La Paz dell’Angelo

Arnold_Böcklin_006

Siamo arrivati in città con la sensazione precisa di esser finiti fuori strada. Tutto il percorso difficile che ci ha accompagnati, il respiro corto che le altitudini andine ci hanno imposto, i panorami mozzafiato come tagli definitivi della natura e noi, quel poco che ne rimane, il pensiero di come fare a tenerlo in vita nei limiti dell’umana decenza.

Si fa fatica a concepire La Paz così aggrappata oltre il bordo del cratere, a pensare come precipita il suo milione di abitanti nel vasto imbuto dantesco che appare, e tutto il colpo d’occhio dei ghiacciai che la incoronano sull’orizzonte lontano, come fosse teatro di un Grande Giudizio permanente.

Nel centro basso, tra il clamore turistico di questi larghi viali, Angela e io ci diciamo stufi di veder pendere i mazzi di feti di lama secchi nei mercatini abborracciati che occupano gli angoli dei palazzi ammodernati. Le paccottiglie di amuleti morti, le vecchie andine da banco con la bombetta tradizionale calcata, i flussi torpidi di turisti che si contendono il sinistro riflesso sulle grandi vetrate delle banche, tutto l’insensato collettivo che ci ingoia senza chiedere permesso.

Stiamo risalendo velocemente i ripidi viali e le stradine complicate che sfociano al barrio di El Alto. Al taxi abbiamo ordinato di portarci al mercato delle streghe frequentato dalla gente locale. Andiamo su speranzosi, a curarci quel po’ di malanimo e di sorte che ci sono capitati sulle spalle. Siamo i palpiti di me e Angela, nei giorni finali di un viaggio che è come se ci fosse esploso tra i passi improvvisamente, senza fare troppo rumore. Ora cerchiamo un equilibrio, che possa farci stare in piedi su quel po’ di strada che rimane.

Così scendiamo, tutta la trasparenza allarmata dei nostri occhi, la fretta di arrivare, l’attrezzatura fotografica un po’ chiassosa, i pensieri che ci tallonano, tutto viene fuori dal taxi ai limiti di un lungo spiazzo sterrato sul bordo del grande cratere, a fine corsa.

Ai lati si ammassano due file disordinate di baracche in lamiera e cartone, colori e ruggini e font pubblicitari, disegni di minestre e detersivi per pavimenti e merendine, montati a sbalzo ovunque.

Guardo Angela e la trovo stanca, vittima di quel sorriso privo d’occhi che l’accompagna al mondo. Provo a scherzare:

Sono Pronto. Dobbiamo farci coraggio?

Stupido.

E’ una specie di bacio che mi dà, come fosse una prima volta tra noi.

E’ meglio che cerchiamo un ragazzo prima, uno del posto che ci

possa aiutare.

Ha ancora quel po’ d’aria responsabile di chi è abituato a condurre gruppi. Non ha ben capito, forse, che siamo rimasti soli io e lei. Ed è colpa sua, dopotutto, è stata una sua stanchezza che ha mandato il disegno in malora.

E’ meglio che andiamo subito, invece, respiriamo un po’ l’aria, prendiamo qualche immagine, senza starci tutto il pomeriggio.

Mi spingo avanti.

Cerco di dare una naturale scioltezza ai miei passi ma non mi sembra facile, così esposto davanti agli antri delle streghe e non un’anima di riferimento in giro.

Non siamo nemmeno una coppia, io e lei, ci siamo trovati per puro caso, in vacanza. Lei conduceva il gruppo con taglio sbrigativo ed esperto, ci siamo avvicinati naturalmente. Aveva un nervoso di gesti residui, una pupilla larga e umori divergenti, come si tenesse distante da un piccolo baratro interno.

Ho spiato quel vuoto con vaga lussuria, tra le righe dei suoi modi, fin dal primo dei giorni. Ho già rifatto con attenzione tutti i conti possibili su Angela, e ogni volta ho prodotto cifre differenti.

La guardo ora, occhi vaghi strizzati nel taglio di luce fendente del pomeriggio, come se ne va che sembra divisa in due, a zig zag sulla direttrice centrale della piazza, guardandosi le Adidas lucidate, ogni tanto, perfettamente all’erta di me ma facendo in modo di non darla a intendere.

La mia reflex comincia a scattare, prende un cane rognoso che si gratta, uno sgabello in una pozzanghera, un controluce su una lamiera ondulata dipinta di rosso porpora.

