Sono tornato l’altro giorno nel quartiere distante e bozzuto dove iniziai a lavorare, venticinque anni fa, con la sensazione che nient’altro di più brillante potessi inventarmi quella mattina. Alla lunga, sono diventato un feticista degli attraversamenti urbani, una sorta di esteta di tutti quegli inscatolamenti da miracolo Fiat e dei lunghi discorsi eversivi che smoccoli col volante tra le mani, nelle more dei frattempi.
Le vie sono davvero infinite, si diventa umanamente altro senza saperlo nei recuperi di ritardo sulle rottedicollo delle tangenziali dentro sezioni isolate di quarti d’ora, ognuna con la sua specifica regola di percorrenza esterna e interna, ognuna col suo fracasso sociale che ti obbliga a seguire il lavoro in capo al mondo, perchè attraversare la città dalla Pontina alla Bufalotta rimane a tutti gli effetti un giro del mondo, con qualche imprecazione in più soltanto. Un’eterna riduzione di corsia là, la logica scoppiata di un giro di sensi unici qua, piuttosto che gente a piedi col ferro che sosta in mezzo alla carreggiata ovunque, senza mancare lo sventramento degli incidenti sulla corsia opposta, quei miracoli italiani tipici che generano un’epifania di madonna sanguinante sulla tua carreggiata opposta, dove ognuno è ridotto ai Cinque all’ora del guardone che il rituale del sacramento nazionale pretende.
I motivi di un ritardo stradale sono infiniti come i volti di dio. Sono stato costretto a divenire una persona differente ogni mattina, col tempo, anche e soprattutto dall’esercizio imposto del mio videogioco di lamiera, giù per quel parco di buche da flipper in disarmo che è l’entroterra pendolare romano.
Ho speso la moneta fideistica di una Centoventisei Personal, di una Panda Fire, di una Tipo Dgt, di una Opel Tigra tedesca, infine, quando l’affidabilità meccanica e certi scatti feroci a scavallare le file eterne non avevano più quell’importanza strategica che annebbia la testa dell’impiegato giovane, quando cerca di farsi strada coi modi, ancor meglio che con la cravatta: far capire che sei un essere puntuale, quindi preciso, perciò affidabile, quindi meritevole di attenzione, e forse per questo proponibile per un avanzamento di posizione o di grana o di prospettiva, son cose che ti si fanno solo intuire, per tenerti meglio sulla corda produttiva intro-Taylorista, è chiaro.
Quando sei giovane ci caschi sempre, ciò che ti frega non è nemmeno il desiderio di disporre di più soldi, su quello si può sempre negoziare al mondo, quanto precisamente l’illusione di poter concorrere a valere qualche spanna in più nel dannato mercato socio-umano che ti ospita.
E’ così che, potendomelo permettere, giovedì scorso sono tornato a trovare Francesco che lavora ancora in una zona periferica dove iniziammo insieme, come programmatori informatici. Io e Fra ci siamo conosciuti nel 1989, lui un ex-pischello della Garbatella di strada, io come un piccolo spiantato da quartiere residenziale, un intellettualino in erba che giocava alle professioni, peraltro non sue; non avresti potuto immaginare nulla di più diverso che potesse umanamente attrarsi.
Eppure siamo diventati inseparabili in infiniti modi, lo siamo ancora oggi, profondamente, anche se ci sentiamo di rado, in un modo così intimo che ogni volta abbiamo l’effetto reciproco di due strizzacervelli un po’ intossicati che si manovrano la didattica esistenziale addosso, senza alcuna inibizione.
C’è rutto psicanalitico libero da sempre, tra Fra e me, i nostri livelli di affetto e significato hanno goduto della distanza sociale da cui sbucavamo alla fonte, qualche altro rituale anarco-trasgressivo che ci accomunava lì per lì ha concorso a saldare radicalmente la nostra eterna fratellanza in un’enciclopedia di grottesche scene comuni sui luoghi di lavoro e altrove, nel privato. Ma è soprattutto negli ambienti business dell’informatica che abbiamo fondato il nostro mito personale reciproco, laggiù dove abbiamo combattuto silenziose battaglie di Sistemi Operativi e routine fetenti e relazioni farsesche con i clienti del parastato da imbonire, simulando acrobazie fumogene e competenze tecniche che il nostro padrone ci imponeva di spacciare per alzare biecamente i propri ricavi.
