Ferme a un semaforo io e Lu, così stiamo, e son due giorni che minaccia di piovere, intorno alla città i paesi non si allagano, le cantine non traboccano, lo stesso la gente agita le scope smoccolando, qui viviamo un vago senso di allarme, soltanto, la pioggia siamo noi, si sente alla TV questa roba, noi non ci pensiamo a questi fatti, guardiamo il video come sfogliare le riviste dal parrucchiere, come tirarsi le pellicine a sangue, siamo insensibili noi, vuoi vedere che adesso Lu si mette a strisciare sul letto disfatto miagolando il suo cazzo di calore di puma, vuoi vedere come viene a bere il succo di miele che il mio alveare fatica a trattenere.
Adesso Lu è un richiamo di falco che s’insinua nelle mie cosce magre, il falco non conosce il momento, il semaforo che cambia colore, l’urgenza di muoversi, tutto l’orrido di lamiera che ci strizza i fianchi a destra e sinistra, le urla meccaniche e le facce ossessioni che ci spingono da dietro. Lu non vuole imparare che ci basterebbe poco, quel piccolo poco a noi per essere una cosa tranquilla poggiata nel caos delle altre, Lu e io, basterebbe smettere la troia qui adesso, e spingere via la frizione e dare un po’ di gas, appena.
Noi non ci pensiamo a questi fatti, io non so, mi abbandono morbida al richiamo del falco, facciamo un sacco di gestacci bracciodita finché il coatto di turno non scende, ci prende a pugni il parabrezza, è così incazzato, ma così incazzato che il vetro ci si crepa e noi beffarde ancora, andiamo via ma solo per goderci il verme in retrovisione che ancora urla e tutto il traffico intorno che ha un sussulto e riparte e lo schiva sul culo. Entriamo in un garage due chilometri più in giù, c’è un ragazzo in tuta lercia che sorride, un padrone in borghese tipo un porco in libera uscita, abbiamo un sesto senso, io e Lu, su questo non ci piove proprio mai, dai retta.
Che tutto sommato godiamo della vicinanza di questo genere di cazzi-a-salve, il corno giovane che ci saremmo pure fatte magari qualche anno fa all’uscita di una scuola, e il caprone bollito che strizza ormoni davanti alle mini stracciate, agli stivali da zoccola, alle catenenelle e alle borchie e alle tette rialzate che agitiamo fintefesse col problema di carrozzeria che ci pende. Dicci padrone, son cazzi, son sempre cazzi con sti problemi, sembra niente ma invece ti rischi la vita, te la rischi che è un pelo, proprio lì vogliamo andare Lu e io, io e Lu, proprio te cercavamo, un garage scuro come questo.
Il bello nostro che non abbiamo un perché, è questo, sai, che ci ha trovate, il come noi non ci pensiamo, istinto puro che ci gorgoglia in ventre, mai sappiamo quello che sta per capitarci, solo telepatia e gesti che sembrano pescati da una vita, mica che ci siamo trovate due mesi fa come criste attardate a un colloquio di lavoro, mica che toccava accettare con riconoscenza di pecora seicento luridi euro per fare le adescatrici telefoniche con la frusta del capogruppo che ti si agita addosso, che un po’ si struscia d’uccello e un po’ ti urla dietro da zozzo padreterno.
Proprio quello vorremmo, bravo padrone del cazzo, un lavoretto pulito e onesto, una garanzia d’efficienza, un orientamento al cliente tanto da farci venir voglia di tornare, per farci inculare, per farci inculare, quant’è bella bella la modernità, questo più o meno gli dice Lu che ama le supercazzole, quant’è brava Lu che glie lo dice svelta svelta masticando le parole che lui non ci capisce o quasi, perché comunque rialza le corna con un piccolo scatto, e da allora non smette più di guardarci, non più la fica che occhieggia sotto di noi, non più le tette che rimbalzano a pallamatta, il caprone qualcosa ha capito, se ci fosse una mamma che glie lo spiegasse, così s’allontana tra le fauci spalancate delle macchine lumandoci di traverso, va ad arringare il ragazzetto che sta mettendo mano al parabrezza.
Rimaniamo ferme nell’oscurità che ci piace, Lu e io, io e Lu. Vicino vicino mi viene Lu, eccitata come un mandrillo, e sa di gomma e sa di cose perdute, profumo che non ci mettiamo, acqua e sapone e ormoni appalla, mi dà una spinta che ringrazio il muro sporco che mi si para dietro, ha questo fare di maschio lei, dice che viene da una madre zoccola che a sessanta suonati spende tutto ancora in completi di leopardo, e spende tutto lo straccioanima che le risulta per adescare pizzicagnoli giovanotti che non se la inculerebbero nemmeno in solitaria eterna su un atollo del pacifico, dice che è la sua vendetta, che le piacerebbe fare il trave, che darebbe un occhio o tutt’e due, che tanto si scopa anche al buio, per avere un pisello, un morbido serpentello che s’intosta e s’insinua e sbatacchia sgraziato tra le chiappe di carne maschio o femmina. Dice pure Lu che se così fosse non potrebbe che essere più buona, una buona figlia di mignotta, dice che son le cose che mancano ad affilarci i denti, che son le cose che sfumano ad eccitarci i sensi, così che siamo vive, mi dice capisci? Mi dice la minchia. Mi dice allora?