Mi allontano ancora un po’ per muovere le gambe. C’è una tensione nell’aria che non riesce a scaricarsi.

Dall’altro lato dello spiazzo Angela si è fermata davanti alla porta di una curandera che le ha preso una mano con poca grazia.

Lei si mette un’unghia dell’altra mano fra i denti, si fa fare.

E’ intuibile che la strega le stia prospettando una forma di sciagura, i modi che mostra sono falsi ed esagerati, senza alcuna mediazione.

Scorro gli interminabili richiami agli armamenti divinatori, ai rimedi, ai disturbi vinti, alle psoriasi e alla lebbra, allo spirito e alla saggezza dei demoni e scatto, controllo, eseguo una serie veloce.

Intanto un ragazzino cencioso è sbucato fuori, ha alzato la voce e mandato un richiamo nella mia direzione. Mi volto e senza correre m’allontano, inseguito da quelle che sembrano invettive.

Prendo Angela per un braccio, la strappo dalle cure della bruja e ce ne torniamo in silenzio senza alzare uno sguardo verso la fila di bar cadenti, vicino a dove mezz’ora prima eravamo smontati dal taxi.

Tutto bene? Cos’erano quegli strani cenni larghi delle mani? Di che parlava?

Questo le chiedo, dal fondo di un tono un po’ incrinato.

Niente, non è niente di che..

Mi risponde lei, senza sospendere né formulare un punto, guardandosi le Adidas ancora un po’.

E’ buia la faccia che mi rivolge, adesso.

In un altra corsa di taxi scendiamo i gironi interni del cratere veloci come una pattuglia che interviene sul luogo di un incidente. I boliviani sono persone sfuggenti, animati da un nerbo che pare fretta, noncuranza.

Oltre il finestrino la gente procede dritta a piedi senza distinguere tra salita e discesa. Il taxi prende le curve senza rallentare, oscillo sul sedile e vado addosso ad Angela che sta aggrappata al poggiatesta difronte.

Non ho voglia di sostenermi. Non avrei nemmeno voglia di confrontarmi con questa imprevedibile sensibilità che pare intervenuta a confondere lei, a irrigidire me.

Al momento in cui la situazione le era sfuggita di mano, la curva acuta, inconsolabile, che le piegava la voce mi aveva impressionato. Il suo equilibrio di navigatrice esperta s’era rotto senza preavviso, come un qualsiasi giocattolo cinese.

Angelo, le dicevo per scherzo, i primi giorni di viaggio. Lei muoveva le forme del corpo spargendo uno strano codice di desiderio intorno a sé. La sua occhiata azzurra teneva all’erta una fiamma in una parte minore di me dove sentivo che non era caso allontanarsi. Il suo aspetto vagamente mascolino contribuiva a disinnescarmi, e anche lei a un primo sguardo, pareva tenermi distante nelle interazioni col gruppo.

Gli altri nel frattempo avevano raggiunto un punto di rottura. Il tratto provocatorio di Angela aveva scoperto il nudo inconfessabile di tutti. Lei era tornata a cercarmi, dopo che lo psicodramma collettivo aveva ristabilito i fatti, liberato i ruoli e la presenza di ognuno dagli impegni reciproci stabiliti.

M’aveva chiesto senza preamboli se m’andasse di passare gli ultimi quattro giorni in giro soli, noi due. Il bisogno che le scappava dalla voce m’era parso strano e vagamente losco.

Avevo buttato avanti un si, non sapendo cos’altro pensare di me e del mio nuovo percorso, così un’ombra si era messa a tagliarmi dentro.

Ho fatto una pensata.

Questo dice lei, passandosi le dita tra i capelli, mentre il taxi entra nel circondario dell’albergo dove tra poco forse dovremo condividere le inevitabili nudità e la vicinanza in un letto.

Chiamo il corrispondente e ci facciamo mandare una macchina. Se ci alterniamo alla guida siamo a Puno in una volata e riusciamo a dormire una notte o due ancora sulle isole degli Uros.

La macchina frena, Angela apre lo sportello e salta fuori come dovesse allontanarsi da un fuoco che divampa.

Pago la corsa e la raggiungo sotto la tettoia dell’ingresso. Ci ripariamo dalla pioggia che ha cominciato a battere rumorosamente e non facciamo nulla, non entriamo e non parliamo.

Non mi piace il segno autoritario che ha preso, ma non mi piaceva nemmeno prima, spinta sopra le righe emotive e poi sotto, abbandonata ai modi di una sospensione vagamente accusatoria.

