Noi non ce l’aspettiamo adesso, a quest’ora, eppure ci tocca trovarcelo qui tra i piedi, sulla porta della sala stampa, il calciatore Cambuso, tutto ben pastrocchiato di gel sulla cresta, che sbuffa e si dimena.
Spintonato dai microfoni che lo martellano, benedetto dal calore delle alte lampade allo iodio, lui si staglia e si ritaglia un angolo di spazio, una finta quiete sulla faccia di gringo nato in punta del benedetto stivale italico.
Si vede come solleva il muso e socchiude gli occhi in tipico gesto, come arretra leggermente dalla folla, non lo fa nemmeno apposta, pare dal vero uno di quegli italiani, iconizzato, sfuggente, abbronzato suppergiù, del tipo sempreinpiedi cazzimiei, una di quelle leggere beffe in perenne vacanza allucinatoria tra Montecarlo e Santo Domingo.
Cambuso, poi, ha un caratteraccio, santodio. Siamo nel clou dell’interview, i fatti soino che è vero si, ha rifiutato di pisciare nella provetta domenica scorsa, ma solo perchè le regole del calcio ancora glie lo consentivano, e perchè aveva un aereo che, unico nel paese, partiva in orario per il norditalia. Per questo adesso lo senti menare a braccio:
– E’ ora che andate tutti a casa, eh? Certe cose richiedono solo rispetto, palestra e silenzio…ce l’avete voi una madre, eh? Come?? Che c’entra!? Ecco allora..bravi, fate voi il monologo! Se avreste solo un quinto della furia agonistica che mi ci metto in campo..se avreste i miei sottolio da spizzicare a merenda, eh eh, vostra moglie si accenderebbe tutta come i fuochi sul Soratte a S. Bartolomeo, eh, eh…-
Oltre l’eco del risolino grassetto, fastidioso, che finisce in blob su qualche nastro lassù in tribuna stampa, l’intervista risulta breve e concisa, del tutto inattesa a quindici minuti dal fischio d’avvio della partita. In realtà, è strappata alla consuetudine che ordina ai calciatori di isolarsi come guerrieri in raccoglimento a qualsiasi voce esterna, in tutta l’ora che precede l’agonismo.
Ma Cambuso da quest’orecchio non ci sente, e poco importa di sentire il comprensibile, in generale, quando stai messo così. Un orecchio teso, in definitiva, è solo un impiccio che si sviluppa in corsa, inadatto a fare vento sull’erba, quando sul campo di gioco miri il trequartista avversario per abbatterlo dietro l’occhio della Camera, dove il mondo non s’aspetta, preciso e pulito come la morte a Samarra.
Cambuso spegne il trip e va a sparire tacchettando, orgoglioso come un’ardita Bahiana, in fondo al corridoio. Quasi fuori campo, si vede il massaggiatore che lo pacca su una spalla, lui gli strizza le palle in rimando, per affetto e perchè sì, è così si fa tra uomini.
I compagni nel corridoio, in ombra, sburattinano braccia e gambe, si scambiano sorrisi ambigui di stirpi incrociate. L’adrenalina monta a secchiate, e ci siamo finalmente, ragazzi. L’arbitro guarda tutti, ognuno si frulla inutilmente le balle, per scaramanzia o necessità.
(Dall’alto, improvviso, il mondo del calcio si osserva svolgersi come un grande termitaio di corpi accalcati, sovrapposti, sbandierati, maldisposti, e oltre gli spalti, in basso tra i parcheggi, tutto un officetto di Lego in pullman, carrozzette, monovolumi e furgoni che entrano, escono dai garage retrobottega scaricando Caramba e manganelli e giornalisti e pompe e omini, caricando invece fecce tutte sommato minori, ultrà sfigurati, grinte di borgata, e poi graffinfaccia, bellefighe tettemarchiate, persino pure, tutto ripreso, montato, postprodotto, ingigantito, dalla punteggiatura maligna delle camere appostate, dai ragionamenti della psiche attitudinale di tutta Sferastampa, in perenne agitazione d’interessi e foia trasmissiva, ed è come credere di essere estasi, governo, opinione, credere d’essere il ballo che muove le cifre, credere l’andirivieni, teatro, miniera, lobby, riciclo, bigliardino, scambio di coppie e briscola, e poi vedrai)
*
Animaletto invece se ne sta sfibrato, ora, lassù, dove sventolano solo i pennoni di rappresentanza e i piccioni un po’ sfigati, fidando che, per la quale appunto, nessuno ci guardi verso dove s’è messo. Lui da lì, vede tutto quel troiaio di plastico calcistico quadridimensionale, da una prospettiva un po’ più in alto e lesto ancora.