Si può dire davvero che fossero altri tempi: ad esemplificarlo, basti fra tutti il bozzetto di un responsabile di comparto sistemistico di una grande azienda delle telecomunicazioni presso cui stavamo io e Fra, un tipo detto Clark Kent per via degli occhialoni tripli che lo distanziavano nel comprendonio di ciò che gli accadeva intorno, un paranoico pezzo di pane compensativo che ci spiava in quel che facevamo ma cui volevamo bene per forza, giudicate voi.
Clark entrava in massimo stato d’agitazione ogni semestale amministrativo, quando nel back-stage della sua azienda veniva valutata la spesa di budget per le consulenze esterne di cui ogni comparto disponeva autonomamente. Erano tempi italioti craxiani, di quei paradossi felici che nessun Babbo economico ci porterà più sotto le nevicate, O-hò!
Se eri un quadro alla Clark, in quegli anni, non riuscire a spendere tutto il budget assegnatoti era considerata una grave tara professionale. Tutto il sistema girava la sua rumba di Titanic nell’oceano inconsapevole del debito pubblico, le software house come la nostra succhiavano avidamente dalla zinna gravida e loro mollavano carezze a più non posso, senza guardare troppo ai risultati, la giostra collettiva doveva pomparsi su walzer di ardite commesse, ovunque.
Il risultato era una magica spartizione collettiva del bene comune, lavoro, risorse, benefits, piovevano ridendo fin dentro quasi l’ultimo dei mezzanini sociali. La Befana nostra particolare la faceva Clark alla gestione Sistemi, un giuggiolone da un metro e novanta che allo scadere del proprio semestrale usava strisciare nella nostra stanza supplicandoci di segnare sul tabellino ufficiale tutte le ore in avanzo che non avremmo mai potuto fare. Per noi erano straordinari fantasma a pioggia, per lui l’onore aziendale di sforare ponderosamente la vacca di budget.
Difficile credere che una supecazzola finanziaria del genere, targata anni 90, potesse tenere in piedi felicità ed economia, al tempo d’oggi, difficile come architettare da casa il percorso urbano di diciannove chilometri attraverso il centro cittadino per raggiungere il mio Fra a pranzo a via degli Aldobrandeschi, dove un tempo trionfavamo nelle more del socialismo nostro levante.
Devo ri-mettermi a tagliare la city da sud-est a sud-ovest come si faceva allora, oggi, e mentre chiudo il portone di casa scopro con rammarico di aver perso quel taglio topografico intuitivo con cui istantaneamente tracciavo rotte stradali complete e precise alla singola svolta. I clienti da raggiungere proliferavano sempre a ridosso dei tumori periferici più distanti e desolati che si possano immaginare.
Così scendo le scale pensieroso, sottobraccio a una vaga idea di Alzeimher che albeggia.
Al quarto piano mi chiedo ancora dov’è finito quel maledetto Tom-tom interiore che ero e se questa perdita possa costituire un danno umano o meno.
Al terzo piano mi dico che oggi e in futuro, probabilmente, potrò disporre di tutto il tempo da perdere che sfaticato possa mai desiderare.
Al secondo mi pare già chiaro come perdersi per qualche isolato di sampietrini nel centro di Roma sia impresa che ogni terrestre potrebbe desiderare con trasporto per una vita.
Al primo sono ormai convinto che i sistemi esatti, le routine di codice pragmatico, ma anche l’intabellamento sociale in senso stretto potranno benissimo fare a meno di me e della mia attitudine alle sintesi sfumate, oniroidi.
Al piano terra accelero il passo e il cancello fa ciak accogliendo la mia uscita, so ora, pienamente, che l’unica cosa importante è “adesso”, questo presente minore che amo e per cui ho lottato duramente, l’importanza decrescente dei collettivi che omologano e sanano la pandemia delle ansie da contatto.
