Un viaggio somiglia troppo a una malattia per lasciarlo scorrere senza conseguenze sul lucido di un finestrino. Un viaggio non lo puoi trattare nemmeno come il tuo cagnolino da riporto, diventerebbe facilmente una piccola cosa bisognosa di cui ti stancheresti presto, e forse subiresti la tentazione di scaricarlo sul ciglio di una strada, all’oscuro di tutti.
Così è stato che a San Jose hai trascorso una tappa sbagliata, dove molto dell’irrazionale ha fatto covo lungo una notte scomoda e una vasta camminata il mattino dopo, ma il fatto in sé rischia di sembrarti una fortuna.
Sei inciampato tre volte andandotene in giro per stradine trafficate e marciapiedi sbeccati, per seccature e canaletti di scolo e tombini divelti, hai preso per il collo una cinquantina di fotografie e tirato su e fuori dal naso, ripetutamente, mentre ti facevi largo tra sguardi poco ospitali e cattive folate di grasso fuori standard che i Mac locali vomitano addosso a tutti, generosamente e senza filtro.
San Jose è una città brutta, ci sarebbe poco altro da aggiungere, salvo che per amore di giustizia devi provare a comprendere te stesso nel bilancio del giudizio, abbandonando quella disumana ossessione che sia possibile descrivere oggettivamente le cose del mondo.
E tutto questo si poteva forse evitare ragionando meglio a priori sull’itinerario, perchè questa benedetta città non hai fatto proprio nulla per scansarla, l’hai lasciata lì e subita nel taglio di un pomeriggio tardi, nell’ora delle ombre che s’allungano, hai aspettato che finisse la falsa esposizione dei quartieri business sulle tangenziali di raccordo, hai lasciato che il taxi si facesse largo attraverso i grumi di viuzze perpendicolari del centro per distinguere la grana di brutti ceffi che la sorvegliano agli angoli delle strade, davanti ai cancelli arrugginiti, sul fondo delle piazzole di parcheggio custodito che punteggiano la geometria degli isolati di palazzine basse nel patchwork urbano.
Così al capolinea del percorso, con l’anima un po’ girata parcheggiata in un ostello caro e moderatamente pulcioso, tanto ti ricorda che al mondo non puoi promettere altro che una forma di devozione a te stesso, alla ricerca dei tuoi determinanti segreti.
San Jose pare niente, invece fa venire certi pensieri del genere che: non sei più giovane e non hai più nessun obbligo di rappresentanza né desiderio che ti annulli negli oggetti, puoi quindi permetterti di leggere il paesaggio in una soggettiva stretta, tendenziosa, che illumina prospettive viziate, e lasciare andare le cose per le malore cui sono destinate, anzi, di andarle a scavare con le tue mani stesse queste malore, col piglio di uno scienziato delle discariche, senza scomporti più di tanto.
E dunque esci e non puoi fare a meno di notare la grande percentuale di obesi che svetta muovendosi nella folla che attraversa avenidas e calles. L’obesità è stata a lungo un disagio tipico dei paesi poveri, un po’ figlio della cultura di compensazione per cui “grasso è benestante”, un po’ del fatto che i grassi animali costano poco e riempiono lo stomaco, molto.
Eppure oggi non sembra diverso nei ricchi Stati Uniti, dove la velocità imposta da un modello culturale antitetico genera gli stessi effetti di sovrappeso nella popolazione media. Di ritorno, il concetto di fast food s’è insediato benissimo nel secondo e terzo mondo, così il ragionamento generale disorienta, come disorienta il processo di globalizzazione che s’allunga ovunque, e ti appare cattivo e ben declinato nell’aria generale che presidia questa città: non si capisce bene, in effetti, se si è al cospetto di un paese benestante o povero o quant’altro di socialmente mutevole.
La verità che seleziona queste frasi è che avete parecchi quartieri irrisolti, tu e San Jose, alcuni slarghi improvvisi di vecchia eleganza coloniale e un certo numero di edifici moderni, grandi ingressi di Banche su un paio di unici larghi viali in mezzo a un folto di stradine che scendono per arie malmesse, botteghe scrostate, folate di marcio che stringono la gola e miseri banchetti di commercio ovunque, senza allegria, postulanti della fortuna ricoperti da lenzuolate di biglietti della lotteria, poliziotti attenti che cavalcano mountain bike per il rapido intervento sulle aree pedonali a rischio di scippo e aggressione, e ancora flussi continui di modesti salariati che camminano svelti a lato di cose umane sporche che dormono nel giorno pieno, abbandonate contro qualche muro annerito col grande formicaio urbano che gli gira intorno.
A governare il tutto una serie di voci e rumori elettronici ripetitivi, che montano l’uno sull’altro e spandono il senso di vago disagio ovunque.
Su è giù per l’avenida central, dove si è tentato di installare un certo senso di eleganza business, si rincorrono i richiami fissi, tra il seduttivo e il lamentoso, delle venditrici di melocoton e giocattoli improvvisati, di ammennicoli da donna, di forbicine e orologi pacchiani, di biglietti di ogni genere per concorrere alla vittoria finale di un miliardo di colones.