Animaletto ha schizzato dentro scavalcando, correndo, passando tra un fianco blindato del pulmino e un manganello di Caramba steso a livello, fischiando dalla strizza. Il brigadiere che reggeva a spalla il portello del cellulare l’ha visto all’ultimo, sgattaiolato, ha cacciato un urlo che sembrava nascere in digitale, tanto era curiosamente metallico e scandito:
– A-ni-ma-let-too-oh! –
Non c’era di che voltarsi né elucubrare, certo, mettersi a correre come un pazzo tra la folla, zompare i gradoni tre a tre verso l’ultimo anello dello stadio e basta. Che lui di com’è la vera storia del calcio, del mercato dei giocatori e dei pompini della stampa non glie ne può fregare di meno, lui è tutto teso a recuperare il pedigree di scalmanato pericoloso che non ha mai avuto.
Suo padre, per la verità va detto, era conosciuto come O’Animale fin dagli anni sessanta. Trattavasi di un losco figuro falsomagro, baffetto, una specie di mezzo guappo ininfluente e velenoso dei Bassi, che educava il figlio scappellandolo sprezzante tutto il giorno dietro l’orecchio.
– Pisciasott! – Esclamava contestualmente. Babbo, che divenne un nanetto di killer silenzioso cui affidavano l’eliminazione degli scarti, quelli con cui nessuno aveva piacere a sporcarsi le mani.
Son cose che atterrano una vita, quando resti schiacciato dall’ombra del rivale paterno, se lui poi lo sfondano di piombo e tu stai già mezzo dentro, a Poggioreale, senza altri scappellotti, se vuoi dimenticarle queste vite, e sei capace solo di sfasciare cabine, motorini, di rubacchiare le borsette e paccare sul culo le fighe da un motorino scassato in corsa.
Allo stadio è diverso, c’è un pubblico d’amanti emarginati, di umanità frustrata, che ti ama per quel poco che fai, per le fasce che porti, per un onore che è come un assassino candido, maldestro, persino non-violento, che però corrode l’anima, quel poco di futuro che ha mai pensato in te.
Animaletto ci viene da ridere se pensa a sè, “bandito dallo stadio”, come un ricercatino da colmarci appena mezza condizionale, pericoloso però, perchè braccato e armato di stupidità infinità. Lo vorrebbero a cuccia e sciò, i Celerini stasera hanno tutti lo sguincio cattivo da Teleguns semiautomatiche, e distintivo ben esposto, e maganello a minchia, di grado rizzo.
Animalè, sentammè, futte-tenne.
Cerca di starti invisibile per questo gioco, cerca piuttosto se vedi una via di fuga, un qualche soppiatto se dovesse servire. A mezza tribuna, laggiù, guarda un po’ il gradone candido della tribuna autorità, ti rendi conto, se scivoli dentro hai tutta la pace di due ore piene, che starai di palla coperto, tutto appasciuto, e la partita si vede da dio, vuoi mettere.
(In fondo, non ci sono che centomila corpi fisici in tempesta linfatica e quattro miliardi di occhi in gravitazione stratosferica su questa partita del cazzo che sta per avvenire come una piaga biblica: una finale europea di club, rendiamoci conto, una finale disgraziatamente e provocatoriamente stracittadina, un derby rincorso da un fato di merda, almeno così appare in uno degli emisferi bicolori, e tutto per il gaudio dei fattucchieri locali di ogni risma che giacolano eventi, schemi, puntate, strategie, merchandising, in ogni angolo dell’etere agglobbato)
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“Fischio” lo chiamano, a Cambuso, per via di quel leggero sfiato che sibila in campo quando è dritto di foga, quando cingola a ritroso nei corridoi del campo lasciati liberi, dietro la scia di un’ala in fuga di libellula, presso una palla zoccola che sballotta incerta a fondo fango.