Sono in un angolo da cui mi devo muovere a ogni costo. Forse basta un nulla a lasciarsi portare dagli eventi, e nulla viene chiesto in cambio.

Me la dico come se mi piacesse guidare nella notte, in un paese sconosciuto, ed è questo che credo vero, alla fine. Così sta andando e non c’è verso di manovrare alcuno scambio.

Nella superficie della porta a vetri Angela mi guarda in un modo.

Mi pare confusa, o forse sono io.

Comunque mi fiacca.

Non riesco a credere che siamo venuti qui per questo, Angelo.

E’ una cosa di istinto. Sono fatti del destino che riguardano tutti, non te ne puoi semplicemente disinteressare.

Il prezzo di una strega a El Alto, dipende dalla disposizione al baratro dell’accolito che la interpella, accidenti.

Ancora stento a credere al discorso sconnesso che m’ha appena fatto.

Non sono pronto a reggere le sorti del mondo, tutto questo riesce ancora a farmi sorridere. Il sorriso, quella fiacca ciambella cui m’appoggio.

Dove s’è nascosto il tuo uomo sbrigativo, Angelo?

Ma nulla, che ti credi, di muovere il mondo con le battute? Nessun dinero, niente di niente. Non ha voluto altro da me. Questo, ancora, non ti basta?

Sono le tre di notte. Il volante, è come se ci fosse bruciato tra le mani.

Con il chiarore residuo, come ospiti di un tunnel silenzioso nella notte poco interessante dell’altopiano andino, siamo arrivati interi e affilati davanti agli imbarchi di Puno. C’è voluto un battito di ciglia.

Ci siamo fermati un’unica volta a mangiare quasi niente, in un self-service lungo la strada, un posto che serviva solo minestre gialline che ristagnavano tra brutte isole di grasso. Angela girava il cucchiaio a vuoto senza pescare nulla, con l’aria spaesata di un lungodegente fuori di corsia.

Sotto la luce di neon sparato a casaccio ho concluso che dovessimo procedere così come stavamo. Con il buio residuo di una curiosità che si ritraeva, con l’allarme di quell’incidente estraneo, poco argomentabile, che c’era capitato.

Credo d’aver dormito qualche minuto, l’aria venie fuori fredda e forse è il caso di riaccendere il motore.

Il sedile di Angela è vuoto. Mi riaddormento come se fosse un fatto normale, che mi aspettavo accadesse. Cado in un sogno denso e affannoso.

Strane figure si avvicinano lungo la spiaggia, sembrano spettri di indios che barcollano, sul punto di cadere. Avanzano a passi disarticolati fino alla macchina, mi scalzano dal posto di guida e salgono tutte le decine di individui dalla grinta fiera che arrivano, avviano il motore e si allontanano sulla superficie del lago.

Vedo me ancora seduto sul sedile del passeggero, e so che Angela è perduta, sprofondata nella grande distanza verticale del lago.

Non so dove i silenziosi indios mi porteranno, finché non vedo le isole di canne galleggianti che si avvicinano e penso che è troppo tardi per sbarcare dagli Uros. Penso con angoscia che bisogna avvertire le autorità locali.

Quando riapro gli occhi una luce s’è già fatta largo all’orizzonte.

Scendo anch’io nel pungente taglio di un’alba grigia.

Le brume del lago investono la strada. Chino su di me, tenendomi il bavero, cammino fino a un locale che sta mettendo fuori i primi tavoli del giorno.

Mentre in piedi al banco bevo una brodaglia tiepida di Nescafe un vecchio con una pelle bruna simile a cuoio mi si avvicina, chiede che gli si offra una colazione. Intanto comincia a parlare, racconta le sue storie a frammenti, è come se la vita si ritirasse da lui, ogni tanto, lasciandolo qualche istante vuoto e immobile. Forse è questo che mi incuriosisce, questa presenza mezza vuota e

mezza carica di un fervore trattenuto.

Lo lascio dire, anche perché nel suo discorso vagamente confuso emerge una bolla di interesse. Pare che gli Uros non lascino più le isole da molti anni. La gente di terra sostiene che l’inattitudine a camminare sul suolo immobile della terraferma li rende malfermi e insicuri.

Il vecchio afferma che non sia questo il punto, il popolo delle isole di canne sconta semplicemente un destino, qualcosa che sorge dal tempo, dalle profondità stesse del lago che abitano da sempre.

Gli chiedo se sappia qualcosa di Angela, lui fa un cenno con il capo verso fuori.

