Sotto i platani sfogliati di gennaio la brutta monovolume avanza a piccoli strappi. Dentro c’è un tipo qualsiasi che sposta a fatica lo sterzo lungo i tornanti panoramici. La mattina tarda di un giorno feriale li aiuta a credersi soli per le strade, mentre salgono lenti al giardino delle giostre. Ci sono ombre di rami alti che scorrono sui suoi occhi vaghi, ci sono altri occhi sgranati che fremono giusto accanto, come piccoli fanali che puntano la foschia residua del mattino senza riuscire a disperderla.
La bambina canticchia sul bordo del labbro, la sigla di un vecchio cartone animato. Qualcosa come cinque domeniche che lui ha speso smistando la polvere dei vecchi Dvd nei mercati in periferia.
Lei mette a posto il cerchietto a fiorellini sulla frangetta ribelle, gesticola, sgorga al silenzio con una vocina tutta eccitata:
“Quanto tempo abbiamo, Pà..?”
“Tutto il tempo bocconcino…tutto il tempo…”
Le poche macchine parcheggiate hanno un taglio provvisorio, alcune hanno luci lampeggianti. Il ragazzo delle giostre è appena uscito da un casotto malmesso, sta armeggiando con un cacciavite dentro il buio di un quadro elettrico. Lui parcheggia di traverso con un lieve giro di gomito, il motore si spegne in un sospiro. Sta lì un attimo a pensare se sia il caso di accostare un fianco in più al marciapiede, mentre parte stonato il giro di un valzerino che gli acchiappa subito lo sfondo dei pensieri e stringe.
Restano immobili qualche secondo a guardare i cani che si rincorrono agitando le lingue molli. I padroni dei cani sorridono lì accanto, piegati sulle ginocchia. Fanno piccoli sbuffi di fiato che condensano nell’aria fredda, controluce. La bambina porta una mano alla fronte, strizza gli occhi per vedere meglio.
Lui si muove con un piccolo scatto di reni, apre la portiera e gira intorno alla macchina, apre l’altra portiera e fa un debole inchino. Lei scende con un piccolo saltello, lascia che lui gli cali di fretta il berretto di lana a coprire la linea degli occhi. Poi sbuffa, si libera dell’impedimento. Comincia a saltellare impaziente e chiede: “Quanti giri, Pà, quanti giri?”
“Vai amorino mio, vai…tutti i giri che vuoi…Papà resta qui e ti guarda…”
Finisce di abbottonargli il cappottino verde, la bacia sul naso arrossato, la prende per mano e s’incammina verso la giostra dei cavalli. Lei lo segue a mezzo metro di distanza, trainata dal suo braccio teso, i loro passi crepitano sulla brina ancora intatta del prato. Lei prende posto su un grosso ronzino bianco di plastica lisa, accanto a un bambino che parla fitto fra sé e sé. La giostra parte con un cigolio inquietante, vecchi ingranaggi che strusciano negli anni, la musica che accompagna il saliscendi delle sagome dei cavalli è stonata come stonate sono tutte le giostre del mondo.
Con le mani nelle tasche e il collo incassato a difendersi dall’umido, lui si sente confortato da questo pensiero, un desiderio di umanità lo invade mentre la osserva girare ottusamente in tondo. Lei volta la testa a destra e a sinistra per non perdere lo sguardo di lui. Accenna un saluto con la mano, ha le labbra scomposte nell’ambigua metà di un sorriso.
Lui è percorso da un fremito silenzioso, qualcosa che vibra in un piccolo fodero, sulla linea della cinta, perciò si si distrae, si allontana veloce di alcuni passi e si mette a fissare il Display verde per qualche secondo. Poi accosta l’orecchio infagottato dalla sciarpa alla chiamata. Dice in un soffio: “…Si…”
Lei intanto va su e giù scuotendo i capelli spettinati, fa un piccolo gridolino di gioia e chiude gli occhi, scuote il cavallo di plastica che pare sorridere di rimando, come se cominciassero a sognare qualcosa insieme. Quando lei torna presente vede mezza figura di Pà che si agita lontano, dietro i cespugli, vicino al parcheggio. Oltre la monovolume, al centro della piazza, un grosso cavallo di bronzo montato da qualche eroe della memoria torreggia dall’alto sulla scena brumosa.
Pà ha una brutta faccia contratta, si vede anche da lontano, come se gli avessero pestato un callo. Emette grossi sbuffi di fiato bianco, fa su e giù con la testa come se stesse affermando la durezza estrema di un qualcosa. Poi fa diversi cenni col braccio verso di lei, ma senza guardarla. Si slaccia bruscamente la sciarpa dal collo, da un calcio forte a una cartaccia, si sbilancia un attimo e si ricompone, termina la conversazione chiudendo gli occhi, respirando profondamente col viso rivolto al sole freddo, il cellulare serrato tra le dita che pare stia per essere lanciato. Ma non sarà.
Il bambino del cavallo accanto sta dicendo qualcosa. La bambina fa finta di non sentire, come se fosse straniera. La voce allora si alza fino quasi a urlare, così lei avvicina l’orecchio per farlo smettere, solo per quello s’avvicina.
“Hai la giacca stortaa…hai la giacca tutta storta, hii…!” Esclama lui.
