“Tutte le cose sono un’oggettivazione della mente,
direi quindi che questa pietra, proprio ora,
si trova all’interno della mia testa”
detto ZEN
Dieci anni senza TT
Senzaterra come me siamo un fiume che scavalca l’argine, scendiamo le scale mobili fuori servizio facendo attenzione a dove mettiamo i passi, cerchiamo di evitare i linoleum divelti, le pozzanghere che sono in luce e quelle che non si riescono a vedere fuori dal gomito di un corridoio stretto. Ce ne andiamo in lunghe file sgomitanti quando le ore sono di punta, procediamo soli e un po’ storti per il resto del tempo ma teniamo lo sguardo dritto. Facciamo fatica a mettere a fuoco eppure siamo attenti, saltiamo i cancelli di ferro dove è possibile, spendiamo le ultime monete della settimana, quando è necessario.
Ci perdiamo in metropolitana, non capiamo ancora bene da dove piombino tutti i vagoni che sfrecciano come pellicole ululanti su sei piste di binari paralleli, ascoltiamo i treni proseguire verso Bronx e Queens tra grandi schiaffi d’aria compressa, poche volte ci sembra di essere noi stessi a fermarne altri ma poi siamo indecisi se prenderli o meno. Alcuni di noi frenano la giornata qui, rannicchiandosi semplicemente contro un muro sporco al riparo dalla pioggia. Quelli che hanno un posto dove andare, del resto, non sono certi di riuscire a raggiungerlo.
Qualche volta carezziamo coltelli invisibili, fumiamo e parliamo da soli e spruzziamo una vernice densa sui muri, siamo una razza globale tenuta insieme dall’oscurità, una massa critica provvisoria che non concepisce se stessa, che si impenna come una colonna di fumo a fine corsa e poi sparisce risucchiata dal gorgo della città.
E’ strano come tutto ci passa, a cominciare dal tempo, il giorno che abbiamo un sogno e un biglietto preciso finisce che ci facciamo affascinare dai topi, quei bei topi grassi e torpidi come casalinghe emigrate dal Vermont, ratti dall’espressione compiaciuta, quasi rilassata, pantegane che dirigono abilmente i traffici delle cose marcite sottoterra. Quando siamo così troviamo sempre un posto a sedere prima che riparta il treno, ci mettiamo a ondeggiare quel ritmo estraniante di marionette provvisorie, lasciamo che la sonnolenza ci divori lentamente per avere in cambio una pace provvisoria.
Guarda la giovane bengalese scura con il vestito verde che con un minuscolo pugno sorregge il torpore di un viso delicato, sporco di giorni faticosi. Veniamo da est tutti e due, o forse siamo giunti da ovest, se consideri che la palla del mondo ha in alternativa due sole prospettive. Io, con la pelle bianca sbagliata e lei, sottile come un’ombra. Qualcosa ci ha abituati a far passare il tempo senza eccessiva pena, comunque, ed è forse l’unica vera ricchezza del mondo che ci compete.
Una volta un indiano nativo mi parlò a lungo di un sistema sicuro per introdursi nei pensieri e nell’anima di un’altra persona. E’ sufficiente sgombrare bene la mente, concentrarsi, assumere gli stessi gesti, allinearsi lungo lo stesso ritmo di respiro.
Fai fatica a credere che esista una chiave di comunicazione così precisa, una specie di specchio silenzioso poggiato sulla soglia di coscienze che si sfiorano in una lontananza prossima. Questo succede senza che nessuno lo voglia, in effetti, mentre torniamo a casa di sera.
Avanti con la sottigliezza di un’ombra
Non ti sembra vero adesso, pensare che quei pochi biglietti da cento dollari sono stati la ragione ultima di tutto quel tempo che abbiamo passato a scavare dentro il fango.