Si offre di accompagnarmi sulle isole perché io ritrovi il sentiero che lui ritiene abbia perduto. Insiste molto su questo punto, non si cura affatto delle parole asciutte con cui nego di aver perduto alcuna strada.

Finisce che alla fine mi arrendo e lo seguo, nel solco della sua camminata sbilanciata torniamo lentamente verso la spiaggia.

Prendiamo il largo su un piccolo barchino a motore tirato fuori da sotto un cespuglio. Il vecchio scende in un suo antico silenzio, sono io che lo rincorro silenziosamente adesso. Da lui non esce altra parola.

Nulla, davvero non m’interessa nulla di quanto quanto queste astruse fantasie mitologiche possano avere a che fare con noi, col fatto che ora ci siamo ritrovati ed è stato come avere l’assoluzione da un incubo lento e tormentoso.

Ci siamo crollati addosso esausti, sudati, nell’odore appesantito delle emozioni che si sciolgono, con ancora in circolo lo spavento che m’era preso poco prima perché la barca faceva acqua, il vecchio non rispondeva a nessun cenno, la nebbia intorno stritolava l’idea di una realtà afferrabile. Nausea e mal di testa ballavano ancora in un giro annodato, nel profondo di me.

Angelo e io, abbiamo cominciato a muoverci verso la grande capanna centrale del piccolo villaggio, abbracciati stretti, pestando i passi sul suolo molliccio di canne rovesciate, con quell’andatura imposta, sprofondata e ondivaga, che tenevano gli indios del sogno.

Legata a me da stretti giri di braccia, Angela sembra bruciare di una nuova vita, priva di quel taglio scettico, pericolosamente sbilanciato, che aveva inciso la mia attenzione all’inizio del viaggio.

La curandera degli Uros, ricoperta di espliciti paramenti da cerimonia, circonfusa dal fumo aromatico di un fuocherello quasi spento e dall’attenzione di tre indios adolescenti che si occupano di lei, ci fa larghi cenni di accoglienza con il capo e con le mani. Pare stessero aspettando me per cominciare non si sa cosa.

Finiamo mezzo prostrati ai suoi piedi, in una postura che sento innaturale, ma che la nuova fisicità capiente di Angelo mi costringe ad assumere.

Un piccolo braciere dai disegni naif ci viene passato da una ragazza seminuda, con una spaventosa incisione cicatrizzata che le attraversa il ventre scuro.

Angelo respira a pieni polmoni le volute azzurrine che le sorgono tra le dita. Poi tocca a me, mi tremano un po’ le mani, respiro e tossisco, ci riprovo.

La curandera mi guarda nel fondo degli occhi, annuisce appena, la sua figura si slarga, perde i contorni, comincia a crescere contro il fondo buio della capanna.

A un certo punto tutta la visione si mette a gravare su di noi, come se fosse una gigantesca nuvola che ci spinge nella pace distesa del suolo, rilassando le braccia e le gambe, togliendo la tensione ai nervi.

Finché mi rimane soltanto il ricordo prossimo di una mia mano che abbandona uno dei pesanti seni di Angelo cui s’era avvolta stringendo.

Nel corso della notte riprendo coscienza, nel groviglio di quei corpi frammentati che siamo tornati a essere.

Angelo si insinua sul mio corpo intorpidito muovendo le sue curve strette, dopo aver lungamente narrato la vicenda della pena profonda di questo popolo a una parte lontana di me che faticava a tenere il fuoco dell’attenzione.

Sento i miei pensieri, posso osservarli come se sorgessero direttamente dalla superficie della pelle, come se il cuore e la mente si fossero trasferiti alla periferia sensibile di me.

L’universo si specchia nella materna profondità del lago.

Siamo come le radici disperse, noi, siamo i canali occultati che producono linfa per la realtà rovesciata che ci fiorisce sotto.

Angelo si arrampica dentro di me, colgo appena l’idea che avvenga qualcosa di sanguigno nel fremere dei corpi.

Vedo invece quell’insetto stupido, minuscolo, che sale lentamente lungo un interminabile filo d’erba, non posso fare a meno di considerarne tutta la pena di un’azione che mi pare inutile, dal basso all’alto, dall’alto al basso ancora, dopo aver trovato che non c’è uscita dal percorso, che la giornata finisce così, al medesimo punto d’esistenza da cui s’era partiti.

L’orgasmo dell’Angelo che si rompe su di me fa in modo che ogni cosa produca il senso che deve produrre, la visione che deve avere.