Faccio fare io, mi spompo di sospiri con le mani veloci sue che mi rigirano la carne, così in piedi in fondo al garage, da dentro m’esce un torrente che mi scuote le ginocchia e mi deposita lampi dentro gli occhi ch’è inutile che chiuda, oh Lu, Lu, ficchiamoci ste unghie su per la schiena, Lu, ci sono Lu, che si, si, adesso poi, mi caccio via svenendo in fotogramma, aggrappata alla mia Lu come un cucciolo di panda, il padrone qualcosa deve aver sentito perché s’appressa piano piano, facendo lo svagato, finchè non me lo trovo di fronte interrogativo e paurosetto, so io dove cazzo sto mezza stracciata ancora, e Lu che non me la ritrovo invece più, sotto.
Il padrone boccaperta sta, il ragazzo montato su un cofano a occhieggiare lontano sta, e Lu che alla fine la vedo a pisciare bassa dietro una Golf nera, il padrone che segue il mio sguardo, tutte le urla che succedono poi, roba che non si crede, che ci mettiamo a correre furiose, che la macchina pronta non è, e il caprone che bestemmia davanti alla macchia di piscio di Lu, cercando di stoppare i rivoletti, perdendosi noi che ripartiamo sgasando come un horror di bambole coatte che ridono caricate a molla.
Più tardi non ci pensiamo più, più di tanto almeno, io e Lu, Lu e io, che fa un freddo da stendere un eschimo, che i nervi ti s’attorcigliano tutti dietro al condizionatore, che stiamo qui buone buone nuotando da un tavolo all’altro con le cuffiette che ci pendono tra le facce illuminate dalle radiazioni dei video perchè la luce è bassa, si vede un cazzo se no, ti deconcentri troppo se no, ti perdi il frociocliente che di là della linea ti espone le sue pippe barocche, per filo e per segno, e vedi Lu che sorride alla cuffietta come una zoccola maligna, beata porca in incognito, molto controllata, molto customer-oriented che il capogruppo la osserva sorridendo, ch’è una ragazza dura e stronzetta ma quando ci si mette, smucinandosi il pacco attraverso la manintasca che pare la penna di Eric Clapton al centro di un assolo.
Questo è lontano dalla strada, fuori dal percorso, da qui a lì e prima campi poi periferie poi il traffico che s’incula la città e ritorno, che tutti i santi giorni, e ogni cosa sfumata, e ogni discorso possibile, e pisciare in un garage, e farci i film e le attrici, quella bionda istintiva e quella roscia più riflessiva, e giù dal letto che siamo sfinite, che la fica ci si secca e s’addolora, facciamola finita, siamo piuttosto esatte queste facce di cazzo senz’anima, senz’obiettivo, siamo cuffiette pendule e spiegazioni infinite a interrogativi di merda, passiamo la vita come i gabbiani che cagano dall’alto, Lu e io, io e Lu.
Perché questo è il pensiero che odio, perché questo proprio m’incolla a Lu, il perché la vado a cercare tra le scrivanie, che sembriamo remi incrostati di vecchie galere, col team-leader che m’insegue, perché piscio troppo, tre volte in due ore, nemmeno fossi malata, nemmeno fossi quel che sono che chi lo sa, Lu lo sa o finge, che ne so. Lu vicino alla finestra che sbocca una scusa da gran paracula attraverso la cuffietta, sorridendo, annuendo, Lu che mi vede arrivare sbattendo i fianchi qua e là, con gli occhi da mezza pazza, che mette il sistema in attesa e si alza, mi viene vicina, mi si struscia addosso poco poco che basta, che mi dice che son le cose che mancano ad affilarci i denti, che son le cose che sfumano ad eccitarci i sensi, così che siamo vive, mi dice capisci? I coatti? Il garage? Mi dice potevamo prendere la cassa ch’era scoperta, coglione, allora? Domani?
Faccio fare io, faccio dire, ho visto un lampo in fondo a Lu, ho visto Lu che beveva il sangue, ho visto me che farò succedere, che cazzo d’altro c’è?
Proseguo verso il bagno a testa bassa, a pisciare qualcosa che non c’è.
la tua scrittura è un avvolgente caleidoscopio visivo, aptico, olfattivo… e l’immagine da dove proviene? ciao!
K.
grazie Kati, da dove viene precisamente non lo so, è una delle immagini forti dei miti Hindu, una Kali-Durga che danza sul corpo di Shiva.
Mi viene il mal di testa a leggerti, ma è bello, come un gioco da fiera, di quelli che paghi per sentirti male e non capirci niente. e dire che io ho paura delle montagne russe, ma un altro giro me lo farei.
è bello così, difficile raccontare lo spessore di una coscienza.
Non sono mai sicura di capire esattamente tutto quello che scrivi, ma so che mi piace e che a volte ti invidio questa capacità che hai di scrivere in modo così lucido e travolgente
thanks, le cose che sentiamo non sono sempre decifrabili all’istante, è più importante quel tanto di irrisolto con cui andiamo via da una storia, credo, piuttosto che ciò che abbiamo chiaro.
Terribilmente attuale, direi. Teso all’esasperazione, disperato e rabbioso come solo può essere il racconto di vite tradite sul nascere dalla vita stessa. E poi conosco i luoghi e quelle anime raschiate sul fondo, appese per le cuffiette alla triremi……….
generazione di chi è più tradito di tutti, che lo dà per scontato, già.