La mattina è un marciapiede affollato che sbanda e traballa sotto le suole pesanti, un lucido di mente asserragliato molto in alto, intorno a pensieri che lampeggiano e sfrigolano come fili di tram.
Lupus arriva davanti casa di Marco con un certo anticipo, per ambientarsi, per mandar bene a memoria la parte.
Prende l’ascensore di soppiatto come un ladro, gira la chiave nella toppa senza far rumore, si infila in un lungo corridoio, cammina leggero senza offendere di stivale-tacco il parquet sfavillante.
Poi pattina sul lucido di salone fino alla grande porta a vetri. Esce sulla terrazza incastrata tra i vicoli e il cielo di Roma, un panorama che toglie il fiato, un respiro che rende evidente ogni esagerazione.
Un chitarrista di blues semi-sconosciuto della sua fatta non arriverà mai in alto come quest’attico.
Lo scampanio della porta lo coglie del tutto impreparato. Un suono di vere campane, lungo, altissimo, quasi una presa per il culo.
Il filippino è in ferie, mi raccomando, niente colpi di testa e niente festini fuori programma. Questo gli ha detto Marco prima di consegnargli le chiavi di casa.
E a Lupus tocca di correre sulla cera tenendo un equilibrio che non sente, quasi frana sulla porta.
Daria Monetti entra in casa ma non ha la solita aria da padrona del territorio che sfoggia nelle conferenze stampa. Per la verità non mostra nemmeno i suoi cinquanta suonati di rughe, Daria ha un tailleur perfettamente firmato e attillato, qualche piega incontrollata sulle natiche e una fretta nervosa sull’accento controllato di periferia. Si sforza di contenere i gesti ma lascia scappare piccoli click di nervosismo intorno agli occhi blu e sulla punta delle dita approssimativamente smaltate.
Viene fuori subito che Daria non è “Daria”, piuttosto una qualunque Giada Del Monaco sulla trentina, molto carina e inquieta, una semplice praticante giornalista della rampante corte Monetti.
E Lupus si fa venire un mezzo colpo mentre gli offre un’aranciata da bere. Si era preparato meticolosamente tutta la storia da far bere alla vera Daria, lui chitarrista romano commentato fino a oggi solo su un paio di giornali di quartiere, in coda a un paio di scriteriati Tribute-to-Jimi-Hendrix a Forte Prenestino Occupato.
Daria stravede per Robin Forge e non avrebbe investigato più di tanto sulla storia preparata da Lupus, si sarebbe limitata a poche domande e blandi sorrisi di scuderia culturale.
Invece.
Lupus osserva il laghetto d’arancio che si allarga intorno al bicchiere di Giada. Non c’è più tempo per riscrivere la parte, solo per farsi venire un ispessimento da bugiardo impreparato nel tono della voce.
– Sì, ho conosciuto Robin Forge a un Clinic estivo di tecnica blues. Ci siamo trovati subito in sintonia stilistica, abbiamo suonato due giorni insieme e alla fine abbiamo scritto una canzone a quattro mani che è finita nell’ultimo CD. Poi l’ho risentito dieci giorni fa, chiamava dalla California con la gamba ancora in trazione dopo l’incidente. Mi ha pregato di sostituirlo nel concerto di stasera perché si fida ciecamente di me, mi considera fratello gemello di stile. –
E Giada infatti non ci cade. Tossicchia, sposta un sopracciglio, rimette e ritoglie più volte il cappuccio alla penna.
La verità è che il maestro americano l’aveva degnato appena di un’occhiata e di qualche gestucolo di blanda considerazione, l’anno che Lupus s’era presentato al Clinic didattico di Roccella Jonica con i soldi messi su a furia di suonate su palchi periferici a libera sottoscrizione.
Non c’era nessun altro motivo tecnico, tanto meno gemellanza di stili musicali, figuriamoci l’aver composto una canzone insieme, era stato solo il pressapochismo dell’agente che gestiva il tour italiano e che era amico di infanzia del nostro, più una circostanza decisiva: al Clinic di Roccella Lupus era risultato l’unico giovane chitarrista privo di uno stile personale, il più papabile quindi per scimmiottare al risparmio il fraseggio tipico del grande Robin.
Continua l’intervista come in un recinto di animali innervositi che studiano il territorio.
Lupus, sorretto da un sovraccarico di elettricità ansiose, cerca di fare l’unica cosa di cui si intende un po’: mandare avanti gli occhi. Scivola lo sguardo nella scollatura di lei, preme all’altezza dei fianchi, si proietta fisso nel buio tra le gambe.
