Se sei nato in Africa hai pochi desideri cardinali, uno è andare via, lontano. L’altro è tornare, certamente, ma è probabile che tu lo scopra solo quando sarai in un altrove, pacificato dal sottile tormento quotidiano della separazione.
Tornerai bruciando tutto il cumulo delle distanze fra te e la terra inconsapevole, forse. Così accadrà che già dal primo giorno del tuo esilio comincerai a muoverti con la velocità e la disposizione animale di una freccia scoccata sul territorio.
In realtà, non vi è nulla di più leggero che correre su un prato da bambini, laggiù dove vedi che ti il mondo ti sta lanciando un osso, una maledizione, una meta, un destino, un pallone, decidi tu come lo vuoi chiamare, decidi la metafora che ti inchioda al muro del destino e la velocità del sogno con cui ti sforzerai di stare al passo conseguente.
Vai via dall’Africa per pochi buoni motivi: perchè imbarchi il ruolo del religioso presso chiese e culti che non ti appartengono, per questo ti premiano coi soggiorni esteri di formazione al compito; oppure perchè lavori come un negro le tue miserie fino ad alzare la fortuna di un paio di migliaia di dollari, e allora aspetti la carovana dei disperati e vai a giocarti tutto nel deserto e sulle coste del Magreb, e ancora non sei nemmeno arrivato.
C’è poi l’insidioso tesoro dei mondi del pallone, il giro semplice di una sfera e il tuo piede nudo, l’arco flessibile della tua atletica corsa che si esprime. Pochi sono quelli che riescono ad andare via perchè arruolati nelle torbide cattedrali del calcio internazionale.
Pochi sono i poeti africani, a ben vedere, perchè in questa terra madre il movimento ascensionale dell’anima si rivela ancora negli oggetti, nei gesti, negli spiriti, nelle ossessioni insensate, molto meglio che nella parola.
Dentro questa rivoluzione antica nasce ad Anyama, Costa D’Avorio, 1987, Gervais Yao Kouassi, detto Gervinho.
Gervais è di quelle razze ultraterrene che sembra potere tutto, per dritto o rovescio che si presenti. Durante la prima partita che lo vede protagonista in Europa, Gervais si fa espellere per un pugno rifilato a un avversario e ottiene subito tre giornate di squalifica. Niente più di un’invenzione scombina la grigia tombola dell’uomo comune, prudente, sparagnino che siamo.
Fai conto di non sapere altro che lanciarti senza rete, allo spreco della prudenza; almeno un giorno nella vita, tutti dovremmo provare a cominciare un movimento, un’azione, un sogno in un punto lontano, improbabile del campo, e avere addosso bufali di avversari e un paese freddo e complicate circostanze difensive intorno, non capire davvero come poter riuscire a farla franca.
Dunque avere solo voglia di correre e correre e scartare l’avversario, saltare, fermarsi, girare su se stessi e ripartire, commettere azioni e finzioni che in un primo tempo non avvicinano la meta, sembrerebbe, è per questo che i difensori intorno impazziscono, perdono l’esperienza e cadono per terra come reclute alle prime armi.
Si capisce solo c’è un movimento che ti viene contro e non si arresta e pare senza senso. Così sa giocare Gervais e non in altri modi, partire veloce come un rasoio sull’erba senza nemmeno conoscere bene la strada per la porta ma sentire che un istinto ti guida, una cecità, una cosa che se la metti sotto la luce della ragione la perdi come un ridicolo amore impossibile.
Così davanti alla rete spalancata del destino, alla fine della corsa che ha seminato in terra i corpi degli avversari, può accadere benissimo che tu ti distragga, anche che riesca a mangiarti più volte la realizzazione compiuta del sogno che avresti appena con diritto conquistato.
Eppure nulla muta la sostanza del destino, che Gervais porti la palla in rete o che la svirgoli all’ultimo centimetro mandandola in malora è persino secondario nel disegno degli equilibri superiori.
Sovente la natura produce impedimenti per mischiarsi con te. Alla fine del gioco, comunque, i difensori e gli increduli mangiano la terra, superati di lato da una forma di incanto che sovrintende alle mosse di uomo nero, lanciato sullo scacchiere verde e verso la salvezza di una casa.
mi hai fatto completamente dimenticare che non mi interessa il gioco del calcio, non ne so niente, non proverò a seguirlo. ma questo è niente. mi hai fatto completamente dimenticare che non voglio più incanti. grazie
tranquilla, quella febbre ce l’hai addosso, predestinata, se ce l’hai, non si può scegliere. thanks Ji
Non so nulla di calcio.
Nulla. E non mi interessa.
L’incanto non è possibile, no, non acchiappare tutto.:-)
Grazie, Alex.
Gelsy
E, poi, mi hai fatto a cogliere anche molto del gioco del calcio in modo speciale, tutto tuo.
Gelsy
l’incanto è tutto, è il resto che scegliamo che ci classifica come impiegati dell’esistenza 🙂
Sì, Alex!
E’ così! E’ esattamente così.
🙂
Ho riletto!
Sì.Io rileggo sempre.
“è il resto che scegliamo che ci classifica come impiegati dell’esistenza”
Poche parole e hai detto talmente tanto!
Questo a me piace!
Ciao, Alex.
C’è qualcosa di diverso qui da te che non mi stanca.
Love
Gelsy
Potendo, da romana e romanista, metterei non uno ma dieci like su questa che, a prima vista, è una splendida lettera d’amore per il “nostro” splendido ivoriano fantasioso.
Ma chiaro che c’è altro. C’è la grande verità contenuta nel tocco di imprudenza e follia che a volte è alla base delle grandi imprese, o comunque delle imprese difficili. C’è che nel gioco complessivo bisogna spogliarsi di ogni ingombrante sovrastruttura per smettere di prendersi sul serio e riuscire a volare.
lui è un mostro buono, a londra ancora piangono. .
C’è molto davvero in questo scritto!
*E tu sei tu!*
Gelsy