Il Cuore è un Orsacchiotto Perduto

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Ti piace quella gru, lo scavatore fermo col motore acceso, le quattro luci lampeggianti che spazzano l’asfalto bagnato di pioggia. E tiri su col naso, davanti alla gola sfavillante del cinema che sta per ingoiarvi. C’è puzzo di pop-corn bruciati in olio cattivo. Vorresti le liquirizie e il gelato e le gomme, persino quei pop-corn rancidi, te li metteresti di corsa sotto i denti e avresti anche le mani impegnate.

Le mani, cosa fare delle mani tra poco, quando lei si avvicinerà studiando con cura l’ampiezza dei suoi passi. Hai alzato lo sguardo e l’hai vista che camminava lentamente di lato al flusso di gente, tenendosi stretta allo spettacolo delle vetrine.

Lei poi si ferma come una figura incantata, davanti a un negozio di gioielli, riflessa a frammenti sul fondo di specchi della vetrina. Lei che è la terza o quarta volta che la vedi, la prima in cui ti scopri una sensibilità scorticata per i dettagli. Non sei sicuro di quella frase e di quella risata che hai messo lì a occhi chiusi ieri sera, in cima all’ultima telefonata di conferma.

E’ curioso il modo ostinato con cui i quarantenni si sforzano di rendersi insopportabili.

E può essere una fortuna, invece, che abbia ripreso a scendere questa pioggia sottile e insistente, che lei ti viene vicino sotto l’ombrello sorridendo dell’acqua che ha preso e siete leggeri, fatti della stessa effusione distratta, di un saluto arretrato, di un bacio tra la guancia e l’angolo delle labbra.

Non senti niente.

Lei ha una voglia sul profilo destro, una voglia che difende con un certo gesto del capo che si inclina quando sorride di sorpresa. Ti viene in mente adesso, in mezzo alla fila che spinge verso la cassa, sotto gli spot alogeni che ti scaldano i pensieri.

Lei quando fa quel gesto gli passa sul viso un velo di capelli dorati spettinati. Non c’è nient’altro di lei che ha quel potere d’accelerazione sul tuo cuore. Non c’è nient’altro che vorresti ora come saltare oltre il silenzio e la fila, la cassa, il cinema, i commenti e le battute e gli appostamenti dialettici, le telefonate, i ritardi, le curiosità, le affinità, le cortesie, le cene da cui torni con l’idea che ciò che vi siete confessati vi ha spinto in un cerchio di fuoco da cui non si torna interi.

E chiamare qualcuno per ridere, per smentire subito le circostanze.

Che tu più impari a navigare più hai la sensazione che qualcosa di liquido si vada a infilare sotto i tuoi piedi per farti traballare in allegria.

Una maschera distratta v’ha strappato i biglietti in tre pezzi.

Lei cammina sul soffice mezzo passo avanti a te, le luci si smorzano in fondo al corridoio.

Prima di entrare ce la fai ancora a sentire un’accelerazione. La ruspa sotto il marciapiede deve aver ripreso a scavare.

E questo non può essere che non te l’aspetti.

Le evidenze più inutili guadagnano spazio davanti a te come quando avevi quindici anni. La gettata di poltrone di alcantara blu, la sala stretta con gli spot di luce sui corridoi laterali, i ritardatari come te e lei che fanno spostare giacche e alzare intere file di spettatori per andare a occupare un paio di posti centrali.

A quindici anni mica che fossi originale, no, giravi per strada come se fossi sul set di un film, facevi sorrisi davanti e ai lati immaginandoti di essere un pallido Taxi Driver col destino maledetto, e che in centinaia quando passavi stessero lì a osservarti ammirati.

Prendi due o tre ginocchiate all’altezza della coscia per fare largo a lei che procede spedita nella strettoia fino alla poltrona, dove si accomoda con un piccolo slancio. Arrivi tu e cadi nel suo profumo lì accanto.

Pensi che la differenza tra qui e allora sia solo che non c’è più nessun imbecille che ti osserva. Guidi tu, ci metti niente a separarti. E’ così che si evita di mettere in fila gli errori, no?

Poi pensi anche che tranquillo, va tutto bene. Che il suo profumo è troppo dolce, che adesso non sarà mica il caso di starnutire. In ogni caso ti ripeti che il profumo è la traccia più evidente per accedere al segreto di una donna. Ma solo dopo che si è strofinata un po’ tra le tue braccia, quando torna su il vapore naturale della pelle.

L’ultima pubblicità sta sfumando sullo schermo e tu ti agiti sulla poltrona, provi un paio d’assetti comodi che finiscono solo di sgualcirti i pantaloni Visconti di Modrone.