Davanti ai grandi fluorescenti negozi di scarpe sportive la musica elettronica tortura i passanti; di fronte a una gigantesca sala Bingo un vecchio signore creolo, baffetti d’ordinanza, statura secca e affilata da pesce di bisca, ripete la propria ipnotica giaculatoria di ventura sul numero ottantaquattro, ottantaquattro, e ancora ottantaquattro, ci si potrebbe accordare un metronomo sulla scansione di questo numero.
Oscilli tra piccoli stupori e grandi idiosincrasie tu, non sapendo bene come metabolizzare tutte le dissociazioni che ti investono.
Ci metti un’ora buona a capire da dove provenga quell’ultimo suono sintetico, campionato, che ti raggiunge fin dentro le ossa, del tutto simile alla controfigura di un uccello tropicale dal suono ossessivo, al popi-popi ritmico che fanno i peluche da autogrill quando li strizzi ripetutamente: si tratta, semplicemente, del segnale acustico che corrisponde all’arancione degli attraversamenti pedonali. La cosa in sè ti si somma oscuramente in cima alla lista dei fastidi provati.
Pensi che un’esperienza di giramondo non riuscirai mai a fartela davvero, nonostante gli anni che hai speso per la causa. San Jose ti costerà 48 ore di seccature da mettere in conto alla tua radice ondivaga, colpevolmente superficiale, ma non ci spendi più di cinque minuti di ragionamento. Ti sembra in effetti, oggi, che gli stati d’animo possano scorrere senza più fermarsi, con tutto il sollievo di una certa libertà d’azione residua e tutto il rumore e le acrobazie che ti si impongono per mantenere l’equilibrio vitale.
In quest’ultimo tratto somigli pericolosamente alla massa dei modesti salariati del nuovo ordine economico, così come appaiono gran parte dei cittadini di San Jose, uomini appuntiti e sbrigativi, al limite del malmesso, che danno l’idea di essersi sbarazzati delle ingombranti domande fondamentali, gente che ha imparato a riciclare in fretta e al ribasso tutto il cumulo delle speranze residue e tira a campare.
Guardi questi uomini che sono in te senza un filo di partecipazione emotiva, registri solo come entrano ed escono dai locali dove si cucina pesante, come passano sotto tabelle affisse dalla direzione che ammoniscono l’etere riservandosi il diritto di ammissione e proibendo contestualmente le effusioni amorose.
Uomini senza amore che camminano guardando un punto sfocato di fuga nella persistente afa atmosferica che li ingoia, tra le sgasate di nero degli autobus e le gigantografie pubblicitarie che strillano le colazioni del mattino in offerta settimanale, i vestiti stampati in vendita promozionale, le scarpe ribassate, e tutta la fortuna disponibile, acquisibile per meno di mezzo dollaro, tutta quella forma di dio fiaccato che può ancora ipoteticamente raggiungerti in qualsiasi luogo-momento al mondo. Basterebbe solo acquistare ognuno di questi dannati miliardi di biglietti della lotteria che affogano gli angoli delle strade.
Que te vaya bien, mia desolata San Jose, forse davvero è un posto maledettamente interessante quaggiù; questo sei costretto ad ammettere, da ultimo.
E non sai nemmeno più se sia la città o la promozione della cieca sorte o gli echi dei richiami campionati e dei semafori che come chewing-gum svaporato ti si attaccano addosso. O solo parte del fantasma di te stesso, in quella sensazione precisa di un mondo che annega lentamente nell’omologo indifferenziato, disorientando al futuro.
*
Ordinabile in libreria e presso il sito dell’editore:
Non mi pare che le persone che descrivi siano di fatto poi così tanto diverse dalle persone che camminano ogni giorno sulle strade di ogni paese del mondo.
Le coreografie sono diverse ma di fondo tutti proviamo a sopravvivere, accantonando domande a cui non sapremmo rispondere (o che ci porterebbero a conclusioni dolorosamente pericolose) e riciclando le speranze.
Certi luoghi non esistono per essere interessanti, esistono per darci modo di guardare dentro noi stessi. E alla fine ogni viaggio ha un senso. Ma questo tu già lo sai…
si, stiamo diventando nazione unica, San Jose è davvero interessante per alcuni avanzamenti di fase, le esagerazioni promozionali, i suoni ipnotici, ripetitivi. Hai mica visto Essi Vivono, di Carpenter?
E’ un film che fa pensare. Molto attinente alla realtà in cui tristemente viviamo. Il nostro mondo è così pieno di suoni luci e colori, tutto abilmente orchestrato per eclissare la miseria dei contenuti.
guarda, sai cosa mi stupisce di uno stupore che non è stupore in fondo ma conferma? quel tu, quel raccontare a te stesso, che fa scappare la narrazione in soggettiva e poi riacciuffarla per la coda, quel destinatario della narrazione che tante volte usi, ma mai così prima, con questa tenerezza lucida per te stesso. ma che ce ne faremmo mai, noi, di una descrizione oggettiva delle cose del mondo, quando possiamo avere i tuoi tre inciampi e i suoni e gli odori che saltano fuori dalla pagina?
penso che tieni ragione, esagerare con l’autismo stanca anche l’emittente. che ve ne fareste? ma per quanti avatar rispondi, Ji? 🙂
che ne so… certo ancora non sono arrivata al pluralia maestatis (manca poco) sono solo sicura che la cosa è condivisa 🙂 besos