Devo andare a dirlo a Fra, accidenti, che son due anni quasi che non lo guardo negli occhi bel-tenebrosi, nei leggeri movimenti mimici che fa sotto la cascata di capelli forti che in lui è ancora uguale a quella dell’”89” craxiano, solo divenuta una specie di inno al candore brizzolato degli anni.
Devo andare a liberarci di quella specie di forfora dei giorni macinati che ci imbruttisce le spalle, non importa affatto come, dove e quanto ci vorrà.
Start.
Sai cosa mi ha fatto pensare questo post? Che quando smetterò di fare la schiava, tutto ciò che conosco che applico che discuto che invento che proietto in chart inventate su progetti migliorativi per la mia azienda, mi passerà di mente e finalmente resterò sola, con il mio cervello in libertà, che potrà permettersi il lusso di rimanere incantato a guardare una foglia. Questa cosa adesso la faccio in macchina, mentre copro la distanza che mi separa dal mio efficientissimo e puntuale ruolo fatto di numeri, e mi lascio sognare mentre guardo all’orizzonte la montagna coperta di neve.
Ma un po’ mi spaventa. E se non ne sarò capace, domani?
per le donne, sul mediterraneo, è un po’ più difficile gestire senza sbandamenti quella che Jung chiama, non casualmente: la seconda metà della vita, cioè l’Individuazione, ci sono ben noti modelli culturali che stigmatizzano più o meno velatamente la singletude della donna, soprattutto alla nostra età, Rossa. Tra le anglosassoni andrebbe già un po’ meglio 🙂
ma ciò che conta, cara, è tenere un contatto sincero con le proprie paure, che sono emozioni, cioè vettori psicobiologici che la natura ci offre per adattarci meglio. sono sicuro che, di conseguenza, il destino trovi il suo proprio percorso ottimale.
a parte il fatto che ho dovuto andare a cercarmi il significato di oniroide – stato in cui mi ritrovo spesso -, mi pare sacrosanto che tu abbia archiviato per sempre il tom-tom se il risultato è questo strepitoso rabdomante di semplici, assolute verità che sei diventato. Scanziani l’ha detto così bene [il tempo non passa, arriva]: solo il presente esiste e tu oggi hai inventato la parola ponte.
v. 🙂
e l’hai trovato, “oniroide”? perchè il fetuso correttore word che ho me lo scazza come errore, ma pensa un po’, magari l’ha programmato qualche parente americano di Giovanardi ahahahah…
grazie V, hai un’iniziale importante, come la maschera anti-global 🙂
certo che l’ho trovato, altrimenti come avrei saputo di trovarmi spesso in uno “stato di coscienza, in cui il soggetto conserva un certo orientamento temporale e spaziale, pur con la presenza di fantasie deliranti e allucinazioni sensoriali” [in psicopatologia, ci tiene a precisare treccani.it]. Word è un po’ bigotto, nonostante la doppia V. 😀
ah, concordo pienamente con la precisazione sulle donne mediterranee, se ‘sto covo di cinquantenni continuerà a riunirsi in calce alle tue narrazioni, si anglosassonizzerà.
uh, la treccanata definitoria è corretta 🙂 molto Timothy Leary in vacanza a Venice, gli anni e le musiche li sai, altro che DSM..
Mai traghettato in auto per una serie di non seri motivi le mie paranoie impiegatizie, ho sempre caracollato in tram, mezzo che consente di perdersi, a volte, nell’altrui follia (a parte l’evitamento di gomiti, scippi, strappi e puzze). Posso invece comprendere bene il delirio craxiano che racconti, noi del parastato l’abbiamo vissuto dall’altra parte della barricata… Sai però cosa m’incanta del tuo pezzo? Il largo sorriso del cuore che si apre nell’abbraccio di un amico, laggiù, alla fine dei diciannove km… 🙂
ah ma “Fra”, è l’unico uomo che ho mai incontrato che m’abbia seriamente fatto venire voglia di sposarlo, per assurdo..
Io che non mettevo Craxi e Roma sullo stesso pensiero. Ma io che ne so di giungle d’asfalto. Ci sono dei passaggi in questo pezzo, da applauso. Sai che mi indebolisco davanti a certe didattiche esistenziali. Lo sai.
no, non lo sapevo, ti conosco mostly in s-veste di fustigatrice delle more narciseire presunte 😀