Ti volti verso di lei e tiri il filo di un sorriso. La sua voglia è lì a pochi centimetri da te insieme a un mezzo sorriso suo che si sforza di riecheggiare il tuo. Sono solo un paio di labbra allungate che non trasmettono nulla al resto del viso.

Tu senti un po’ di male, ma solo un po’ e abbastanza lontano, verso i piedi che hai allungato sotto la poltrona di fronte.

I piedi. I piedi sono importanti e le tue Brian Cress lo sanno.

Non hai nessuna paura del futuro, non ancora. Perciò non scenderai a compromessi. Vuoi ancora tutto, amore e passioni e indipendenza, autorealizzazione, vibrazione di un canto che nemmeno tu sai bene, ma senza dolore.

E tutto quello straziante lavorio del desiderio a vent’anni, quando lei prendeva possesso anche a distanza di ogni tuo gesto d’immaginazione fino a lasciarti dimenticato in un angolo poco visibile di te stesso, tutto questo oggi fa sorridere e basta.

Ecco cosa volevi dirle con quella battuta fuori registro, al telefono. Che a quarantanni forse è un mezzo miracolo se riesci davvero a incontrarti con qualcuno. E volevi metterci l’ironia in quelle parole, l’ironia elegante su cui ti aspettavi la sua complicità. Siete o non siete animali di stessa razza ed età con un ventaglio di consapevolezze a farvi la giusta aria di esistenza.

Ma l’ironia s’era persa, risucchiata in qualche oscuro tampone della tua coscienza mentre la voce risultava stanca. Lei aveva annusato di sfuggita per un attimo prima di allontanarsi dai sottintesi come una specie di lupa fiera.

Anche adesso la senti isolata nel triangolo di braccia che unisce le sue mani sotto il mento. Il suo sguardo e il suo respiro molto lontani da te, li senti rigidi, sotto la pioggia di fotogrammi che dalle prime scene comincia a scendergli nelle pupille.

Succede che anche tu provi a guardare il film, siete venuti per questo, o sbagli?

Sei rapito dalla fotografia, dalla musica, dalla nota di leggero struggimento che si infila di nascosto nelle scene.

Ti fermi sul contorno delle sensazioni senza seguire veramente la trama. Lei, i suoi cambiamenti di postura, gli scarti d’attenzione, li registri tutti.

E adesso signori e signore così graziosamente intervenuti, mettetevi comodi e rilassatevi, che la strada della trama l’avete imboccata. Si gira il remake di Una Vita Al Cinema Con Lei.

Da che ti conosci pensi di non aver evitato un solo genere. C’è stato il romantico, il fantastico, la spy story, ogni genere di commedia, leggera, sentimentale, degli equivoci, senza evitare il melò, il dramma classico, la guerra, il post-moderno che ormai non hai più un cazzo da dirti.

E stasera siamo dentro a un taglio nuovo, persino sperimentale, da vedere adesso con quale classe saprai interpretarlo. Una specie di tormento sottile, versatile come un anfibio. Può essere fame o domande o bisogni urgenti sul futuro che non è ancora tempo. Può essere inattitudine ad assumere il Prozac secondo prescrizione medica.

A un certo punto ti rendi conto della storia, perché il film ha una trama, certo che ce l’ha, anche se il groviglio sfocato dei tuoi sensi t’ha impedito finora di seguirla.

Te ne accorgi da un primissimo piano della faccia sgualcita di Jeff Bridges che ti viene incontro zoomando, e diventa un primissimo piano che spinge fuori campo il fondale della stanza e la linea dei capelli e le orecchie e ogni inutile altro dettaglio, solo per mostrarti con glaciale evidenza la pressione di uno sguardo in cui puoi cogliere la luce di penombra negli occhi d’allarme e la contrazione delle pupille, e sulla faccia, ancora, lo sforzo muscolare delle guance per tenere su un sorriso e l’incongruenza del broncio sulle labbra carnose intorno a cui si tendono a ventaglio un certo numero di rughe di delusione, quelle che la vita impone sempre a ogni proiezione del tempo che si rispetti.

C’è un fermo immagine di tre secondi che non sai bene dove avvenga, se in te, nelle palpitazioni, nel film, o forse è il proiettore, può essere anche l’effetto alone della scontatissima colonna sonora che risale in un uno sforzo di Sax che esplode in Dolby e ti accerchia, ti colpisce alle spalle, mentre una voce bassa viscerale di Michelle Pfeiffer comincia a cantare:

My Funny Valentine…Sweet Comic Valentine…

E lo Zoom parte in retromarcia, rotola lentamente indietro e ricompaiono le orecchie e i capelli e la linea quadrata della mascella, poi la stanza alle spalle nell’opalescenza di un’alba forata dalle luci basse di due abat-jour e finestre su tre lati occupate dal più convenzionale degli struggimenti urbani, un’esposizione priva di fantasia di palazzi e tralicci di ferro e insegne lampeggianti di Bar’n’Grill e pubblicità e semafori che intimano DON’T WALK! a un vuoto di pedoni nel deserto che precede il mattino.