C’è un irrigidimento al parossismo di Giada con grandi fughe di ombre sulla fronte. Lei bersaglio di immagini sciolte che la premono rivelando il tasso di provincialismo emotivo che le appartiene. Ci sono i groppi di gramigna ai piedi dei muretti, il dialetto che la sorprende tra le labbra e un domani invisibile, dietro l’angolo della circonvallazione dove passa un tram cui correre dietro per annullare il ritardo di vita. Finchè un giorno la città non muta pelle e arriva qualche altra botta di culo immeritata che la accoglie su uno strapuntino del vagone giusto, presso la corte di Daria Monetti.
Perso ormai completamente il filo, a un certo punto di spiazzo lei gli chiede di accennare il motivo della canzone che Lupus avrebbe prestato a Forge.
YOU CUT ME TO THE BONE BABY
YOU CUT ME TO THE BONE
YOU KNOW WHAT MAKES A MAN FEEL ALONE
THE WAY YOU CUT ME TO THE BONE….
Così canta la miglior espressione dolce-assassina di Lupus, tale che a Giada scappa tutto intero e sfacciatamente incauto il risolino dei sedici anni, una cosa nascosta in sé che è rimasta indietro a osservare il giro dei maschi rombanti dalla finestra di casa del Quarticciolo.
Ed è come se il tailleur di forza si strappasse, i click di nervi cortocircuitassero. Come se per un fulmine d’istante che non ce la fa a imprimersi in nessuna memoria Giada prendesse nella sua quella mano sinistra di pericoloso canide freddo, quello sghimbescio di promessa mai mantenuta che è la vera ossatura segreta di Lupus.
*
Il No Way Out Blues Club inspira ed espira la polvere di decenni, polvere e alito di muffa che nessuna ristrutturazione è mai riuscita a eliminare del tutto.
Ovunque si giri Lupus vede rincorrersi controluce microparticelle di polvere. Alle 21 e 15, nell’atrio stretto, c’è già una certa calca affannata che infila mani di traverso verso il banco dei biglietti. E lui non sa ancora da che parte girerà gli assolo, testa completamente vuota, pelli tirate intorno alle unghie, sguardo vacuo senza cornice.
Agli amici del centro sociale non ha detto nulla di questa serata, assenza totale di linea politica, evitamento di scintille ansiose dai fuochi delle solite ipocrisie.
Nemmeno i musicisti di Robin Forge con cui ha provato un paio di volte nelle ultime sere riesce a immaginare cosa aspettarsi da lui. Perciò punteranno sulla chitarra ritmica, lasciando a Lupus non più di tre o quattro pezzi da solista.
Solo, completamente esposto, totalmente incerto dell’esito ma freddo, almeno così gli piace raccontarsi. Uno contro tutti.
Vede un lampo di Giada che attraversa l’entrata di corsa tenendo alto un passi di plastica. Gli lancia un braccio di cenno di cui lei non si accorge. Fa un’altra serie di scatti, braccia e gambe qua e là, senza direzione. Raccoglie solo le occhiate ansiose di Charlie e Steven, basso e batteria lo controllano da vicino.
Un’ora dopo il gruppo imbuca vociando il corridoio che gira dietro il palco. Fanno gesti scaramantici e scatti e schiocchi di high-five e rutti di gergo, poi sbucano di slancio sotto i riflettori facendo svolazzare tutto il fondale di tessuto nero.
Parte il primo fragore d’applauso.
Lupus prende posto sulla graticola del palco stretto, invaso da molte trappole di cavi. Sta già bruciandosi di riflettore la parte di fronte scoperta dal ciuffo, dove sta come un punto di rifrazione assoluto che gli smonta il freddo di dosso.
Per non avvertirlo cerca di sfuggire lo sguardo del pubblico, imbraccia di scatto la Fender e la degna di un’occhiata di schifo. Comincia piano a rispondere di carezzacorda al frullio di piatti cucinatogli abilmente da Steve.
Gli va subito il sudore negli occhi ed è lì, nella contrazione di sale-palpebra che vede sbracciare mani e corpi in fondo al locale.
Mentre la frase armonica della sua Fender si declina sul tema principale della canzone e la sala comincia a rispondere ondeggiando con il corpo, dalla qualità di certi spintoni distanti Lupus intuisce che in sala dev’essersi imbucato Rocco del Prenestino Underground.
Come cazzo avrà fatto a saperlo, pensa di lato Lupus, mentre maltratta una nota pizzicando la corda sbagliata.
Il pubblico reagisce con un fremito d’onda, umori e sudori distonici risaccati fino al palco, fissaggi di spinte ansiose nelle note della Band alle spalle di Lupus.
