Tiriamo i dadi per ogni cosa, Schuster, facciamo grandi giochi di società tagliati male, ci impegniamo in transazioni di titoli e negoziamo tutto il tempo, sembriamo quelle carte sforbiciate senza perizia dal grande lenzuolo lucido di una scatola di montaggio che promette meraviglie.
Ho preso la sopraelevata ieri sera, Schuster, in quel punto di vertigine che amiamo più di tutto dove c’è una grande curva d’asfalto che fa il solletico ai palazzi, quella che guarda in casa agli anarchici, alle nigeriane, ai baristi a cottimo che condividono una stanza, e sul lato opposto si apre il baratro scuro dei depositi delle Frecce, la faccia buona del paese che va a trecento all’ora.
Così, senza un motivo, mentre guidavo storto nella notte producendo psicosi a salve, pensavo ai rumori moderni, agli infiniti ronzii di sottofondo che prendono la scena per stanchezza, al Mattarellum, al Nazareno, a Cirielli e Cirami, a tutto il Campanile Sera del paese a festa per il nuovo presidente vecchio, come fossimo disforici felici, pericolosa gente cui raccontare di star tranquilli e che tutto s’è aggiustato, non c’è bisogno di pisciarsi sotto nel letto, la grande Balena Bianca è tornata, e il secolo scorso non è mai passato. Va tutto bene, come dice a memoria qualsiasi figurante che passi in un telefilm alla propria vittima moribonda.
Pensavo più di tutto alla riunione da ero appena uscito, una specie di stagno di occhiate periscopiche in cui sguazzavano consulenti giovani e meno giovani, un viluppo di bisce spaventate dalla crisi che si muoveva a scatti, un’umanità stroboscopica proiettata sulla boscaglia selvaggia dei ruoli, delle aspettative, delle cordate, degli organigrammi che fanno pressione, degli insiemi degli insiemi nell’inconciliabilità cancerogena degli affari privati conseguenti, mogli e amanti e Smart e Taeg, erezioni al 40% al pensiero di una casa al mare in vendita da cinque anni, i pagherò di pagherò al mercato, i figli da menare col downgrade metodologico, l’educazione all’ama ciò che ti ama, e restituisci il resto entro i sette giorni di legge.
L’Orrore, Schuster, mi perdoni se ti faccio fare Kurz, ora che la città frigge nel pentolone apocalittico di agosto e noi, a presidiare quell’unico ufficio aperto che ci chiede davvero conto, l’accatastamento maniacale dei significati.
Ho trovato una pozza d’acqua sul pavimento della cucina, ieri. Ho aperto il frigorifero e ho potuto constatare tutta la drammaticità del problema dell’effetto serra globale, amico mio. Pensa che i fiumi si ritirano e vengono alla luce le bombe inesplose della seconda guerra mondiale, i laghi si intristiscono e striminziscono e restituiscono le spoglie di qualche vecchia cariatide che combatteva per il fuoco, e il mio freezer depilato dal Frost ha appeno ridato la luce alle mummie di un paio di sofficini Findus ai funghi porcini che non li fanno più da non so quanti anni. Domenica li vado a vendere a Porta Portese nel viale dei vintage.
Ecco come va il mondo Schuster, sto leggendo Mao II di don De Lillo, amico mio, una bella bestia di romanzo, impennate visionarie stratosferiche e ripetizione ossessivo-seriale di concetti, emozionante e palloso al punto al giusto, riprendere Wharol e sequenze allucinanti di homeless a New York city, senza sentimento, solo osservazione, solo transitare, solo registrare, pensa che gran rottura di maroni, la zeitgeist post-moderna.
Ma niente eccezioni comunque, niente soluzioni, gli scrittori stanno morendo, da quando dio è trapassato ogni coglione si arroga il diritto di celebrarsi un funerale intellettuale, con tanto di auto-cariatidi invitate al coro di dolore. Esaurita la funzione di mettere a ferro e fuoco l’immaginario della gente comune, passato il testimone ai terroristi che sono diventati di fatto i nuovi cantastorie postmoderni, gli scrittori verranno riciclati nella linea dell’umido.
Nessuno ormai ci arrapa come Bin Laden, scoppia una bomba e ognuno si mette la maglietta della merda mediale che va di moda, le opinioni marciano in corteo mentre la gente che le guida scompare sotto il tappeto di casa, improvvisamente, un giorno. Gli scrittori stanno morendo e anch’io per la verità non mi sento tanto bene. Ecco, se non riconoscete la citazione andrete smistati nella classe dell’alluminio.
Ora Schuster, stammi bene a sentire, dobbiamo trovarci al dunque, perchè a questo mondo davvero è rimasto solo un “dunque”, un “entonce” globale, un gigantesco ponte sintattico sullo stretto dell’esistenza, a Messina. Non c’è verso di avviare i lavori ma nemmeno di levarli di mezzo del tutto, nell’universo-dunque passiamo le eternità accampati sul confine, ci si muove spesso di memoria in memoria, come una perenne minaccia di agire o anche peggio, di ritornarci col pensiero.
Avevamo un appuntamento Schuster, ricordi?
Bene, sincronizziamo gli orologi, è importante che noi ci si muova coordinati. Dovrò dirti, dopotutto, una cosa che m’imbarazza e mi fa sentire come fossi un silicato esoscheletrico di Tau Ceti alla vista della famosa lastra pubblicità-uomo che Carl Sagan mise nella navicella Voyager; non me lo ricordo bene sai, se era invece Giacobbo sul Due, o altro.
Adesso perdonami, grande amico mio, ma non mi ricordo più bene chi cazzo tu sia e dove t’abbia davvero incontrato, mi devi scusare, continuo a riscrivere questo testo da quindici anni aggiornando l’attualità delle notizie e non faccio altro ormai, questo è il mio auto-talk-show perennemente acceso e tu la mia vecchia puttana Floris. Del resto, chi non ha un amico con cui riflettersi, uno da rimbecillire con la proiezione dell’immagine di se stesso. Periremo tutti in un terribile giramento di testa, e anche se fossimo De Lillo o Gesù o le ucraine dalle grandi zinne utili sul tram cigolante, la vicenda del mondo non cambierebbe.
E’ la grande nuova storia che ci scrive fuori tutti, bellezza, Schuster mio, alla prossima.
Troviamoci al dunque. Quando vuoi.
(una bella bestia di racconto, non smettere di aggiornarlo)
compagna Ji, è un piacere, a tenerlo fermo, sto dunque.