Poi vedi lei, in piedi, la sua statura un po’ crollata su se stessa, messa lì, vicino allo stipite di una finestra, di profilo, con un baratro di lacrime che minaccia di buttarsi giù oltre la dura ringhiera degli occhi.

Fai uno scatto di reni e ti sollevi dal fondo della poltrona. Come se ti fossi appena svegliato ti sistemi dritto sul bilico della seduta, giri lo sguardo intorno e scopri di essere lì a galleggiare con tutti i sensi tesi in mezzo a un mare di teste scure prive di occhi in discesa verso di te che sei molto, troppo vicino allo schermo.

Nella poltrona accanto lei guarda fisso di fronte a sé. La osservi qualche secondo e giureresti che non respiri nemmeno più in quella strana posizione simmetrica, immobile, con la schiena scivolata di qualche grado verso il piano del pavimento.

Allora le chiedi scusa e ti alzi e cerchi di uscire il più velocemente possibile da quel passaggio stretto, senza far male a nessuno.

Qualcuno si alza frettolosamente per agevolarti l’uscita, altri restano seduti, l’ultimo della fila letteralmente lo salti, atterri sulla moquette del corridoio illuminata da piccole luci basse, verdi, che guidano le tue fiammanti Brian Cress da centocinquanta Euro e passa verso l’uscita di sicurezza.

Non hai un’idea precisa di cosa ci sia da fare adesso.

L’unica traccia che ti dà un po’ di sollievo è che tu te ne vada in fretta da questo corridoio oscenamente blu che sembra un lupanare di anime, con i suoni e le voci delle proiezioni che si rincorrono volando oltre le tende che chiudono le sale allineate a destra e sinistra dei tuoi passi.

La Sette, la Sei, la Cinque, la Quattro, la Tre, la Due, la Uno e sei nel grande atrio violentato dai faretti alogeni, faccia a faccia con la cassiera che parla fitto a una cornetta sprofondata tra spalla e guancia.

Fai un cenno vago, mostri il biglietto, lei alza a malapena gli occhi ma solo per dare uno sguardo alla consolle delle proiezioni.

Adesso sei sul marciapiede, prendi schiaffi di suono dalla città che non t’aspetti, che spinge nella notte per andare e raggiungere appuntamenti e parcheggiare e salire e scendere da portiere di automobili che cigolano e sbattono ovunque ti giri.

Di fronte a te, sulla destra, la scavatrice che riposa nell’oscurità. In basso gli scavi da cui sale una colonna di fumo o un vapore virati arancio dalle luci lampeggianti di avvertimento.

Ci vuole niente a scavalcare una transenna, ci vuole niente a trovare il primo piolo di una scala che finisce in fondo alla buca.

Scendi perché si, qual è l’ultima cosa che uno farebbe in un momento del genere. Assurdo come non ti era mai capitato di calcolare.

Scendi per nasconderti un po’ e non avere altri pensieri logici cui corrispondere. La terra su cui metti la schiena è calda e umida e figuriamoci se non ti sporcherai la giacca.

Lei è bella, belli i suoi occhi e i suoi capelli, bella la sua voglia, ma sei sicuro dopotutto?

Desiderabile, interessante certo, persino dotata di una rara modulazione di simpatia. Ma anche frantumabile con un solo pensiero, se lo miri bene.

Lei adesso, non avresti davvero altro da dire, da giustificare.

E ciò che sale dall’umido della terra non è proprio il silenzio che andavi cercando. Vicino ai tuoi piedi trovi una vecchia copia ammuffita del Corriere dello Sport, che fa un po’ ridere se pensi che hai giurato che la prossima vita la vorrai appendere tra due mollette senza cervello. Palestra e notiziari sportivi, appunto.

Senza che ti colga la sensazione fastidiosa di avere un orologio che ti stringe il polso e il pensiero che forse è per questo che il sangue fatica a passare. E una vergogna simile a quando da bambino ti scambiavano per uno straniero per via dei capelli chiari e dei modi defilati e del gelo di timidezza che sostava improvvisamente sulle tue labbra.

Ci metti un attimo a risalire dal fondo della buca.

