#Circus#

 

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C’è un elefante che pascola laggiù, schiacciato sull’orizzonte dei palazzi grigi. Il circo ha piantato le tende anche quest’anno, un circo minore poco conosciuto che viene dalle pianure ungheresi, un fantasma di fatto che non supera il recinto d’indifferenza dietro cui si nasconde il mondo.
Ci sono pochi spettacoli di 45 minuti popolati di animali stanchi e clown dal trucco sbavato. Certe volte a metà dell’esercizio i funamboli inciampano sulle corde tese, cadono di schianto sulla protezione di reti rammendate alla meglio. Pochi spettatori distratti in platea applaudono qualsiasi cosa.
Lello nota appena quell’elefante mentre impenna la forcella del motorino, la tiene su manovrando abilmente di gas, affronta il vialone principale zigzagando tra le buche dell’asfalto. Urla d’orgoglio escono dalla sua marmitta modificata. E il fumo che lascia si mangia quel po’ di aria di primavera che arriva stancamente fin quaggiù, ai piedi delle torri del quartiere dormitorio.
Ci sono campi dissestati a lato della strada e cespugli di cardi selvatici, grossi cumuli di calcinacci. Più in là i resti di una chiesa in stile futurista, incubo di un architetto alieno che non ha mai trovato pace. Campi da cui Maria s’era rialzata con la schiena bianca di calce, perché quello per loro era stato crudamente il suolo del primo amore.
Nei rituali incerti del dopo, le dita tremanti di lei cercavano le labbra arricciate di Lello. Lui non sapeva che fare, aveva mosso una mano ruvida a scompigliarle i capelli lunghi, aveva cercato un gesto qualsiasi, per difendersi dalla concentrazione di silenzio che li stringeva alla gola. Si erano messi a ridere alla fine, una risata stonata in faccia a un’aria che sapeva di vernici buttate.
Non è che Lello si ricordasse bene, ma è probabile che quella fosse stata la loro unica risata. A scuola, quando si incrociavano nei corridoi gonfi di echi, i sedici anni di Lello tiravano dritto facendo spallucce. Un’ossessione di voce gli ripeteva ancora a denti stretti: non voglio baciare, non voglio baciare, non voglio baciare. Solo scopare.
Lello fa una pericolosa piega sulla destra e si scansa per un pelo, inchioda i freni salmodiando una linea sottile di Porco tra le labbra strette. La Mercedes veniva velocissima al centro esatto della carreggiata e l’aveva sfiorato di un pelo senza calcolarlo minimamente. La targa gialla era però riconoscibile, e anche i graffi sulle fiancate, i paraurti piegati. E quei manubri di baffi unti, all’interno, che sfioravano il parabrezza. Ne aveva quasi sentito il puzzo di grasso infame.

Ma è un giorno di paga questo, finalmente. Il Tronco ti darà una mano.
Lui e il Tronco, un anno d‘incazzature tra baretti di insegne scassate e minacce ai professori e nuovi appostamenti sotto il palazzo di Maria che non aveva più abboccato. Maria non scopava più. Almeno con Lello.