La scatola che tenevamo per terra sotto il lavello se n’è andata per prima. L’abbiamo rincorsa con l’acqua alle ginocchia mentre i nostri quattro mobili ci venivano addosso spinti dall’onda fangosa, Samir ha fatto un salto oltre l’armadio che beccheggiava in mezzo al piccolo soggiorno e noi che non ce la facevamo siamo rimasti indietro. Siamo usciti dalla finestra con l’acqua che ci arrivava alla faccia e in qualche modo siamo riusciti a salire sul tetto, la scatola ci è passata davanti volteggiando, a un’inezia di distanza, l’abbiamo lasciata andare senza poter fare un gesto. Samir l’abbiamo visto che lottava con un tronco cento metri più avanti, è stato un attimo, e anche l’ultimo che ho avuto un’immagine viva di lui.
Quando tutto si è calmato la terra aveva un aspetto differente. Il fango aveva rimodellato il nostro spiazzo in un arco di collinette viscide da cui spuntavano le macerie di tutto. Abbiamo cominciato subito a scavare con le mani e con i pezzi di lamiera divelta, cercando di anticipare la piena successiva che sarebbe puntualmente arrivata senza avvertirci.
La scatola poteva essere ovunque, i dollari sarebbero marciti velocemente lì dentro se il coperchio avesse tenuto, altrimenti sarebbe stato tutto inutile comunque. Abbiamo tirato fuori i cadaveri dei nostri animali, gli oggetti della cucina, metà dei piccoli vestiti di Sanjai, una quantità di oggetti inutili che non ci appartenevano, depositati in questa piccola conca dalla furia della piena. Settimane che sono un unico tempo quasi immobile con l’acqua e il fango e gli avvoltoi che ci sguazzavano intorno, fino a un giorno in cui il cielo s’è schiarito ed è arrivata una luce calda, umida e pesante, a farci avvampare di stanchezza improvvisa.
La scatola si è fatta trovare schiacciata sotto un televisore sfondato che faceva da tana ai topi, ho strappato quasi tutti i dollari mentre li estraevo con rabbia dalla massa di metallo malamente accartocciata su se stessa. E’ passata un’altra settimana, forse, in cui stringendoci la fame e pezzi di dollari al petto ci siamo addormentati per gran parte del tempo mentre i brandelli si asciugavano senza fretta. Li abbiamo ricomposti con le piccole mani sbiancate dall’umido di Sanjai, ci siamo raccolti per ricordare Samir, il corpo ci tremava benchè facesse un caldo ottuso.
Ho capito subito che Samir si sarebbe tenuto lontano dalle nostre invocazioni, i dollari volavano come abbaglianti falchi d’argento davanti ai nostri occhi chiusi, non c’era più niente da fare e mi sembrava di non riuscire a ricordare più nemmeno una preghiera.
I dollari della nostra vecchiaia li abbiamo bruciati subito nel motore di un aereo, io con una lettera in tasca e Sanjai addormentato sul mio petto, in viaggio verso l’indirizzo di uno scantinato nella parte interna di Brooklyn, una zona di locali abbandonati, quella incolta più lontana dal fiume dove nemmeno il profilo degli edifici, sbilenco e amorfo, t’aiuta a sentirti in America. Non t’aiuta a non sentirti solo, non t’aiuta a sentirti in nessun posto, per la verità.
Ti guardi in giro e vedi solo un passeggio furtivo, appiattito contro i muri, di gente che non si capisce affatto da che mondo venga. Sei solo certa che non siano nati qui e anche se lo fossero non potrebbe che trattarsi di uno sbaglio, e tu non sai bene se allarmarti o rincuorarti, vai avanti con la sottigliezza di un’ombra, con un minimo di esistenza accesa senza darti troppo conto quando ti viene in mente che un giorno incontrerai un giusto americano che prenderà in mano la tua vita invisibile, uno che saprebbe amare Sanjai come se fosse suo, se ce la farai a sopravvivere e se ti toccherà un’inaudita fortuna, ecco il punto.