E Giada visibile tre tavoli più in là, evidenziata da un andamento tutto suo di pieghevolezza interessata, irrigidita dalla mezza stecca ma attentissima, tutta piena di porosità possibili.
Lupus riprende il controllo armonico mercanteggiando un effetto Slap. Si infila abilmente nei cambi di basso-batteria e duetta solista con la chitarra ritmica di Roscoe.
Finisce bene il ritornello cantando:
SEEMS I BEEN SOMETHING TO SOMEBODY
EVERY DAY OF MY LIFE
I’D LIKE TO SEE
WHAT IT FEELS TO BE
NOTHIN TO NOBODY…
Tira molto più su del lecito l’altezza della nota di chiusura, mentre sfiata dentro di sè un pensiero secco su quella testa di cazzo di Rocco che non solo si è fatto largo a furia di spinte fino a mettere il culo in terra a venti centimetri dal palco, ma sta anche sguainando una brutta canna d’erba pasticciata con una tipica provocazione di smorfia messa sul grugno.
Un applauso freddino del pubblico, corretto di poca birra e credito d’attesa, smonta il primo siparietto di tensione.
Lupus schizza via dal palco nell’intreccio dei cavi e sta quasi per schiantare giù l’asta con tutto il Charleston. Scosta il fondale nero e precipita sui due gradini che sfociano nel retropalco. Pensieri sporchi, lucidi gli si associano nella testa come freddissimi blocchi di ghiaccio che spingono la tensione nervosa verso il limite pelle-dita-polpastrelli.
Semplice per Robin, ragazzone quarantenne talentuoso venuto su a pinte di latte vitaminizzato e succo d’arancia calvinista. Facile raccomandarsi di suonare con lo stile pulito, coerente. Robin non è che un mezzo figlio di puttana che si nasconde abilmente dietro la tecnica. Non rischia mai lo stomaco, sterilizza tutto quello che può ma il fegato vero l’ha già perso da qualche anno. Resta vivo in Forge solo il vestito elegante di gigolò fraseggiatore, niente gioco sporco, solo fottuto mestiere. Non trattiene e non scarica mai d’istinto.
Così la crede Lupus, avanti e indietro e due sigarette una dietro l’altra agitando la penombra di polvere del retropalco.
Intanto, dall’odore di Marijuana fatta in casa che gli arriva al naso, si direbbe che Rocco abbia guadagnato l’accesso ai camerini. Se ne sente la voce alterata carica di pretese, parole sconnesse piene di rivendicazioni da imbucato. Pare che debba assolutamente parlare col chitarrista, col chitarrista romano, per la precisione.
Bastardo d’inconcludente emarginato, si mormora Lupus schioccando la lingua secca, prima di andare a nascondersi nel bugigattolo del guardaroba dove c’è una signora che gli ha fatto qualche blanda moina.
*
Venti minuti dopo, quando Lupus rientra sulla scena, la sala galleggia di nuova curiosità alcolizzata. Parecchi spettatori in fondo si sono accomodati per terra con la testa che emerge di poco dalla bancata di fumo radente il suolo.
Mentre sfiora di misura l’entrata solista sul sospeso lento di IF, Lupus vede Giada spostata un paio di tavoli verso il palco e appostata sul suo profilo sinistro.
Lupus seduto scalcia serpenti di cavi fino ad accendere una piccola scintilla in uno dei cross-over che smistano la corrente. E mentre un Groupie dello Staff gli salta come un rospo accigliato tra le gambe per far fuori lo sfogo elettrico, lui si è già connesso col modem d’attenzione crepitante nei microscostamenti della mimica di Giada.
Canta:
THIS I PROMISE
ALL THAT I AM
I’LL SHOW TO YOU…
C’è una pressione tipica di Lupus nella voce e nello spingere di corda, un andamento sporco che cristallizza l’attenzione tesa della sala.
Peccato che IF sia una Ballad da condurre delicatamente tenendola stretta nell’abbraccio di circonferenza armonica, e che Steven da dietro gli assesti sulla schiena un invisibile avvertimento di bacchetta rullante.
AND IF I STUMBLE
WILL YOU MAKE ME FEEL
LIKE A FOOL…
Ma Giada ha preso a muovere il tempo in duetto d’orbita con la sfasatura di Lupus. Ha messo su un sorriso tutto pupilla, lo evidenzia con un trapezio di mani sognanti a chiudere il mento. Lui, blues-ondeggiante di fuliggine molto poco californiana, ne ha una perfetta visione d’insieme.
