Il mio amico Diu, accoccolato in statua di calcagno, continua a perdere sangue dal naso. Lui, poggiato in terra nera oleosa di petrolio battuto, setaccio arido di sole a picco, cazzoanord.
Dovrò dirgli della pena che m’ha preso, della paura sciogligamba in
quest’ultimo giorno d’attesa barca, mentre sbattiamo la polvere via da noi e speriamo inutilmente, così già mezzi trapassati come siamo.
Tanto che fatto e non siamo serviti. Il nulla che ci accoglie.
Il lamento di Abù che è abituato alle bombe, sopra di noi come una pergola di ruggine che pericola.
Lui non sopporta, non capisce l’essere andati, il silenzio del vento, il niente che lo aggredisce più forte delle ferite.
Facciamo ancora le passeggiate storte lungo i muri di crosta, quindici giorni avvitati alla terra quaggiù, in una città di strapiombo Maghreb che ci muove in banda di cani fantasma e affila i coltelli, attrezza la frontiera, organizza le zuffe, i sogninfumo che litighiamo a stento tra noi, neri peccaminosi del Darfur, perfino le mosche e i nigeriani si tengono alla larga.
Il mare che è il mare, davanti a noi, poi, chi l’ha mai visto.
Abù, Diu e me, siamo stenti di suoni di sillabe, con il frastuono della risacca che ci annulla, in questa porta di silenzio lunga come il giudizio, il boato pioggerella delle onde, sabbia e salsedine in mezzo alle palle, e noi come legni arroventati per imbarcarci a nord, e appiattirci con tutti i toni di cannone del Darfur avvoltolati sulle spalle filiformi, come microbi dentro il culo stretto di uno scafo.
Perderci forse ancora prima, svaporare nel vento battente d’attesa, lasciare la mente a pezzi sparpagliata sulle banchine fantasma dell’Africa stretta a settentrione.
Abù e Diu sono davanti a me in una luce azzurra che cala, adesso, eppure ormai è come se me li ricordassi soltanto.
Quello starsi in bilico come licaoni spauriti che avventurano orecchie in largo di piazza, paese di zampe caute, il corpo secco come un wadi prosciugato, tre giorni lunghi che non si spara più, le capanne in terra la pioggia altrove e sempre che dura ostinato la piazza deserta coscienza di occhi sotterrati malamente, ovunque.
Ognuno di noi qui da qualche parte moribondo ma c’è, non crediate, un filo di coscienza, sogna la sua folle ricchezza che tanto vale, ogni cosa sparita e non torna, solo tormento lucido che nelle pupille s’intonda.
La terra si apre ti offre il sonno, il sono-no e altra immondizia che questa voce, riparo di un muro malamente smitragliato.
Vai dietro, cane di steppa arida, che quella voce d’uomo non t’aspetti, e presenza che sorride, incanta gli occhi, prende in mano Diu spingendo a muro, lo valuta, soppesa, e intanto si moltiplica come spettro e fruga Abù nelle vergogne attonito, che pende lì come albero storto e illude, fa scorrere, ride come l’eco e ingrossa e guida veloce al parossismo di scosse che spremono succo di bianca granata.
Due cazzi così son miniera, a nord devono stare, mille verdi a cazzo anticipati, più o meno è così che s’inizia ragazzi, e ti levi questa pena dalle spalle, e ti cancelli per sempre la terra di madre, incidi il tuo piede che scappa sul cemento a presa rapida, sulla lapide del Darfur.
Io quel giorno non c’ero, non c’ero e basta come non c’è un buco di sabbia che duri, mi bastava rientrare in me sospeso nascosto dal primo riparo.
Son corso loro dietro, è solo che hanno in due l’età di me quand’ero padre, è stato riflesso che notte e niente e sabbia e stare qui o morire lì, in fondo, c’è un mare di mezzo che dicono rabbioso, una lastra assassina da percorrere aggrappandosi al cielo, precipitando a nord.
E io che raccontavo il mio mestiere, nella pubblica piazza prima che fosse odio e ora fastidio, silenzio intorno a fantasma di mercato vuoto.
In parole, solo parole, reincarno colori e grida e donne che alte si fermano fremendo con dinamica di torre, donne che sforzo pancia orecchio e tana, voglio vedere il mondo alla fine, voglio annunciarvelo mesdames della salvezza, c’è un mondo azzurro rabbioso che mescolato sbatte come deserto liquido, avvicinatevi, toccatemi, portatemi con voi, un mondo che guarisce o sotterra, io vi prometto da sciamano, vostro bambino scheletro di seno appeso,
voglio vedere il mare, aiutatemi ancora col vostro immenso dare.
Così adesso ormai, come uno sputo in partenza dal labbro schifato del deserto libico. Solleviamo le nostre ossa rosicchiate di visioni, il kif ci ha pascolato zonzo dentro sogni diversi resi lucidi e crudeli dalla fame.
Adesso è il momento di dirci: barca stronzo pidocchio presto!
Diu arranca come bestemmia a filo d’aria, fiotta sangue dal naso sul piede nudo di polvere, l’effetto son dischetti di pasta rossastra che ognuno di noi vorrebbe mangiare.
Il tempo è quello che è, basta appena a maledirci in silenzio, uno per uno.
Dietro, le pistole che spingono la mandria nera verso il futuro, resto io come una striscia appesantita che scompone le forme di piedi in fila indiana sulla sabbia morbida a mare.
Accompagno un po’ e poi solo con gli occhi.
Due poveri cazzi del Darfur che a nessuno importa se esistano persino, rischiano il picco prima di toccare figaterra a meridione.
Il mio che volentieri donerei a una piccola francese pallida dalla voce acuta di spavento, la mia mente che si strappa e senza pena mi saluta, è già a riposo
In luce di sempre il vento traversa follia
accumulando fronte sabbia che ti sotterra
mente molle granchio io in riparo di conchiglia
poche ore d’autonomia in fondo a questo buio
persiste l’ultimo sguardo
minato azzurro che svasa in onde
il mare alla fine su di me
lo conservo nell’umido di sabbia che sprofonda
almeno questo tratterrò
un piccolo destino svolto
e t’assicura infine
questo poco
ti completa
*
credo che questo sia tra i tuoi racconti più difficili da leggere, eppure tutto è al suo posto: il ritmo dispnoico, il visionario che ti abita e mi chiede di guardare lontano, il sentimento lucido. E quelli come me, a ovest, con il culo nel burro, che non sanno se è più forte la vergogna o la rabbia.