Così le dà pure un colpetto sulla manica, lei si gira che non ne vuole sapere, abbassa lo sguardo sul petto dio lana verde, vede i bottoni neri infilati nelle asole sbagliate. Una piccola congestione le comincia ad arrossare il centro del viso, qualcosa che tiene indietro due enormi lacrime, sul fondo degli occhi.
La giostra continua a roteare al ritmo della musica stonata. Lei vorrebbe scendere ma deve aspettare che gli ultimi giri si compiano. E volge lo sguardo fisso di fronte a sé, per non incrociare più le smorfie del bambino accanto, per non voler sapere cosa accade nel parcheggio, sotto la statua dell’eroe equestre. Continua invece a tirare su col naso, tira su e gira in tondo, come fosse già una piccola donna abituata.
Pà non s’è accorto di nulla, ha camminato avanti e indietro per tre o quattro volte e s’è rimesso il cellulare all’orecchio, s’è pure sbottonato il giaccone. Adesso vaga lentamente tra il parcheggio e il prato delle giostre che si sta sbrinando, sorride quasi, mezzo rilassato. Muove le labbra molto vicino all’apparecchio, si piega sulle gambe, dà una piccola carezza distratta a un grosso cane che lo sfiora correndo, sorride decisamente al padrone del cane, da sotto in su.
E guarda l’orologio, interrompe la chiacchierata e guarda verso il polso molte volte, allarga le braccia, fa un altro cenno cieco verso la giostra.
“Signore…signore…mi deve pagare sei giri in più…”
Lui si risveglia, vede il ragazzo della giostra che trascina dietro di sé la bambina che non riesce più a trattenere le lacrime. Mentre estrae il portafogli dalla tasca stretta ricorda di averlo appena riempito di fogli da cinquanta. Passano quei cinque minuti che attendono il resto, mezzi impazienti e mezzi congelati. Lei non piange più, ma gli occhi non smettono di guardare dallo spazio di quella doppia lucentezza.
Lui non se ne rende bene conto, ma pensa pure che con un cane, con un cane sarebbe stato tutto più semplice.
Qualche minuto dopo la monovolume esce dal parcheggio grattando le marce. Un traffico improvviso di badanti dell’est attraversa la strada rendendo cauti i movimenti del volante. Lui guida con le braccia rigide, il capo abbandonato sul poggiatesta, ogni tanto socchiude gli occhi. Foschia non ce n’è quasi più, il sole è alto ora in cima ai rami spogli dei platani, la bambina guarda fisso un punto di fuga di fronte a sé.
Lui non sa se ritenersi fortunato, pensa che uno dopo l’altro gli anni possano svanire, dopotutto, che non c’è nulla di buono dietro ad attenderlo. E crede di amarla, al di là di ogni cosa, poi pensa che in fondo tant’è, che c’è una sola donna nella vita di ogni uomo, e gli tornano automatiche le parole sbrigative di una canzone di successo.
Finché vede un chiosco di fiori all’uscita di una curva, vede una donna che sta per attraversare e inchioda la monovolume lì sul posto. Le cinture di sicurezza stringono sui corpi proiettati avanti e lui resta fermo qualche secondo, a osservare la donna ferma che gli fa ampio cenno di procedere.
E c’è l’urlo di clacson alle spalle che la fa finita dei pensieri, della canzone, di tutto il suono animale che ronza, fastidioso, al termine delle orecchie.
mi fai piangere Alex. Cattivo.
no dai, non mi prendo responsabilità..
fosse la prima volta che lo leggo potrei pure scontare i buchi che mi fa
ma diobonino, non c’è alcuna possibilità di farci il callo, e non ditemi che è perché adesso è ancora più lucido e scarno e affilato con questo andare così cinematografico e senza se e senza ma.
non è solo saper scrivere, mi sono capita?
non tanto maifrend 🙂 e dimentichi sempre, ma grazie, abbraccio
I am shocked. Believe me.
“Lei non piange più, ma gli occhi non smettono di guardare dallo spazio di quella doppia lucentezza. ”
mi pare di aver assistito ad un film che penetra profondo, regalandoti tanto malessere, con attori bravissimi, comprese le comparse.
Alex, come sai scrivere! E non è solo questo!
Your Gelsy
grazie, tutto il cast s’inchina
I bow to you, Alex.
Gelsy
Anche questo è come nuovo. Limpido e struggente, senza sovrapposizioni o mascheramenti. Poi l’effetto che fa, chissà, cambia soggettivamente. Io non so bene se mi sento di più come la bambina, come il padre, come la voce all’altro capo del cellulare o come il cavallo della giostra, ma tant’è…..
sembrava un esercizio, andava ingrassato un po’.
No. Giusto così, Alex. Nessun cambiamento.
Spesso io mi immedesimo nei vari personaggi, anche in quelli minimi.
E’ proprio il tuo essere “valido”, Alex, che riesce a far accadere ciò.
Tutti i personaggi sono vivi.
Gelsy
ma che intenso e urticantissimo racconto. sarà che quando entrano in scena i bambini, basta poco per farmi sanguinare. sarà che sei più asciutto e crudo del solito e che il non detto è una fitta acuminata che urla vendetta. epperò questa storia *vive*. nota particolare per lo splendido fotogramma de “i bottoni sbagliati”. (occhio refuso: “petto dio lana verde”)
grazie dottorissimo