Tutto intorno a lui godono i fronti compatti dei centrocampisti, i mediani che tra lunetta e cerchio ballano una sorte di danzòn haitiano. Li senti scarrocciare gli scarpini noir sui quadricipiti esposti degli avversari, le ginocchia, le caviglie che scintillano d’attrito ma ce la fanno, loro resistono, tutti, sempre. Figurati a Cambuso.
Fischio ha le palle di marmo, sul campo è conosciuto anche come pitbull, come tagliola, Fischio ha appena tre o quattr’ore d’autonomia, in realtà, meglio che si sbrighi a compiere quel che deve compiere prima di ricredersi vergine, col sangue placato e i valori assestati, e poter pisciare in santa pace, tutto ciò che è andato via, al controllo di fine gara.
Nel mentre, la sua squadra potente domina il gioco, più nei corridoi dei palazzi che contano e fin su in tribuna autorità, a dire il vero, fino all’armadio dei bottoni ombra che in terra, in campo, in gioco. Si dice la gente giusta, in sottosotto: stiamo coperti, non ci sbilanciamo, non si parla in campo, e tenere fissa la distanza tra i reparti, prima o poi l’occasione arriva.
La partita del resto è quella che è, un derby, una finale, una pozza di occhinteressi allupati, cosa vuoi che tra i giocatori non ci si barcameni in una lussuria di provocazioni, spintarelle, sputazzetti, sonagli e cascatoni?
Il signore che orchestra le regole in campo ha provato coi cartellini, ha sgrugnato di etica, ha fischiato, s’è ricordato con sollievo, infine, che qualcosa comunque sempre si muove, minaccioso o lieto ma mirato, oltre-noi, come un vento di demiurghi raso quinte. E il bello è che nessuno sa bene cosa come fare, nessuno prende uno straccio di decisione, tanto meno fesso lui, eppure le cose si muovono e tutti poi abboccano di conseguenza, con precisione e unità d’intenti che te la devi credere per forza, alla fine.
Guardatevi, esempio, esemplare, adesso, come arriva puntuale l’azione incriminata figlia-di-puttana.
(Un attimo prima e un attimo dopo, la babilonia di ogni fronte che sbobbola arditi santi, e motorini decaduti, cristalli infranti, e dietro i pannelli in plexi antiproiettile tutta la Sferastampa scongelata s’agita scialacquando esclamazioni, ipotesi, campionature, rallentì, gran grattate di balle che non guasta, ogni genere d’interpretazione dei fatti telespruzzata in italiano di vacca, riuscendo così a far tremare i panini, le birre, le nonne maltrattate, il provvisorio sgangherato che affligge i divani d’ogni terra)
Un attimo prima Cambuso e l’avversario centravanti, negro, convergevano come laser in una V rovesciata da destra e da sinistra. Pressappoco due pallottole d’energia versoporta, quasiarea, traiettoria di missili intelligenti, calibrati sullo stesso punto d’incrocio palla. Che volete dirgli. Con laggiù messo il proprio portiere rattrappito a ragno, in coppa all’area piccola, rabbrividiva già di solitudine e malinconia in attesa dello sparo ferale del pallone.
(La periferia invisibile dell’evento, piano piano che non te l’aspetti, come un tumore senza fretta, come un destino che s’appressa, raggiunge svelta svelta il centro del mondo)
A Cambuso gli s’accende o raptus, fisiologicamente e finalmente. E’ per questo che stanno tutti appostati intorno.
Mentre per prender bene mira comincia a decelerare come una Ducati smarmittata, ci spicca un balzo da tartaruga Ninja, carica tutto il cinetico caricabile e vola in uno di qui salti che solo la fame chimica riesce a decifrare. Atterra pesante in un certo punto di campo, appena dentro l’aerea di rigore, lo vedono tutti, proprio dove, per una frazione di secondo appena, assistiamo a un armageddon inconcepibile di zollasventrata, pallavversario, frana tremenda di caviglia, urlo distinto di negro ferito.
-continua-
pasquale barra, detto ‘ O Animale….
ma magara, Pisciasott!! 🙂
Ma come ti fanno a venire in mente certe storie! Lo dico con curiosa ammirazione.
ahahahahah, sandy, ma non hai ancora letto nulla…non mancare il sequel 🙂
grazie 🙂
grazie a te, un sequitur automatico per il titolo dell’avatar, e poi quello che racconti con stile, gli avvinti del mondo, e il giro che sto progettando.