Quando nulla dell’intorno ti avvince non c’è nulla di più ecologico che mettersi a camminare senza uno scopo, prendere una strada e sparire nella necessità ritmica del corpo che ondeggia. Nemmeno la visione è strettamente necessaria all’officio, salvo che per controllare l’asprezza relativa dei marciapiedi, il transito inverso dei pedoni che salgono, l’obiettivo è ristabilire la necessaria tensione tra la pienezza del corpo, il vuoto della mente, il racconto dettagliato dell’ambiente che tanto d’invisibile semina nell’esperienza intima di ognuno.
Camminare è l’antica arte di ogni tempo, fondata tra il desiderio e il timore come penetrazione di buio sconosciuto fuori da un riparo. Camminare è la nave scarna su cui l’essenzialità del corpo si misura, andare nel vento teso dei passi lasciando che il pensiero focalizzato si stacchi da noi parola per parola, andare per nessun altro scopo che raggiungere uno stato di coscienza in cui le cose intime e quelle di superficie, scosse dal ritmo di un movimento secco, basilare, si mescolino bene e comincino a parlare lingue sconosciute.
“Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto.” (Robert Walser, La Passeggiata)
Ecco, da quando trent’anni fa mi capitò sotto mano non ho mai smesso di amare il canone cinetico-immaginativo del grande poeta svizzero la cui lunga passeggiata terminò in un sanatorio per alienati. Autore notevole, lo battezzò la mia cifra arrogante, inconcluso ma dotato di grande pennello unico, trasfigurante. La follia del resto è un’ambigua porta girevole sulla soglia dei mondi, è una grande fortuna dopotutto riuscire a imboccare l’uscita dalle immagini e dai suoni e dalle sensazioni della vita cosciente potendo ancora dominare un significato socializzabile.
Di là dorme una grande bestia affamata, i monologhi passeggiati di Walser, in questa luce, risplendono come piccoli esercizi di luce divina di fronte a una natura caotica che tende a schiacciarci. Poche determinanti assillano la specie moderna, una di queste è l’insensato originario da cui veniamo e che abbiamo avuto buona cura di trasferire nella realizzazione dei nostri ambienti urbani e sociali.
Tra la maniacalità dei prati svizzeri di walseriana memoria e le strade malmesse del Prenestino passa un unico filo di ricostruzione immaginale del disastro ontologico. Il monologo dei palazzi e delle tangenziali che presidiano il cielo, i mercati e le erbacce e gli odori di urina, i graffiti scarabocchiati e gli strani sogni negli occhi della gente, c’è una vita scura che ci incrocia tutti e di cui dobbiamo farci una ragione salda, tanto dura da permetterci di trasfigurarla, ovvero di ricrearla naturalmente senza fini di lucro, con l’aiuto dei sogni e del corpo, creando linguaggi, camminando.
“la visione necessaria all’officio” te l’ha suggerita il Boccaccio in una deambulata spiritica?
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eniuei il canone cinetico m’intriga, anche se il monologo passeggiato che preferisco per oliare gli ingranaggi del pensierno non è metropolitano, ma dolomitico…
sposo e quoto la chiusa (eh, chissà perché), “ricrearla naturalmente senza fini di lucro, con l’aiuto dei sogni e del corpo, creando linguaggi, camminando”
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