Però, i rottinculo i ungheresi son tornati, e questo è un fatto. Il Tronco aspetta Lello sulla terrazza della nona torre, starà fumandosi pure l’anima dall’impazienza e dalla rabbia.
Lello, mani perse nelle tasche del giubbotto, salta tre a tre gli ultimi scalini della rampa accanto ai lavatoi. Esce nell’aria sottile della terrazza tra lunghe fila di lenzuola stese che si agitano lievemente. Non c’è nessuno tra la foresta di antenne piantate a caso come spilloni sul tetto del palazzone popolare. Una manata di vento spegne la fiamma dell’accendino.
Lello accucciato su se stesso ascolta echi di traffici lontani che scorrono sul Raccordo Anulare. Fa ancora male quel cazzo di ginocchio, tre operazioni e le visite di circostanza dei parenti, il puzzo nauseabondo d’anestesia sospeso ancora sui nervi.
Da un anno Lello ha smesso scuola calcio e ha preso a zoppicare sulle strade lerce del quartiere. Sulla circonvallazione, inutilmente larga come un incubo di pista d’aeroporto, c’è ancora la tabella divelta e il palo piegato dalla botta. L’ungherese non s’era nemmeno sognato di fermarsi a raccoglierlo. Lello aveva urlato fino a graffiarsi la gola, aveva bestemmiato ogni genere di dio in faccia alla sera indolente che spingeva poche macchine verso casa. A quell’ora in quel quartiere solo un cane l’aveva annusato prima di prendersi una sassata di rabbia.
A piedi, trascinando, sanguinando, smoccolando, così aveva raggiunto il Tronco alla pista di pattinaggio. C’era stato un lungo abbraccio e promesse giurate di vendetta. C’erano stati lunghi giri di ronda intorno ai prati dov’erano accampati gli ungheresi, ma la vendetta gli era scivolata di mano.
Un giorno avevano trovato solo le vecchie spade mai raccolte e i preservativi, i lavandini amputati e le cartacce. Gli infami avevano levato le tende.
E ora il Tronco non si vede, sguardo che buca l’esplosione di fumo aromatico, occhi buttati fino allo svincolo dell’autostrada, sorvolando un tappeto di carcasse di macchine che sfavillano di riflessi.
Lello manda giù astiose frazioni di respiro. Una brutta plastica di sapore gli amareggia la lingua. Il cielo è lontanissimo, girato di spalle. E Maria, in definitiva, non è che un buco stretto e tante smorfie da prima della classe.
Doveva portare la tanica di benzina, gli stracci e le bottiglie, il Tronco. Fanculo pure lui. Se la caverà da solo.
Non c’è nessuno all’entrata sul retro del circo. Lello è scivolato fin qui a motore spento. Adesso viene il bello, perché la rabbia s’è stemperata nelle ultime silenziose centinaia di metri e un frullio di ginocchia fa tremare pericolosamente la scalata tra le sbarre di ferro arrugginito. Dalla sommità cigolante del cancello Lello piomba nella pozzanghera di fango tra due roulotte, tanica e bottiglie a piovere dietro di lui. Il ginocchio percosso gli caccia un urlo in gola, l’urlo sbatte sul silenzio imposto dei denti serrati.
Rimane qualche secondo accucciato sulle terminazioni nervose che sfiammano il dolore. Ci fosse stata la sfacciata arroganza del Tronco a tenergli compagnia, almeno, se ne sarebbe fregato di questa odiosa rumba di tremore che gli scuote il cervello.
C’è invece un tipo affacciato alla finestra di una roulotte. Ha una strana faccia piccola e uno strano sguardo che fa su e giù puntando verso di lui senza incrociarne gli occhi. Passano secondi interminabili tra ronzii di pensieri e martellate di panico. Lello ha il cuore in fuorigiri e il respiro che spinge sotto la lingua. Ogni battito dolorosamente spremuto incendia il flash di un’immagine:

uno slancio per colpire…
l’ammazzo il bastardo…
scappare, ora…
Maria bianca di calce…
sangue dentro gli occhi…
un bacio con la lingua…
il Tronco moribondo da qualche parte…

le sue scuse pietose…

delle cazzo di mattine di dolcezza senza motivo…
coltello tra le scapole…

una tanica svuotata…

il frocio Zippo senza benzina…
e urlare…
urlare…
urlare……
Il nano rimbalza su lenti passi che si avvicinano.

Asserragliato su poche onde di coscienza Lello resta immobile in un cerchio d’allarme.
Il nano è ai suoi piedi. Lo scruta, lo tocca, lo viviseziona di sguardi curiosi che bucano la pelle. Poi lo prende leggermente per un braccio, gli scuote la manica del giubbotto, lo guida verso tre sbilenchi scalini di roulotte. E poi dentro, nel puzzo di acre organico in un ambiente male illuminato.
C’è Maria che galleggia sulla cresta esausta dei pensieri. Dovrebbe esserci una qualsiasi reazione e invece c’è solo Maria che grida sotto la spinta dei suoi fianchi. Maria che gli chiede un bacio con la lingua. Maria alle due di notte che imbocca di corsa il portone di casa dopo un altro strattone violento.
Il nano sorride e ammicca, scintille ignote gli si accendono nello sguardo. Sorride e comincia a spalmarsi una pasta bianca sulle piccole guance imborsite. Sorride e non parla ma è chiaro che vuole dirgli qualcosa. Non si sa cosa. Saltella sulla sedia, avvicina la faccia allo specchio, strizza un occhiolino, fa piccoli incomprensibili suoni gutturali.
Lello vorrebbe sedersi un attimo, fare ordine tra cianfrusaglie di pensieri. Il peso del corpo invece continua a spostarsi sulle articolazioni che scattano e lo rimandano indietro.
Dov’è il Tronco. Perché non l’ha raggiunto. Dov’è finita la tanica di benzina che s’era portato dietro. E la lama di rabbia che gli aveva armato il coraggio. Che ci fa in questa stamberga di roulotte. Perché gli ungheresi non l’hanno ancora ammazzato di botte. Perché non c’è nessun altro in giro che questo ridicolo nano truccato da clown.
Il nano intanto ha finito di acconciarsi. E’ salito d’agilità su una cuccetta a mezza parete e ha dato via a una specie di rappresentazione. Esegue abili piroette, fa finta d’inciampare, gesticola d’enfasi. Poi si ferma, caccia una piccola mano nei pantaloni a sbuffo e tira fuori palle colorate di gommapiuma. Le lancia verso il muso allibito di Lello che si piega di scatto.