Con l’abbandono della terraferma il popolo degli Uros ha pagato per tutti.

La natura legifera per ritmi, ogni azione è priva di contenuto, non c’è alcun valore né residuo concepibile.

L’universo è dinamica pura, la coscienza, soltanto un pigro inferno minore in cui gli uomini sono stati cacciati.

L’indomani è un taglio di luce pura che filtra tra le pareti di canne, sopra il giaciglio che ha ospitato la nostra notte.

Mi alzo ed esco a vedere l’alba che si diffonde tra le brume lacustri, cammino in quell’incertezza di canne che sprofondando, giro lungo il perimetro dell’isolotto senza incontrare nessuno.

Passa quel minuto in cui mi fermo, immobile, non sapendo che altro fare.

E’ un brivido che mi distoglie, Angela s’è alzata e m’ha raggiunto alle spalle, senza far alcun rumore.

Ce ne stiamo un po’ così, osservando l’orizzonte, girando lentamente lo sguardo, schermandoci gli occhi con il palmo della mano.

Parliamo quasi nulla, quelle poche parole scarne necessarie a capire che dobbiamo prendere una delle piroghe e dare forza alle braccia per tornare a Puno in tempi ragionevoli, tempi di cui nessuno dei due ha un’idea precisa.

L’orizzonte di terra non sembra così lontano, ma a quest’altitudine non ci si può troppo fidare delle percezioni, la rarefazione dell’aria confonde le distanze.

La piroga è leggerissima, ci vuole un nulla a poggiarla sull’acqua.

Angela si incastra nella prua stretta, io cerco di mantenermi in equilibrio, dietro. Cominciamo a pagaiare cercando un ritmo comune.

C’è un pensiero che mi disturba, al di là del vago affanno che sento, che cerco di sciogliere nella regolarità del movimento imposto.

Qualcosa di insensato mi dice che Angela è tornata a essere la perfetta estranea che appariva quando la incontrai la prima volta. E io non ho idea di quale effetto questo possa farmi.

Angelo!

Il tono di voce alto che viene fuori disturba la magia ambigua del mattino che ci ospita.

Ripeto il gesto. Urlo, ma è come se lei non mi sentisse.

Uno stormo di piccoli uccelli sorge dal nulla brumoso e ci sfiora radendo la superficie del lago.

Allora abbandono la stretta del remo e le afferro le spalle.

Lei si interrompe. Si gira col busto e mi guarda.

Dentro i suoi occhi leggo l’incredulità che si attarda su quel mondo di vertigine che ci si è manifestato. Leggo il riflesso del mio bisogno appena nato, sento tutta la nuova pienezza che mi ha invaso. E anche che quel mondo, la notte bruciata, il mio Angelo, non li avrò mai.

Perché lui adesso è un’altra.

Leggo tutto questo nei suoi occhi e mi sento franare.

Afferro il remo e do forza, senza più orizzonte, privo anche del rumore dell’acqua a conforto, in tutto il nulla che non sapevo e che è già qui.

E tornerà, domani.

 

*

(Itinerario n. 3, da: Geografie Fuori Luogo)

9 risposte a “La Paz dell’Angelo

  1. Ho messo il “mi piace” sulla fiducia 😉 Ti leggo oggi pomeriggio, stamattina sto giocando a nascondino col tempo 🙂

  2. affresco post-atomico (sarà il cratere?) di un’umanità fragile di bisogno che le scappa dalla voce (immagine ficcante, che lascia il segno, marcando il territorio del non luogo). bella anche la traduzione letterale del mi guarda “in un modo”: quale sia non è dato sapere, forse l’unico possibile quando ci poniamo di tre quarti di fronte al non senso delle categorie umane del pensiero. la Paz-zia che abita il confine, l’ultima frontiera tra detto e non detto (ovvero, mutatis mutandis, tra essere e non essere) è la strada che tutti abbiamo perso e ritrovato (Angela che diventa un angelo maiuscolo e “si insinua sul mio corpo intorpidito” con “pena profonda” m’è parso *incarnare* mirabilmente anche in senso allegorico il cerchio che si chiude su tutto il nulla che non sappiamo…).
    forse il tuo migliore “viaggio” di sempre, per i dialoghi a brandelli e per l’atmosfera di lucido delirio sul come e sul perché, disturbante come può esserlo il pensiero, straziante come sa esserlo una fisicità capiente.
    (occhio refusi: “in un altra corsa”, “l’aria venie fuori”)

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