Ophelie la chiamarono, infine.
Per qualche amico importante era l’immagine di un poeta, loro non se ne intendevano di lingua, titubavano, pensavano al destino dei suoni, a dove potrebbero andare a morire i nomi, nella carne inespressa di una bambina. Gli piaceva comunque quello scivolare di sillabe, quel passaggio di farfalla sulla lingua e vicino le orecchie, non vollero sapere altro, della vita come del resto.
Ophelie visse l’inferno soave degli anni giovani, la canzone del nome storpio, i dialetti e le risa sulla bocca di quelli piccoli che facevano chiasso vicino. E cominciò a correre presto, via dall’incendio che le cresceva tra le gambe e là davanti, sotto il mento, diceva così allo specchio. Correva da quella cosa informe di desiderio che stava diventando, palleggiata tra i discorsi degli amici e il tralice ottuso dei parenti avvelenati.
Offelì la chiamarono, del resto, quelli stranieri che l’ebbero, un’occhiata e un sortilegio nella punta delle strade. Furono quelli che le affissero un nome e un carattere, che paresse pure una di quelle morgane rapinate alla fame, in una lunga traversata del deserto, appesi al camion di tutti. Offelì non sa nemmeno se l’ha inventato, quel ricordo, che importanza vuoi che abbia poi ora, nel tirarsi a indovinare che è la migrazione stolta di ognuno.
Eppure lei obbedì, senza versare una lacrima, andò in fila al dolore come tutti i giorni le ombre, trovò almeno un’occhiata partecipe che la ruppe e la ricompose male, meglio di prima di comunque.
I baffi incendiari sapevano di minestrina Knorr, questo ricorda, e ricorda tanto altro che certe volte potrebbe cominciare a parlar per strada, addosso all’eleganza della gente, ma non lo fa. Non è per cattiveria, è solo che provate voi ad avere la Matta esposta, sempre, nel rilancio eterno delle carte.
Lui che la fece arrendere, d’altro canto, era come un cane che guizza a scatti, scantonando calci immaginari. Il viaggio di nozze fu che trovarono il nome di una banca che potesse farli sorridere, quel poco che si riesce a sorridere andando incontro a un senso unico senza slarghi di perdono.
Lui non ha mai avuto il sapore di una minestrina. Era gentile e depresso, modesto, timorato, laureato.
Non desidero sporgere denuncia, malgrado tutto; questo disse lei trovandosi al dunque. Lui era un cucciolo religioso, uno che sapeva come farti a pezzi, tutti i giorni, con la speranza.
Ofelia lanciò il coltello sanguinante verso la massa dei curiosi che s’era fatta intorno, che aveva smesso di respirare. Questo fu, e che sperò di prenderne qualcuno, con il cuore, prima che il mondo ricominciasse quietamente a svelenire.
I
Sull’acqua calma e nera, dormono le stelle,
come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia,
ondeggia lentamente, stesa fra i lunghi veli..
– Dalle selve lontane s’odono grida di caccia.
Son più di mille anni che la triste Ofelia
passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Son più di mille anni che la sua dolce follia
mormora una romanza alla brezza della sera.
Il vento bacia i suoi seni e dischiude a corolla
i grandi veli cullati mollemente dalle acque;
i salici frusciando piangono sulla sua spalla,
sull’ampia fronte sognante si chinano le canne.
Le ninfee sfiorate le sospirano intorno;
ella risveglia a volte, nel sonno di un ontano,
un nido da cui sfugge un piccolo fremer d’ali:
– un canto misterioso scende dali astri d’oro.
II
O pallida Ofelia, bella come la neve!
Tu moristi fanciulla, da un fiume rapita!
– I venti che precipitano dai monti di Norvegia
ti avevano parlato dell’aspra libertà;
e un soffio sconvolgendo le tue folte chiome,
all’animo sognante portava strani fruscii;
il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nei gemiti delle fronde, nei sospiri delle notti;
l’urlo dei mari in furia, come un immenso rantolo,
spezzava il tuo seno acerbo, troppo dolce ed umano;
ed un matin d’aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero folle, si sedete muto ai tuoi ginocchi!
Cielo! Amore! Libertà! Qual sogno, mia povera folle!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni ti strozzavan la parola
– e l’Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!
III
Ed il poeta dice che ai raggi delle stelle
vieni a cercar, di notte, i fiori che cogliesti;
e d’aver visto sull’acqua, distesa fra i lunghi veli,
la bianca Ofelia ondeggiare come un gran giglio.
Nel tirarsi a indovinare che è la migrazione stolta di ognuno di noi. Sta frase me la fo incidere su legno di un talamo. Quando e se mai un talamo avra ragione di essere, per certe ofelie. Il brano è di mio gradimento, la minestrina Knorr no.
Uau, emozione 🙂
sai che il talamo è una struttura del Sistema nervoso centrale, più precisamente del diencefalo, posto bilateralmente ai margini laterali del terzo ventricolo??
grazie, ma non son state le due risate, scommetto, forse la sbrasata del commento Robbinsiano 😀
e io che m’aspettavo creatives due…questo è un colpo basso. ogni povera pazza, ha incontrato, prima o poi, uno che sa come farti a pezzi, tutti i giorni, con la speranza. anche la canzone è magnifica 🙂
ehi, non sono un juke-box 🙂
dice jung che: la “sana follia” non può essere portata nella società, forse invece, si può tentare di portare una forma di società nella follia.
Basta questo, per accorgersi di un genio.
Oh, Alex.
Hai fatto un grande dono a Gelsy questa notte!
Grazie.
Sono stanchissima. Torno con calma.
Un sorriso speciale
Gelsy
oh grazie gelsy, ben felice sono.
“Cielo! Amore! Libertà! Qual sogno, mia povera folle!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni ti strozzavan la parola
– e l’Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!”
Così è.
La diafana Gelsy
la diafana che preferisco 🙂
🙂
ne sei certo? 😉
your Gelsy has a high fever tonight
Gelsy è febbricitante.
non so come mai compaia quel “Gelsy è febbricitante”.
Gelsy ha la febbre alta ora. purtroppo.
misteri della “febbre alta”. 🙂