Uno come quel bianco largo di spalle con i capelli folti rasati a pochi millimetri di altezza che tiene stretta una costosa borsa di pelle sulle ginocchia, sta fermo in punta di sedile vicino alla porta di comunicazione tra i vagoni. Stupido uomo bianco. Uno come quello non lo vedi mai quaggiù. Se non avessi già dato fondo al piatto misero di tutta la speranza potresti ricordare che ti rimane in fondo una grazia naturale cui poterti appellare se ti venisse in mente per caso di affascinarlo, una grazia che tuttavia non ti serve a niente. La prossima distanza che vi lega è del tutto invalicabile, e lui è capitato quaggiù per sbaglio, puoi solo osservarlo attentamente, quant’è nervoso che quasi non riesce a dominarsi.
Diceva il rishi che si può entrare nell’anima di una persona, portarne via quello che vuoi, se la fissi abbastanza a lungo, se ti abbandoni fino ad assumerne la stessa posizione con il corpo. Questo piccolo sogno, del resto, non c’è nessuno che può impedirti di farlo.
L’unico vero cannone che ci rimane da spendere
Hanno bloccato tutta la zona, in lungo per almeno dieci isolati, in largo tra la quarta e la sesta avenue, mi sembra. Ho capito all’improvviso quello che stava succedendo perchè mi bruciavano gli occhi per lo sforzo d’attenzione, verso la fine della relazione Stanton sugli effetti incerti dell’ultimo reinstradamento dei flussi monetari asiatici, a pagina 92. Ho alzato lo sguardo e ho visto il fumo e i lampeggianti e la polizia schierata a cordone sull’imbocco della piazza in fondo alla prospettiva della mia finestra a giorno insonorizzata. Sono scattato in piedi e ho infilato il soprabito, ho preso tutte le carte, la borsa e il cartoccio unto e freddo del pollo al curry in cui stavo solamente rovistando, sono uscito in corridoio dirigendomi verso la macchina del caffè, ci ho ripensato. E’ probabile che stiano per chiudere anche l’accesso alla sotterranea, devo uscire di corsa sperando di prendere un treno comunque, se non voglio rischiare di rimanere bloccato fino a dio solo sa quando.
Lorna non lo sopporterebbe, proprio stasera, sono settimane ormai che rientro solo a notte fatta, con i bambini che già dormono e lei che risorge dall’apatia dell’idromassggio e si infila la camicia da notte mentre mi vede avvicinarmi senza dire niente. Fa un sospiro e si versa l’ultimo bicchiere che manda giù gorgogliando in tutta fretta, poi ci sistemiamo nel letto animati da qualche frase appena, dai suoi sospiri e dai miei grugniti. Più spesso un silenzio ci coglie impreparati, ci fa fissare il soffitto per un po’ e ci spinge ognuno contro una parte diversa di muro, verso un sonno incerto che sembriamo quasi non meritare.
In quei momenti succede che io mi trovi a combattere con il pensiero che in fondo non sarebbe una catastrofe abbandonare Lorna a se stessa, lasciare che si chiuda ermeticamente nel collo della sua personale bottiglia, ho carte di credito a sufficienza per mantenere almeno cinque famiglie, ognuna col suo attico panoramico da cui succhiare la prospettiva allettante della mela, ognuna con i marmocchi e i cani e le commissioni da affidare a una brava coppia di portoricani, ognuna con la sua bella cristalliera in stile da cui estrarre i calici da tirare contro un muro di mattina presto e mezz’ora di doccia programmabile all’ora di pranzo più qualche seminario alternativo per ricomporsi alla meglio nel pomeriggio.
L’entrata della sotterranea è sporca e scivolosa di pioggia, mentre imbocco la scala quasi correndo penso che il rapporto Stanton, in definitiva, può riusicre a tagliare le gambe a tutti noi, su al 24° piano della torre Baldwin.
Sarà forse la terza volta che scendo in metropolitana da che sono qui, e non è tanto la puzza e lo squallore, è che a guardarsi intorno sembra come se avessi tagliato a piedi verso la Sesta per la strada sbagliata, una di quelle in cui passi senza guardar di lato davanti ai sexy shop e ai cumuli d’immondizia e alle scale d’emergenza arrugginite e poi agli homeless che scivolano fuori dai cartoni bagnati come topi torpidi, una di quelle che non sai se arrivi vivo alla fine, una misura di anni luce che copre poche centinaia di metri di distanza appena dall’operoso motore di civiltà che fa fremere la Sesta.