Ti spazzoli la terra di dosso con grandi gesti di fretta prima di rientrare.

Le dirai che sei corso in macchina a controllare qualcosa.

Le dirai che non si dovrebbe uscire in serate come questa.

Se sarai bravo le dirai altre frasi col tono equilibrato e un leggero sorriso che allude a una generica disposizione delle cose a fregarti abilmente.

Poi la riaccompagnerai a casa come si fa di solito, tenendo il registro della conversazione basso. E se lei si attarderà, soprattutto se ci sarà silenzio, ti strofinerai la fronte e gli occhi, ti passerai le mani nei capelli come uno che non c’è proprio niente da fare, sta andando.

E cosa le diresti invece adesso, se il film avesse voglia di restituirti il viraggio di un finale come non l’avevi mai visto.

Lei la trovi lì dove non dovrebbe essere, nel corridoio blu che gira su un lato della sala Sette, seduta per terra con la schiena contro il muro e le ginocchia raccolte vicino al mento.

Tu l’ultimo colpo di scena che hai visto al cinema ne hai parlato male poi per settimane.

Ci voleva proprio un orsacchiotto piccolo bianco tra le sue piccole mani mentre lei con i capelli che le piovono dritti sul viso e tra le gambe scoperte gli sta dicendo qualcosa di molto, molto confidenziale.

Tu la guardi e non sai cos’altro dovrebbe succedere, visto che in effetti non si capisce niente. Come se fossi apparso qui per la prima volta. Hai solo improvvise fantasie di lei come fuochi che scoppiano in alto e si annullano in lunghe scie di luce che ti ricadono addosso.

Adesso lei si alza e ti viene vicino col profumo e col silenzio.

Si avvicina come un soffio alle labbra e ti bacia.

E tu la respiri e la baci e l’afferri e lei t’afferra.

Restate così che è un vuoto improvviso e il tempo va a farsi benedire.

Il tempo finisce per appartenere alla fiumana di gente ottusa che esce dal bagno dell’ultimo spettacolo e vi spintona con poca grazia.

L’orsacchiotto.

Già, l’orsacchiotto.

Fai che finisce anche lui abbandonato, mezzo calpestato sulla moquette, in un punto preciso di buio. Che poi domani la signora delle pulizie magari se lo mette in borsa.

E’ così?

E’ così che l’amore gira.

9 risposte a “Il Cuore è un Orsacchiotto Perduto

  1. resta sempre il mio preferito. è probabilmente il miglior racconto che hai scritto, anche se (saranno passati dieci anni?) ci sono tue maturità attuali – consapevolezze, punti di vista – che rendono le nuove scritture invalicabili. Io credo che l’amore non esiste, sì lo so è banale, ma credo nel verbo amare, sì lo so è un paradosso, e a pensarci adesso non ho mai posseduto un orsacchiotto. Sarà questo che mi fa dire che qui, qui in questo racconto, non “ti fermi sul contorno delle sensazioni senza seguire veramente la trama”? O sarà che siamo tutti “frantumabili con un solo pensiero, se lo miri bene”? Non c’è niente di più difficile della narrazione di pensieriemozioni intorno a un sentimento che s’impenna sulle proprie difese. Cascatelle senza confini che si contaminano a vicenda in un andare, cadere, precipitare che è lineare, ché l’acqua è irreversibile e tu ci riesci, accidenti, a essere lineare, preciso, lampante, pieno zeppo di sfumature indicibili. Proprio come ne I favolosi Baker, una scrittura che riproduce suoni, luci, suggestioni, effetti e tutte quelle cose lì, quelle che s’insinuano. Solo che lì c’erano produzioni e postproduzioni ammericane, qui c’è solo l’autenticità di un pezzo di cuore messo a nudo, in cui hai intinto il pennino. Solo questo si spera alla fine della lettura, nell’autenticità, che ci venga incontro, almeno per una volta, che sia sia al buio di un cinema o in fondo a un buco scavato per stendere un collettore fognario, la solita sera che piove, non importa.
    baci

    • è l’amore egoico che “non esiste”, forse, o forse amore è il nome che diamo al -dito-, laddove l’unica cosa sensata di cui occuparsi sarebbe
      -la luna-
      sono appena uscito dalla visione di Intestellar, tramortito dalla mezz’ora di sequenza finale che vale il capolavoro, sto rispondendo al film, credo, non posso far altro ora, ma grazie della tua densa immersione.

  2. E’ la prima volta che leggo questo scritto e… emozione e speranza.
    Sei incredibile nel far sentire ogni sfumatura che viene da te. Davvero.
    Grazie.
    Gelsybel

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