo mandato ed ottiene gli stessi risultati. Un’ultima nota sulla cifra stilistica del testo e sulla costruzione che è perfetta. Si piange, si riflette, si ride, ci si commuove, ma il racconto procede e il filo non si perde mai.
grazie, la vedo all’indiana, apache per intenderci, ho domato lo spirito della formica e quello dello scorpione, speriamo almeno 🙂
augh grande capo Alex Seduto (sulla terrazza mediana, mentre il fiume gorgoglia e lo Spirito del Grande Asino domina la collina, così ti vedo…)
Inizi con la descrizione del paesaggio, illudendo il lettore.
Eh sì perché mentre tranquillamente mi stavo immergendo nella natura del luogo e mi riempivo gli occhi e le narici di tutto ciò che la natura può offrire, tracchete in agguato l’inganno!
Il risveglio è triste, perché c’è la tomba del tuo gatto che hai chiamato “Colpi di Sole” (?)
Non è finita li, quasi una pagina intera a parlare delle formiche e di quanto sia noiosa la loro vita programmata. Tra virgolette ti dico che le trovo noiosa anch’io la loro vita e da bambina mi divertivo ad affogarle o darle in pasto ad un ragno, vabbé ma questa è un’altra storia.
Le formiche però non credo siano ottuse, sono così come sono
Non è un caso che ti dilunghi così tanto con le formiche e con il traffico incessante d’anima mundi che si svolge tra le erbe, ti serve per spiegare come hai vinto la tua battaglia personale con alcune delle tue ultime oscurità personali, il dialogo tra il te e il te stesso ma procediamo…
Allora, hai deciso che orseggiare sia la cosa che meglio ti veste quando vai in campagna e l’orso si sa è buono solo se non lo vai a stuzzicare.
Cosa succede se l’uomo dei cani, decide di legarli a dieci metri in linea d’aria dalla camera da letto, provocando in loro una rabbia tale da farli abbaiare e ululare tutta la notte?
Tira fuori la parte peggiore che pur esiste in ogni essere umano e che è l’istinto omicida.
E qui rispuntano i pregiudizi, primo perché uno che di nomignolo fa Nennello non mi dice già tutto, secondo perché rispunta nuovamente la tua misoginia: la moglie bisbetica con una tipica fica malamente dentata (ho riso a lungo per questa espressione ).
Sei furioso e per uno che aveva vinto la battaglia con se stesso… ma lasciamo stare.
Poi la decisione, la spranga di ferro accanto alla porta.
Qui ti dico che hai tutta la mia comprensione soprattutto perché le cose alla fine si sono messe a posto senza spargimento di sangue.
La consapevolezza di chi avrebbe ucciso dopo essere stato provocato fino allo sfinimento e non aver compiuto l’estremo atto ci rende persone migliori, meglio di un’analisi. A volte più che un caso è la convinzione che la soluzione migliore sia farla finita a far desistere quello che in quel momento rappresenta il nostro nemico. La spranga di ferro rimarrà per sempre alla porta della nostra casa interiore.
Ma ritorniamo a Colpi di sole, e ai gatti che gironzolavano attorno. Non sarà stato quell’acqua cheta del Fioravanti l’assassino dei gatti? O è uno di quelli che sa ma per il quieto vivere…
Le due nature sono entrambe umane e più che metterla su questo piano direi che c’è un codice di comportamento che dovrebbe essere applicato e che è la base della libertà di ognuno di noi
P.S.: mi dispiace per il tuo gatto e chiunque sia stato è un gran bastardo.
mi piace la dedizione che metti nei commenti, ti rende speciale, e anche quanto tu riesca a travisare di ciò che leggi.
mi stai dicendo che non ho capito nulla?
😦
solo che ne fai una lettura tendenziosa, padrona naturalmente.
e perchè mai dovrei essere tendenziosa, a quale scopo?
motiva, invece di dirmi che sono padrona di essere tendenziosa
mmm, non ho voglia, ma riconosco in te la scorza informata, scettico-cinica di una certa interessante milano, ho molti amici su.
non avere voglia è una motivazione
libero di non rispondermi, ma non di offendermi
Oh mamma mia…
ari-oh mamma mia…
(maria emma mi scuserà! 😉 )
“chi viene dalla città non si rende conto di come è la vita da queste parti.” eh sì… si impara da piccoli a tenere il bastone dietro la porta e ad arminizzare con la natura.
credo che Franco Arminio sarebbe orgoglioso di questo refuso 🙂
giuro! non l’ho fatto apposta 🙂 …il caso
armonizzare
Splendido!