Ho rovesciato quello che rimaneva del pollo al curry in un cestino mezzo divelto, ho visto con la coda dell’occhio due figure nere separarsi dal linoleum scuro del pavimento e strisciare velocemente per andarsene a contendere i resti.
Non ho mai avuto bisogno di tenere due portafogli e due orologi addosso, uno solo con pochi dollari e le carte di credito scadute, come fanno quelli che si muovono regolarmente a piedi e con i trasporti pubblici. Manovrando abilmente le cifre, giocando solo con i simboli, puoi riuscire a cambiare l’economia di un’intera regione di mondo, non è difficile. Qua sotto devi essere pronto a estrarre le banconote vere, e potrebbe non bastarti nemmeno per riportare la pelle che hai nel sicuro di una casa.
Sul marciapiede della linea per Queen’s sembra di muoversi in un film di fantascienza popolato di mutanti che camminano storti.
Mentre trattengo il fiato per non respirare l’odore di marcio che l’arrivo del treno mi spinge addosso, mi appare un altro lato decisivo del rapporto Stanton. Qualcosa è cambiato radicalmente nel muoversi dei maledetti ingranaggi, come se qualcuno si diverta a versarci lentamente la sabbia sopra. Non più tardi di quattro anni fa, in estremo oriente, riuscivi ancora portarti via il sottosuolo gonfio di gas naturale per un piatto di lenticchie. L’unica seccatura poteva riguardare i danni ambientali che provocavi per un certo numero di anni, se qualcuno se ne accorgeva, ma tu comunque non comparivi mai, i morti non li vedevi, prestavi solo la faccia anonima al riflesso delle cifre e delle icone del monitor, nessuno era in grado di venirti a prendere.
La guerra non è mai stata un buon sistema, questa è stata la posizione che abbiamo difeso sempre ai tavoli di strategia, starsene nell’ombra a giocare il saliscendi delle borse è più divertente e ti consente spazi di manovra di gran lunga più vasti. E il rapporto Stanton proprio oggi lo conferma in maniera incontrovertibile, flussi monetari che sono costretti a instradarsi in un solo canale, quello delle armi, il più difficile da gestire, il più duro da digerire perchè fa capo a una sola lobby e questa lobby è già al potere. Gli altri, la ricostruzione e lo sfruttamento delle risorse, sono ormai vicoli obsoleti perchè stabilmente disturbati dalle guerriglie locali e globali di stampo mussulmano.
Domani si riunisce il consiglio di stato, sembra incredibile ma io proprio questa notte devo decidere se rassegnarmi e accettare il profilo basso e fare fuori il rapporto dal mazzo di carte che caleranno pesantemente sul tavolo, oppure scendere in trincea con il solo supporto del 24° piano della torre Baldwin, e innalzare Stanton come un cannone potente, l’unico vero cannone che ci rimane da spendere.
Devo decidere, decidere ora, il mio porco futuro.
Mentre il treno riparte sibilando nell’oscurità vedo un signore in fondo al vagone, un bianco un po’ gonfio e stropicciato, ma con i vestiti bianchi puliti e uno sguardo brillante, uno di cui non si capisce bene da dove venga. Ricordo Lorna che mi parla di un seminario di comunicazione avanzata tenuto da un californiano, pare che rispecchiare perfettamente la postura di una persona fin nel più piccolo dettaglio di angolatura delle braccia e delle gambe possa provocare un travaso di pensieri da un soggetto all’altro.
In effetti non ci credo molto, ma trovo stupido non farlo, non costa niente, non so proprio come far passare il tempo così murato qua sotto.