Adesso lo stile di Forge si può anche fottere, per quel che ne sa lui, e sente addosso la pelle di Giada lento-accapponata in contrappeso al gesticolare impaziente della Band che lo circonda, della sala che muove labbra-sfondo passandosi qualche diceria critica su linee moltiplicate dalla schiuma della birra che scorre.
E così sognando proseguono come fossero soli, Lupus e Giada, governati solo da gesti intorno a un punto di fuga che galleggia tra un manico sporco e una scollatura da sera.
WILL THE DAYS FLY BY
AND WE WATCH OUR LOVE
GROW HIGH…
Scatta improvvisamente in piedi Lupus, segue un impulso anarchico e libera dai serpenti dei cavi, dalla prigione della sedia, tutta la periferia nervosa della propria tensione trattenuta.
Così riprende di cattiveria l’ultimo dei tre giri armonici di IF dando vere schicchere di potenza alle corde. Ma Charlie, Steven e Roscoe non sono pronti e non se l’aspettano, smettono quasi di accompagnarlo e a Charlie viene un‘enorme chiazza rosso-rabbia sul collo storto.
Non sono ora in condizioni di fermarlo, anche se Steve mette un braccio di disperazione fredda tra il distorsore e lo slancio assassino di Lupus.
Ma la manopola gira ugualmente, Giada la segue alzandosi a mezz’aria di sedia e accoglie finalmente nel ventre alcolizzato tutta la dispersione dell’armonia rassicurante di fine giro.
C’è un movimento collettivo di pubblico, come un venire giù di cristalleria di movimenti e qualche birra innervosita si rovescia sui tavolini e va a gocciolare negli interstizi delle calze a rete, impregna jeans saturi di fumo e finisce la corsa su qualche scarpa che non ce l’ha fatta a scostarsi in tempo.
Lupus ha sventrato in spirali centrifughe le battute di fine giro.
WILL THE DAYS FLY BY…
ritorna con altri tre inaspettati giri armonici e sembra non finire mai, come una minaccia di capitombolo, come l’ultima cosa che a Robin Forge potrebbe venire in mente di fare. E Giada si sbilancia davvero, accoglie la variazione caciarona del Lupus e barcolla di pura malinconia amorosa, ci frana letteralmente sopra, finendo di sbucciarsi l’ultimo lembo impostato del personaggio della critica musicale che non sarà mai.
*
Finisce tamburellato sul volante della Panda l’ultimo assolo sporco di Lupus, un’ora dopo la fine del concerto, in un tardi sospeso tra notte e mattina e una mezza tromba d’aria che schiaffeggia la macchina, facendola sbandare pericolosamente sui curvoni appuntiti della tangenziale.
Tutta la tensione accumulata finisce in grida d’accompagnamento, tergicristallo azionato come contrappunto di basso, marce scalate solo per mixare il tutto con l’urlo sfasato del motore.
In mente resiste ancora la faccia paonazza di Steven che gli urla contro insulti che lui non capisce nemmeno, e l’immagine di Charlie che lo placca perché tanto con un coglione autolesionista del genere non ne vale proprio la pena. Poi Jay, il manager di Forge, che lo convoca in camerino per un cazziatone freddissimo, ai limiti del disinteresse.
Robin è già stato avvertito, certo, ma Lupus non ci spende sopra nemmeno una bustina di preoccupazione.
E mettici anche che verso la fine della breve pausa prima del bis, mentre rientrava da solo e in ritardo verso la scaletta per riprendere il palco pieno di sfocati ritorni di frasi, era andato a sbattere in un corpo di donna.
L’aveva afferrata d’istinto ai fianchi, senza nemmeno guardarla, e le aveva cacciato una lingua di cane selvatico in bocca.
Lei stava ferma, né si né no, più che altro sorpresa. A occhi chiusi aveva rovistato in lei fino ad alzarle un lembo di gonna, a scostarle quasi l’elastico degli slip. Poi qualcosa di familiare gli era salito su per le narici. Un odore particolare. Aveva ripreso contatto con la vista in una massa di capelli strapazzati da shampoo di cattiva qualità e aveva capito ciò che già sapeva.
Poi avevano suonato PRISON OF LOVE, unico bis della sera nervosa. Come un automa Lupus aveva suonato in perfetto stile Robin Forge. Il pubblico smobilitante l’aveva quasi perdonato con un paio d’applausi brevi ma abbastanza intensi. La Band l’aveva semplicemente lasciato stare.
E Giada. Giada che lasciava a spintoni il tavolino di prima fila strappandosi una calza, Giada furiosa che lo colpiva da lontano con una freccia avvelenata di sguardo.
