The Bad & Breakfast File

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L’ultima volta che il campanello suonò fu un errore. Davanti al portone c’era uno strano essere pallido, che pareva in fin di vita. Chiedeva di una lontana cugina, l’ultimo parente conosciuto che gli fosse rimasto.
Parlava con una voce di saliscendi, come cercasse di aggrapparsi continuamente al tono, parole di straniero dignitoso con cui esponeva una complicata traduzione del cognome di mia moglie.
Fui sul punto di farlo salire, avevamo tutto quel caffé ancora tiepido. Non sapevo che fare e non mi pareva giusto perdere da solo la mattina e poi alzarmi dal divano e vuotare la caraffa tutta insieme nell’acquaio, come tutti gli altri giorni.
Lui aspettava, senz’altra luce in volto.
Io pensai che al giorno d’oggi è normale prendersi in casa il primo venuto, ce l’hanno quasi tutti, ormai. Soprattutto chi vive in città.
Piuttosto era che non volevo crear problemi all’altro pallido essere cui avevamo già affittato una stanza.
Erano due settimane che lo avevamo accolto in casa, il giorno che s’era presentato bussando pieno di vergogna alla porta, con una storia vagamente simile da annunciare.

GQX era arrivato da noi una volta che con Eva avevamo ripreso a combattere le nostre piccole cose quotidiane.
Io sostenevo che occorresse riunire di nuovo tutto il caseggiato per ridiscutere le quote di smaltimento dei rifiuti.
Mia moglie girava per casa, gelida com’è di carattere, spettinava le bambole e mangiava il patè di fegato con le dita, direttamente dal vasetto conservato in frigo.
In nessun caso, affermava, avrebbe rinunciato al piacere di tritare i rifiuti tutti insieme, nel lavello di servizio, come sempre.
La novità grossa era ormai notizia consumata.
Erano già tre mesi la radio e la tele ci avevano informato dell’invasione.
I talk show guidavano quietamente le coscienze di tutti verso la consapevolezza dell’opportunità che era capitata.
Una nuova razza e una nuova storia, l’ingegno di un seme celeste, la volta buona per portare via definitivamente la massa dai luoghi di culto, per impegnarla in qualcosa d’importante.
Eppure, la gran parte degli scienziati e dei politici fu presto messa davanti al muro dell’evidenza. Dura fu la prova, innumerevoli altre discussioni furono prodotte e diffuse, inoculate capillarmente fin nelle vene dell’ultimo Reality Show.

Ci si dannava l’anima con lo spirito dei tempi, la zeitgeist collettiva, ognuno monologava, tra sé e sé e gli altri, sul brutto svolgersi dei giorni.
Si diceva che, in fondo, niente di buono c’era da aspettarsi dall’apatia generale che aveva accolto le ondate degli ultimi migranti celesti.
In effetti non s’era visto nessun moto di piazza, nessun delirio collettivo, tanto meno il panico dell’ignoto, nemmeno scendendo al livello delle ragioni individuali.
Gli omicidi e gli stupri, in realtà, erano diminuiti. Ci fu qualche sabotaggio notturno, qualche hacker che sfidò con decisione il cuore del sistema, senza tuttavia riuscire a decifrarlo.
Ci fu un aumento dei casi di corruzione pubblica, un quartiere intero che iniziò uno sciopero della veglia, ma nient’altro di fastidioso ce la fece a superare la medietà delle cose di ogni giorno.

Mia moglie venne fuori dalla doccia tutta gocciolante, una pozza imbarazzante ai piedi, con il suo miglior vestito di Gattinoni che le pendeva dalle spalle come uno straccio scolorito da mercatino.
– Manca poco ormai.. –
Solo questo disse, con voce neutra, evitando anche quel piccolo fremito di noia impaziente che usava quando reggeva la fronte di GQX, quando gli rimboccava le coperte a sera o quando, seguendo fedelmente le sue complicatissime istruzioni, preparava quegli strani pasti di brodo gorgogliante che lasciavano righe profonde sui piatti del servizio.
– Tutti ne abbiamo uno, persino la vecchia ubriacona che vive nella catapecchia in mezzo al parco. Mi piacerebbe sapere però, a parte tutto, quando tutto sarà finito, cosa cambierà davvero dei nostri giorni. –

