Psicopatologia delle Partenze in Solitaria

 

el sis

Già sul volo da Katmandu avverti un leggero formicolio in te, come cento millepiedi che s’alzano dal letto e si stirano e chissà cosa hanno in mente di combinare adesso, proprio sotto la tua pelle. La tipa di Torino del sedile dietro il tuo ti allaccia le braccia al collo e smoina qualcosa di ormonale, pensi che non è nemmeno il caso di girarsi e darle il primo bacio sulla bocca, verrebbe una cosa di lingua e di denti mischiati, verrebbe una falsità intollerabile in quest’inizio-fine di viaggio, verrebbero promesse che nemmeno un martire sventato saprebbe mantenere, poi cadrebbe come una nebbia e tu non hai voglia di offuscare l’incognita che ti avvolge nell’equazione del dirsi addio, arrivederci o qualunque altra cosa ci si dice a quel punto, lì dove le gallerie dell’aeroporto si separano per destini differenti.

Loro proseguono per Leonardo da Vinci, a te tocca il corridoio del baggage claim, le spinte degli indiani disordinati che caracollano verso l’uscita, la riconsegna di uno zaino impolverato da trascinare in solitaria fino al centro di Delhi. Il risultato di questo intervallo di esistenze baluginerà pieno solo fuori dalla hall, mentre sul marciapiede sporco degli arrivi la caldaia vaporosa dell’India scioglie ogni contrattura sottopelle: cento millepiedi avanzano ora trascinando la sensazione che non t’aspettavi, che avevi scambiato per umori eroici, elettrizzati, e invece è solo una forma di paura sprofondata, è dozzinale gas panico che risale dalla trivellazione della solitudine che sei andato cercando. Sono biciclette che hai voluto tu, fermamente.

Venti altri giorni davanti e la prima volta che devi gestire un itinerario da solo in un paese sconosciuto, un paese che è anche un labirinto d’inganni dove è difficile perdersi, se tieni gli occhi sulla strada fuori di te, ma è un cavolo di tutt’altra questione, invece, se giri lo sguardo dentro.

Finisce in una maniera ingloriosa che non avrai il dovere di raccontare, per fortuna, se non al tuo testimone segreto. Finisce sul pullman che va a Connaught place rasentando le strane bidonville ordinate che sorgono a lato dell’autostrada. Finisce a chiaccherare per nervosismo con un americano giovane e seriale che sputa frasi a macchinetta, uno di quei viaggiatori maniacali che negli ultimi due mesi di itinerario hanno già visto dodici paesi e ventiquattro capitali.

Però va bene così, il problema che hai è il dominio del brutto umore panico che t’ha preso, parlare sposta in avanti il conto, prendere una stanzetta di tramezzi bucherellati alla Sunny guest house e condividerla col sudore e il respiro pesante dell’americano è la cosa più sensata che si possa fare, ora, qui.

Domani lui sarà già andato via e tu, finalmente solo, passerai tra i tavolini bassi delle colazioni dei frikkettoni back-packers cui questo luogo è dedicato ondeggiando come un pivello, occhio sgranato, sguardo vacuo.

Salve panico, proverai a scherzare dentro di te, mi rimetto alle tue volontà: cosa credi si debba fare per darti da mangiare qualcosa di appropriato e tenerti zitto finchè io non abbia accumulato la quota di indianerie esistenziali sufficienti che riuscirà a tenerti lasco, una volta buona?

Il rimedio fu ancora più ridicolo della malattia, in effetti, come prendere un tuk-tuk smarmittato e proiettarsi nel fetido traffico di Delhi fino all’agenzia della Delta airlines. Laggiù un’indianina arrogante ti guarda come si guarda un poveraccio che vorrebbe tornarsene a casa dieci giorni prima della data del suo volo e posto non ce n’è, e deve quindi accettare solo una minima riduzione della pena, un anticipo di due giorni soli.

Fai timbrare il timbrabile, poi esci nel viale indiano percorso da una folla di esseri vocianti striscianti e volanti, di carne e di metallo, esci e ti sembra subito una stronzata quello che hai fatto nel breve volgere di 12 ore: elettrizzazione, separazione, il panico, l’americano, la fetida Sunny guest house, la corsa a farsi cambiare il volo del rientro col timore di non reggere alle brutte sensazioni e stop.

Comincia poi un altro meraviglioso viaggio.

*

Così domani, sette maggio, a quest’ora starò facendo scalo a Madrid Barrajas, venticinque anni dopo, e per due ore non ci sarà altro da fare che andarsi a ricordare come ogni partenza ripeta in scala minore e metaforica tutta quella prima sciagurata volta a Delhi.

Risvegliarsi da soli in una città sconosciuta è una delle sensazioni più piacevoli al mondo”, d’accordo, ma prima c’è sempre una frontiera di timore burocratico da attraversare, nei giorni precedenti. Riconosco il segnale che il viaggio è iniziato e sarà intenso, indimenticabile, dal fatto che tre giorni prima non ho più alcuna voglia di partire.

Poi mi butto, voyage-jumping, una qualche corda esilarante mi riporterà indietro, nel momento del viaggio in cui non avrò per niente voglia di togliere il disturbo al mondo, invece, è uno slalom tra paradossi questo, un saliscendi mozzafiato di montagne russe, si paga per avere queste sensazioni, ma se fosse pure gratuito salirei lo stesso, sempre.

E una delle storie da raccontare ci sarebbe pure già, bell’e pronta da scodellare. Questa storia si chiama: Frank Sommariva e Vilma Duarte, due Nicas amici di un’amica appartenenti a incontri svoltisi vent’anni fa e di cui si son perse le tracce e i recapiti. Con Maru abbiamo dragato la rete nell’ultima settimana, di Frank non c’è nulla, di Vilma diverse cose, poesie, articoli d’attualità sociale, avatar sorridenti su finestre sociali latinamericane che sono trappole pubblicitarie, indirizzi e link non funzionano, e in ogni caso cercare Vilma Duarte è come vedersi apparire sotto il naso i chilometri delle mappate dei Mario Rossi che occupano gli analoghi indirizzari italiani.

Su Frank, viceversa, abbiamo trovato tracce solo nella mia memoria offuscata. Googlando ho ricordato una sera di vent’anni fa in giro per le stradine oscure dei Castelli Romani, verso Rocca Priora, cercando un casale occupato dove si faceva una serata di poesie e canti di lotta.

Alla fine giungemmo, Maru e io, sbarcammo nel grande etere fumigante e lei andò ad abbracciare l’amigo eroe Nica sul palco, poco prima che iniziasse a suonare, prese il microfono e lo presentò per quello che era: poeta, musicista, rivoluzionario, comandante di un manipolo di settanta campesinos armati che entrarono a Managua negli anni ’70 con le truppe di Sandino per vincere la rivoluzione.

El comandante Sommariva!!” Urlò selvaggia la Maru.

..que comandante y comandante..comandante di mierda!” Borbottò di rimando il Frank che era certamente un grande.

E questo è già il viaggio che precede il Viaggio. Perchè nei due giorni che passerò a Managua dove cavolo vai a trovare il Sommariva e la Duarte, mica puoi chiedere così, in giro. Oppure si, ma ci vorrà una gran botta di culo.

Sia lode alla sfera terrestre che ci ripercorre e ricapitola interamente, ogni volta, e buona permanenza stazionaria a tutti.

 

4 risposte a “Psicopatologia delle Partenze in Solitaria

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