Ho sentito sulla mia pelle tutto!
Terribile!
Dolore!
Splendore!
gelsa
sono rimasta così di fronte a tutto ciò che vi è in questo tuo scritto.
inutile, secondo me, analizzare, passo per passo.
faccio come con le poesie che entrano veramente in me.
le ascolto!
le sento.
le capto.
nella motte bianca gelsa vibra per quello che ha letto di tuo.
vibra.
freme.
si sente tanto umana.
sì.
…e la bellezza del tuo scrivere entra profonda in lei.
_____________________________________________
“Ho voluto interpretare il fatto come una fatalità e ho voltato pagina, per non pensare ancora a quella maledetta spranga di ferro che non potrò più togliere dalla prossimità della porta della mia casa interiore. ”
Dovrai riuscire a sentire tutto ciò che è collegato a quella spranga di ferro ancora più visceralmente e dovrai accettare… molto di più.
Farà parte di te completamente allora!
“Tira fuori la parte peggiore che pur esiste in ogni essere umano e che è l’istinto omicida.”
Ecco. E’ tutto qui.
Dal’atra parte tu hai scritto: “E questo assurdo limite sfiorato oggi mi completa, meglio di un’analisi.”
Così. E’ giusto così.
_____________________________________________________
Umana come, Gelso? con spranga o senza ? 🙂
grazie per le tue bianche notturne scorrerie, kiss
“si sente tanto umana.” gelsa
Io tanto umana, Alex, nel senso di essere umano che legge le tue parole e comprende profondamente i vari lati della natura umana, li vede, li conosce, li “accetta” perchè esistenti, si duole molto per la spranga, ma sa che anche questa è in noi, esseri umani, sente il tuo dolore per il tuo gatto ucciso e la vigliaccheria cattiva di chi lo ha ammazzato.
Io, tanto umana, da sentirmi parte di un tutto.
che bello scritto, Alex!
gelsa
le “notti bianche” di gelsa le fanno commettere molti refusi, ma la aprono di più al sentire…:-)
dovevi piangere quando hai seppelito il tuo “Colpi di Sole”.
perchè trattenere le lacrime?
gb
“Quale delle due nature fa più paura.”
Quali due nature, Alex?
Vorrei tu mi spiegassi meglio per poterti dire che cosa ne penso io.
per le 2 si intende: natura umana da una parte, e natura che governa tutto il resto, dall’altra.
la natura umana non rientra nella natura che governa il tutto, Alex?
Sei riuscito a dare voce a quel brulichio che spesso resta muto nelle mie parole sebbene solleciti fortemente i pensieri. In molti punti ho faticato a convincermi che si trattasse di prosa e non di poesia. Ti avevo scritto questo ed altro ancora nel primo commento che il vecchio telefonino ha deciso di tacere. Ci sono periodi in cui mi hai riportato alla bellezza delle descrizioni della campagna di Tolstoj. Sono rimasta ad ascoltare lo stormire delle foglie e il canto degli uccelli all’imbrunire e poi ho visto sollevarsi dall’erba folta quel nugolo di zanzare ed ammirato e riflettuto sulla bellezza disadorna delle cose, lasciate volutamente dall’uomo all’incuria del tempo. Mi piace molto come scrivi Alessandro e mi piacciono le immagini che sai far seguire ai tuoi racconti. Grazie. [Non so se stavolta riuscirò a postare il commento, dovessi mancare anche la seconda confiderò nella terza. A presto]
ricevuto.
in fondo, perchè si continua a scrivere? a parte che ogni tanto le cose si sommano fino a esplodere, ma non basterebbe, si scrive perchè si aspetta quel raro momento in cui qualcuno venuto su dal nulla risuona davvero con te, grazie Emily a presto
A presto 😉
Tu sei da leggere e leggere.
Poi ti si apprezza veramente.
Non sei facile.
Ci vuole pazienza e costanza.
Buon sole, Alex
gelsa delle notti bianche
Oh, come vorrei essere nella luce delle notti bianche!