Presero di peso il bambino, sgualcito e timidino, una faccia di meraviglia spenta, e lo spinsero a forza per corridoi di tramezzi bucherellati col neon a benedirli, fino alla tromba dell’ascensore.
Tutto il frettoloso affaccendarsi elettro-umano, intorno, ronzava a livelli subliminali deviati nel cervello serale d’ognuno. La bestemmia del direttore di produzione, come un jingle andato a male, looppava su e giù per i piani accelerando le tachicardie e i soffi al cuore di chi stava per andare in onda di lì a poco, in Prime Time.
Leslie, ad esempio, mentre spingeva con un certo malcelato nervosismo il pulsante del piano terra, considerava gravemente l’ipotesi di extrasistole che sentiva arrivarle sottilmente in petto.
A pensarci bene erano già tre settimane che si occupava del caso del bambino, e chi glie lo aveva fatto fare dopotutto, visti e considerati gli impegni, le cene e gli amanti che aveva dovuto spostare con grandi modulazioni di falsetto in dispiacere, visto che erano cinque lunghi anni ormai che tentava inutilmente di aprirsi un varco per affacciarsi sorridente sul pubblico privilegiato delle ventuno.
Leslie sapeva che c’era poco da fare, perciò s’era dedicata anima e corpo a quel maledetto servizio commemorativo sperando di sorprendere la redazione alle spalle, l’infanzia offesa funziona sempre, e anche tirare fango e sangue, se uno sa dosarli bene nelle diverse fasce orarie. Era una roba che lei sosteneva da sempre.
Mentre procedeva nella sua fretta di predatore verso l’uscita sul cortile, trascinando per una mano il bambino, pensava alle briciole che quel rottinculo del direttore di produzione gli avrebbe lasciato cadere dalla tavola imbandita di quel maledetto programma che andava in prima serata.
Accompagnare il moccioso per mano per quei dieci metri che separavano il dietro-le-quinte dal quadrato di competenza delle telecamere, sorridere amabilmente non più di due secondi, eseguire un bel dietro-front e rientrare dignitosamente dietro le quinte, rigorosamente senza sculettare di un millimetro né a destra né a sinistra. Questo era tutto quello che avrebbe dovuto fare davanti alle telecamere, e questo rischiava di ucciderla.
Sentissi l’ultimo urlo che lo stronzo produttore aveva gorgogliato appena il bambino era stato tirato fuori dal camerino del trucco per le ultime raccomandazioni di scena.
Leslie in persona s’era adoperata per curare nei più piccoli dettagli la pulizia e il trucco del bambino, un trufolotto con una capigliatura da sciopero del pettine che dalla finestra aveva visto giocare in un prato vicino casa, un figlio di immigrati bengalesi, timido e modesto e con un’inclinazione irrevocabile alla tristezza, questo aveva indagato Leslie.
L’idea l’aveva folgorata come la scia di una bomba intelligente, sarebbero bastati pochi euro alla famiglia per arruolarlo, si poteva farlo apparire in Prime Time come orfano di qualche canaglia squagliata dal fosforo nei campi dell’Afghanistan, o come uno di quelli auto-impiccatasi nel merdaio di Guantanamo.
Eppure il Direttore di produzione, ringhiando come un cinghiale perverso, le aveva dato della deficiente.
Il bambino era stramaledettamente pulito, urlava lui, e anche che qualcuno aveva deciso di segargli le gambe della sedia, che a presentare un tale figurino di frocetto lustrato a una trasmissione che aveva il compito di rabboccare il livello di ansia collettiva, insomma lasciamo perdere, l’aveva presa come una provocazione umanamente intollerabile.
Adesso Leslie sta accucciata sulle ginocchia ad altezza moccioso, sul piazzale fuori dagli studios, vicino all’aiuola delle ortensie, le scappa una pipì che nemmeno sa come farà a trattenere.
Prende con la mano sinistra un po’ di terra e soppesa il mucchietto sporco, si ferma a meditare, vorrebbe poter tirarsi giù gli slip e farla sul posto quella maledetta pisciata da cistite di cui si sente piena.
Adesso, se risali con l’inquadratura sul primo piano del volto di Leslie, scopri tutte le rughe che s’affollano ai lati degli occhi, scopri la tensione che sale dalla vescica per vie di un infinito sporco, irrealizzabile.
Piange senza lacrime, Leslie, piange e singhiozza e nello stesso tempo si compiace del fatto che non vengano giù gocce dagli occhi, che non ci sarebbe più nemmeno tempo di passare al trucco, è questione di secondi e la verranno a chiamare sgraziatamente.
Leslie si decide infine, porta il mucchietto di terra vicino alla guancia del bambino, comincia a strofinarlo piano piano sulla piccola guancia, una carezza mezza incerta e mezza schifata del gesto, di quel suo architettare di mezza età privo di costrutto. Intanto non la smette di produrre piccoli singhiozzi parassiti, e c’è la pipì che la chiama, lo slip che sente incastrato nella fessura infiammata dallo sforzo di tenere.
Il bambino intanto s’infanga lentamente, quasi allegramente. Il fresco della sera e l’espressione disperata della signora lo fanno sorridere, appena appena.
Il bambino si scosta dal gruppo scultoreo che fanno e inquadra i lineamenti crollati della signora, il trucco ancora impeccabile; le fa una carezza leggera sulla guancia con la mano, vorrebbe darle persino un bacio, ma non si permette.
Poi si guarda le dita carezzevoli e le trova sporche, di una sostanza farinosa e umidina dal bel colore rosa tenue. Guarda ancora la signora da vicino che, anche se la inquadri in campo lungo, sembra ora un uomo rigido sul punto di spezzarsi.
Sembrerà a tutti, tra poco, una di quelle americane secche che a quarant’anni gli viene la pancetta sporgente e cominciano a incurvarsi, invecchiando.
Che dio protegga questa donna, a parole sue, pensa solo quel bambino.
pubblicare questo inno alla consapevolezza proprio oggi! sei diventato un vecchio saggio 🙂
intendi alla coscienza del problema “sociale” della cistite?
questo è il secondo che parla di pipì, se mi sforzo forse viene fuori un’altra antologia 😀
ahah!, no, parlo della padronanza che le tue narrazioni hanno di certi dettagli, di tutti i forsennati retropensieri e retroemozioni che questo taglio cinematografico ti permette, parlo di quella “meraviglia spenta” in incipit e di quella “irrevocabile inclinazione alla tristezza” e di quella “provocazione umanamente intollerabile” e potrei andare avanti. per non parlare del ritmo, che è quello del battito cardiaco. insomma, se è così, ben venga la saga della cistite 🙂
ps. ho solo un appunto Alex, poco influente: ci sono un paio di ‘gli’ al posto di ‘le’ che fanno incespicare, almeno a me. bacio
ma si, non scherzavo, mi stuzzica il “topos” 🙂
sui pronomi hai ragione, è un errore di sbaglio..
Cosa mi dà fastidio in tutto questo? No, non la cistite, forse l’america. Forse le americane prugne secche.
si sa, l’effetto delle prugne secche, talvolta fa bene, libera nos a malo 😀