Non l’è piaciuta l’ultima leccata di chitarra, o forse tutta la lingua burina che le aveva poco prima cacciato in gola, aveva beffardamente calcolato Lupus.
E mentre dal mangianastri gli salgono al cervello una per una tutte le ottave diminuite con cui lui e Robin giocavano a storpiare Nothin’ but the blues nel clinic di due anni prima, Lupus fa flash-flash con gli abbaglianti per simulare la ritmica del piatto spazzolato, e accende e spegne la ventola così, perché gli è rimasta una mano libera.
Davanti a sé la tangenziale sprofonda verso il suolo di stazione Tiburtina e riemerge in curva piena in faccia alle finestre dei terzi piani, così vicina che quasi si sentono gli ansimi dei poveracci che fanno l’amore. Lupus sta per perdere il controllo del veicolo e qualcosa in lui si aggrappa a un’immagine di Rocco che vola di spintone sui sampietrini infidi, appena fuori dal locale.
La Panda sotto di lui lo perdona per un pelo, lo stesso pelo di spinta che aveva applicato al torace tatuato dell’amico autogestito. Sorpresa nei gesti di ricomposizione di Lupus, urlaccio tradotto in pianto sulla faccia sconvolta di Rocco.
Dal tipo di droga con cui Rocco si sarebbe tirato su il giorno dopo dipendeva la post-fazione del loro rapporto. Amici del Prenestino minacciosi sotto casa o grandi equilibrismi di ragioni placanti.
Ora c’è un problema nel mangianastri, l’Autoreverse si incanta, la cassetta smette di colpo di suonare riciclando su un tic-tic-tic di nastro incastrato. Lupus affronta a 120 l’ora il curvone dell’Aniene mentre tenta di infilare una penna nella buca dello stereo per liberare la testina dall’impiccio.
Subito dopo qualcosa cambia nella coda dell’occhio di destra. Come se un fantasma si avvicinasse molto lentamente. Lupus ci mette un’eternità ad accorgersene, a lasciare andare la penna, a riportare la dannata mano destra, quella che ha fatto a pezzi Robin Forge, sul volante.
A girare lo sguardo verso la sagoma di destra che adesso è pienamente riconoscibile.
A registrare con terrore: guard-rail in avvicinamento.
A sentire il volante leggerissimo, di angolo giro, che ha perso il contatto con l’asfalto.
A udire l’urlo di lamiera divelta separato dalla visione della portiera ancora integra.
A provare lo sbalordimento di giostra impazzita dopo che la carcassa della Panda si è ormai arrestata, sibilante, col motore sconquassato, contro un palo della luce.
A guardare come se non fosse roba sua il montante dell’avantreno che gli si è conficcato profondamente nella coscia e sparge intorno uno zampillo di sangue.
Ora è tutto fermo. Non passa nessuno, nemmeno il dolore, nemmeno il dolore ce la fa, solo il fastidio della pioggia che gli entra copiosa nel collo.
Lupus controlla le mani e le trova integre, difficili da strappare alla presa d’acciaio con cui tiene ancora disperatamente un pezzo di volante.
Anche se ha salvato le dita, Robin Forge non vorrà più avere nulla a che fare con lui, e non solo Forge.
L’ultimo sforzo che fa è quello di sganciare una mano, portarla alla cinta, sfilare tremando il cellulare e spingere il tasto dove giace ancora miracolosamente vergine il numero di telefono di Giada.
Ansimi di dolore ritrovato e il falsetto quasi disperato di Giada che gli dice di non muoversi, di resistere, chiudono la sporca notte sotto il temporale.
The End
ho iniziato a leggere il tuo racconto e… ho tanta tanta voglia di andare avanti, di terminarlo.
come sai coinvolgere, Alex!
a presto!
Gelsy
tutto bene?
quando vai in vacanza?
sorrisorrisorriso
ciao Gelsy
ah, il *mangianastri* in sala prove, che tuffo al quore…
: )
ben scritti e avvolgenti e 4/5 iniziali del brano, davvero letti d’un fiato. la musica s’inceppa solo nel finale, assieme al tic tic tic del nastro incastrato per via della A-A-A anafora che m’ha suonato un po’ enfatica e romanzata, insomma una sorta di “artifizio enfatico di mestiere” chiamato in soccorso a chiudere il racconto incidente, cosa che, a nanomodo di sentire, la fabula bella e verace di Lupus (et agnus) non meritava…
dimenticavo, non ho copiancollato “l’occhio refusi”. (la ripetizione “incontrollata”/”controllato” natiche/accento era voluta? un pochino m’ha stonato; occhio, refuso: “i musicisti di Forge” è plurale ma il verbo “riesce” è singolare)