Presi il cane, che guaiva ormai da una settimana, e scesi in strada, con la speranza di fare una passeggiata che mi avrebbe schiarito le idee.
Intorno alla grande piazza del municipio una vasta folla di sfaccendati stava affluendo come a un raduno di attardati, ognuno col passo lento e ondivago. Ognuno, disorientato, cercava con aria miope i nomi delle strade che sboccavano al centro, lì dove stavamo capitando in molti.
A nessuno pareva possibile che ci si fosse persi tutti, verso lo stesso punto.
Qualcuno trascinava davanti a sé una carrozzina col suo ospite moribondo, perso in un dondolio del busto di lato e in avanti che ricordava certe sindromi spinali.
Un mormorio lamentoso si faceva largo facilmente nell’aria svuotata dai rumori dell’ora di punta.

Quanti giorni sarebbero serviti perché tutto il meccanismo riprendesse a girare nel solito modo, come prima dell’invasione, oppure perché virasse verso quella malora che ognuno s’aspettava, in fondo, al risveglio dai propri sogni.
Non fummo in grado di capire cosa volessero, non fummo in grado nemmeno più di badare al labirinto ormai rifrangente dei nostri modi e dei ruoli così com’erano distribuiti collettivamente, con la complessità dei significati e con quel minimo d’impegni gestionali che c’eravamo lasciati da sbrigare.
Le forniture pubbliche di acqua, gas, elettricità, procedevano a singhiozzo, ma nessuno veramente se ne lamentò.
Imparammo piuttosto a limitarci nel consumo delle risorse, a rubare l’energia del vicino o di quello più distratto, ognuno secondo turni prestabiliti. Imparammo da loro quella strana vena di luna, quell’umore speciale, meditabondo e pavido e smagrito, che faceva somigliare le città a giganteschi padiglioni d’alienati.
Qualcuno sostenne che quella sciatta inclinazione noi la possedevamo già, come possibilità di sviluppo, come razza, come impronta genetica che aspettava solo l’innesco giusto per rivelarsi.
Imparammo a farci gli affari propri, tutti, alla buonora.

Fu l’ultima volta che un essere si presentò alla nostra porta, quel giorno, nessun altro uomo del resto venne mai più.
Il sole pioveva una luce dai minacciosi riflessi purpurei, loro continuavano a morire senza una spiegazione, loro che erano giunti senza invaderci, loro per cui da subito fu chiaro che occorreva dare una mano, o forse erano loro a volerla dare a noi.
Che forse avremmo dovuto far qualcosa di più o di meglio per comprenderli, per salvarli, e che tutto ciò comunque accadeva oltre la nostra poca forza di volontà, per ragioni che nessuno era in grado di illuminare.

Quando il vento cosmico cominciò a tirare forte, più d’un uomo rispose con grida di giubilo.
Ognuno per conto suo corse verso i rifugi, fece ressa alle porte di sicurezza, scese le scale con un’eccitazione selvaggia, paragonabile a quella di un’antica gita scolastica di adolescenti.
Loro furono dimenticati, chi riverso nel soggiorno, chi abbandonato in giardino, chi appena dietro la porta massiccia del rifugio.
Altri cercarono di seguirci, strisciando esausti sui marciapiedi mezzi divelti. Cercarono di smontare le griglie metalliche dei condotti d’aria. Qualcuno provò persino a risalire per i condotti delle fogne, perdendo definitivamente l’orientamento.

Così l’uomo era stato ben sistemato sotto terra, finalmente. Fuori splendeva un sole scuro che ancora non moriva.
L’uomo si sarebbe salvato, ancora una volta, imbozzolandosi nel fodero di giorni scuri, popolati dai fantasmi dell’asfissia, della violenza selvaggia che può esplodere a condivider pena nei pochi metri di una cella.
Senza sapere, nemmeno indovinare, che il cuore dell’universo non avrebbe affatto smesso di battere.
Questo erano venuti a dirci, in fondo, da questo erano venuti a salvarci.
Così lentamente e in solitudine, uno a uno, se ne andarono per sempre.

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