Al ritmo del più incongruo arrangiamento di Jingle Bells **
Finchè non cadi affamato e bisognoso nelle strade e nei ristoranti all’ora di punta, finchè non sei sul posto con una malattia urgente che ti scalda le ossa, a guardare da una finestra a giorno il passeggio furioso che anima i marciapiedi in penombra delle streets o le lunghe prospettive saliscendi delle avenues. Fino ad allora non riesci a concepire come la magia della mela possa essere qualcosa di paragonabile alla porta girevole di uno sfavillante Waldorf Astoria, così sottoposta a una dinamica di giostra che prima o poi ti deposita sul lato opposto della fiera, in un frame iperreale dove il traffico umano non appare altro che una provvisoria accozzaglia di disperati caricati a molla, ognuno in viaggio dietro al suo sogno di triste ricchezza o misera felicità.
Amo Manhattan soprattutto all’alba, in quella mezz’ora incerta di luce sfumata dove se sei sufficientemente attento e sgombro di pensieri puoi avvertire chiaramente come i contrasti non sono altro che snodi differenti dello stesso ingranaggio complesso e la comprensione del tutto ti si mostra perfettamente nuda, con l’innocenza disarmante che compete a un bambino. Da quella finestra sulla soglia del giorno, se hai cuore e immaginazione, puoi vedere addensarsi nella stessa scena quel particolare fuoco di umane falene che ricarica in continuazione la gigantesca pila di Manhattan, la centrale dinamica che trascina avanti e indietro e fuori strada i destini di ogni angolo di mondo.
Puoi trovare la giovane bengalese dall’aria stanca, sottile come una preghiera a fior di labbra, che svuota i bidoni dell’immondizia di un qualche misero take-away. Puoi accorgerti di quel bianco ricco con la borsa di pelle e la cravatta rigida che la sfiora leggermente, uno che non è stato eletto da alcun popolo, che sfugge al giudizio di qualsiasi tribunale. Puoi seguire per un pezzo la sua camminata di marcia verso un tavolo di lavoro in cui ordinerà un movimento di capitali di tale entità che farà piangere decine di milioni di persone affacciate a stento alla finestra del mondo.
E se a un certo punto del tempo smetti di guardare la scena e scendi per strada come tutti in cerca della tua personale forma di salvezza quotidiana, ti può capitare che sia sotto natale e che tu non riesca a sopportare quella terribile musichetta che ti insegue ovunque, così che sei costretto a uscire subito dalle gallerie commerciali in cui ti sei incautamente spinto, dalle librerie, dalle caffetterie, dai musei, persino da certe strade sotto casa che attraversi di corsa sotto il bombardamento delle luci stroboscopiche al ritmo del più incongruo arrangiamento di Jingle Bells.
Fino a un angolo di strada in cui ti decidi a fermare il primo che ti capita, un bel tipo giovane, un po’ male in arnese, slavo, o forse ebreo russo, cui chiedi con una certa preoccupazione dove si trovi la più vicina fermata della sotterranea. Lui ti indica di seguirlo, dritto attraverso la gente che sbraccia e le scale che scendono bruscamente fino al marciapiede della linea per Central Park, mentre ti parla un po’ enfaticamente in una lingua madre spezzata che non riesci a capire fino in fondo.
Sei venuto a Manhattan perchè il tuo corpo produce una certa quantità di cellule impazzite, non più impazzite comunque di tutto il rovinoso fumo umano che si leva sopra la fragorosa tavola della mensa a occidente, non sono più impazzite di Jingle Bells. Sono gli ultimi giorni che passi qui, il tuo corpo è diventato poroso come una spugna delicata, il tuo sogno sta facendo rotta altrove, stai per congedarti senza rimpianti dal grande consiglio degli aggiustatori bianchi.
Il treno entra in stazione con una frenata lunga, tormentosa. Lui sale dietro di te e ti saluta con un mezzo inchino. Spassiba, gli rispondi. Lui fa un sorriso che è un’illuminazione e ribatte: Pagialsta! Poi se ne va a sedersi in fondo al vagone, vicino a una giovane bengalese dalla pelle scura che sonnecchia. Tu afferri un corrimano per bilanciare l’accelerazione che ti coglie impreparato, ti aggiusti un attimo il vestito bianco e te ne vai dalla parte opposta con molte immagini appuntite che barcollano nella testa.