Intanto, c’è un movimento silenzioso che attraversa la luce del finestrino di destra. Un movimento che cattura la coda dell’occhio di Lello, lo fa girare, muovere d’istinto verso l’uscita stretta della roulotte.
Una sorda carica di muscoli esplode al nuovo contatto col panico. Lello trascina con sè il frastuono di una mensola di boccette che viene giù di schianto. Salta di volo i tre gradini d’accesso e comincia a correre come un pazzo nella luce violenta della mattina.
Lello finisce di slancio sui piccoli rombi arrugginiti della rete di recinzione. La corsa termina in un cigolio allarmante. C’è ancora quel leggero movimento di sagoma bassa che continua a stagnare di lato alla coda dell’occhio.
Nel risucchio del fiato espulso s’infila un altro rumore, un brontolio sordo che pare venga dal cielo. Mentre guarda i brutti casermoni della scuola appoggiati su un miraggio di panorama, Lello spera ancora che il rumore venga da un temporale in arrivo nel cielo distante, ma la cosa è assai improbabile.
Poi si gira lentamente. La bestia respira profondamente sulla linea dei fianchi, la coda nervosa frusta l’aria. Dietro il felino stanno le impalcature ammonticchiate, il tendone sgonfiato del circo, la linea grigia delle torri dove abitano Maria e il Tronco.
L’aria è ferma, infinitamente immobile, e c’è quell’odore acre di bestia che è l’unico segnale vivo a raschiare la coscienza di Lello che si sente floscio e inutile come quel cazzo di tendone smontato.
Troppe notti a vomitare i sensi lungo muretti in costruzione, e pali della luce che forano il buio in un disco di chiarore largo poche decine di centimetri.
La fissità di quei larghi occhi gialli s’impossessa lentamente dei suoi nervi stanchi.
Maria bianca di calce è un fotogramma isolato ma resiste in qualche flusso che lo scava dentro, in un luogo in cui le parole sono solo equazioni inesplicabili, di quelle che ti condannano a ripetere l’anno più volte, finchè non ti stufi dei professori e ti metti a lavorare per nascondere la fame. 

E dimentichi, forse, ti pieghi e ti sbilanci, senza accorgertene.

Che si poteva fare d’altro oltre il nodo dei nervi, un rombo di motore modificato andando incontro alla vita ringhiante del Tronco.
Mattino, pomeriggio e sera, lunghe traversate di campi e ancora campi e solo poveri campi. Teorie di sterpaglie secche che moltiplicano all’infinito le distanze.
E di notte luci di gru che piovono dall’alto, come stelle truccate, nel canaletto di scolo della città.
Piccole screziature scure si muovono nella pupilla immobile del felino.
Ancora domeniche vuote, afasie di concetti, suoni di gola da affidare a una piazza, all’asfalto già vecchio corroso dai cancri delle erbacce. E una voce acuta di madre bambina.
Liti furiose di sabato sera, urla contro i capannelli acquattati dietro le macchine in fondo al parcheggio. Dal balcone di nudo cemento cui escono violente le anime di ferro.

La tara di un padre infame.
E poi Maria.
Maria.
Maria.
Maria…
Ruggito e urlo d’uomo s’abbracciano in un solo suono prima di sparire nell’aria ferma che odora di sudore forte e di bestia. Lello finisce nella polvere e perde conoscenza. Il leone fa un altro brontolio grave prima di girarsi lentamente e sparire da qualche parte al di là del tendone smontato.
Un alone di luce umida piove dall’alto del lampione a lato del cancello arrugginito. La luce di una sera come tante altre per Lello che si risveglia di fianco al motorino.
C’è puzzo di benzina. La tanica con gli stracci e le bottiglie lì accanto. Tutto ordinato con estrema cura. Nessun rumore dal recinto del circo. Nemmeno un movimento.
Lello allunga una mano a sfiorare lo strappo nei jeans. C’è una crosta di sangue raggrumato poco sopra il ginocchio, ma il dolore è leggero, l’articolazione libera di muoversi.
Lello flette la gamba. Appoggia le labbra alla ferita e lecca via dolcemente il sangue secco.
Quasi il movimento estasiato di un bacio.
Poi prova a rimettersi in piedi. Ci riesce con uno sforzo minimo. Il respiro si posa docilmente sulla linea profonda del diaframma.
Il cuore batte calmo e regolare.

 

 

 

12 risposte a “#Circus#

  1. Adoro il modo in cui scrivi. Si sente così tanta passione nelle tue parole. E poi hai delle immagini davvero belle che escono con una spontaneità quasi infantile.
    Ecco io che sono parecchio invidosa non dovrei mai leggerti.
    Bel testo davvero. Si divora

  2. è quasi incommentabile, tanto è denso e insieme fluido e caldo. non sai dove infilarti. c’è una pazzesca sintonia tra le descrizioni – le tue descrizioni – e l’accordo emotivo.
    come qui
    Asserragliato su poche onde di coscienza Lello resta immobile in un cerchio d’allarme.
    e qui
    delle cazzo di mattine di dolcezza senza motivo…
    e qui
    E di notte luci di gru che piovono dall’alto, come stelle truccate, nel canaletto di scolo della città.
    i tuoi adolescenti continuano a tirarmi fuori da una specie di pozzo secco e sbrecciato.
    Hic sunt leones. che rientro.

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