Pensi ancora un po’ alla memoria dei rimedi che si perde. La natura deve esserne cosciente, la malattia è solo una questione di prospettiva, la si può affrontare introducendo nel bilancio una piccola malattia consapevole.
Il simile risveglia la salvezza che è già in te, basta avvicinarsi, fare silenzio e osservare.
E anche questo, in fondo, è solo un altro giro di giostra.
** Liberamente ispirato a Tiziano Terzani, in: “Un altro giro di giostra” – Ed. Longanesi.
o madonna ale … è da rileggere ancora due, tre, quattro volte e ancora, allo sfinimento. che bravo che sei ale. davvero.
un piacere sentirti, è solo un vecchio omaggio a un Maestro di vita che manca tanto.
si, e hai fatto un gran bel lavoro. ti sorriderebbe per questo…
ti giuro, vorrei lasciarti uno di quei miei commenti che entrano nella scrittura, rischiando pure di farti incazzare, ma la risonanza che mi batte dentro è più forte di qualsiasi lettura analitica. ogni volta penso che non puoi scrivere meglio di così e la volta successiva tu mi smentisci andando un po’ oltre.
se sei pronta, se i tuoi organi sono allineati come i pianeti che ti governano, ci puoi trovare tutta la miseria, lo splendore e la pena dell’esistenza. avere dei buoni Maestri non serve a nulla se non sei ricettivo, se non hai già imparato che le parole non sono altro che pietre di un guado, se non stai già dall’altra parte a trasformare.
così capita che ti venga fuori un pezzo rabdomante, che sa le sorgenti.
o forse sarà solo che detesto le atmosfere natalizie.
ci sono tante mani che scrivono in una, mi sa che su questo ogni tanto facciamo escalation, e il fatto che non ho mai avuto voglia di ordinarle nè di farne un lavoro organico, una croce e una delizia necessarie agli Aeroplanini, che restano, se restano, per essere ancora un laboratorio di falegnameria che produce miniature di viaggi.
Non ho parole.
Vedo quel sorriso particolare di Terzani che ti sta leggendo.
Gelsy
brrr… introdursi nei pensieri e nell’anima di un’altra persona… non fa un po’ schifo? tipo palpare a mani nude le viscere ancora calde del vicino di casa a mo’ d’aruspice o rimestare (a mani nude) tra le feci stitiche della sora Cesira del primo piano…
: )))
chissà se davvero si può e se ne vale la pena, con buona pace dell’indiano nativo che evidentemente ha studiato i primati (intesi come ordine di mammiferi placentati) e i neuroni a specchio.
tutto questo per dire che non c’è salvezza da risvegliare poiché il sonno della ragione genera mostri, ma solo i mostri possono additare (mostrare?) una qualche via di salvezza. curioso impasse, no?
: )
epperò, miei deliri a parte, anche questo tourbillon di pensieri che a tuo dire abiterebbero le teste di umonini-bambini sulla giostra, è un gioiellino di scrittura vagamente “donosiana” (Josè Donoso, hai presente? “l’uccello osceno della notte”, “il posto che non ha confini”, uno dei miei scrittori preferiti di sempre) con la sua ridefinizione multicentrica e polifonica dell’io narrante.
sto delirando di nuovo, eh? vabbè. sarà che la gente “non si capisce affatto da che mondo viene” perché il *mondo* non esiste. esiste lo sporco, il fango modellato in collinette viscide da cui spuntano le macerie di tutto, anche a Brooklyn. così quel minimo di esistenza accesa proietta un’ombra sottile, appiattita contro i muri, bidimensionale quanto le pagine del rapporto Stanton, che forse non esiste, fino a prova contraria (notare il doppio senso).
insomma, compliments anche qui, ma non ti abituare, che magari al prossimo giro leggerò dell’altro che m’aggrada meno e allora in massima sincerità sparerò le mie cazzate argomentando in senso opposto.