Jung, un Mito vivente in Luce Tascabile

jjung

Nella costruzione della navicella della coscienza sembriamo destinati a percepire il nucleo più intimo di noi stessi all’esterno del nostro corpo, nella vita degli altri significativi in mezzo a cui esistiamo. L’elemento costante e necessario del viaggio è lo slancio proiettivo, la testardaggine con cui attribuiamo il bene e il male a ciò per cui proviamo affetto, dedizione, perdizione.

Per questo il primo amore ricapitola per noi l’enciclopedia dei nostri tempi, nasce nella ferita della scissione originaria e si nutre delle incertezze presenti, fino a chiudere il cerchio calando sul tavolo i tarocchi di ciò che è oscuro ma ci spinge avanti e semina destino. Passato, presente e futuro, ogni legge dell’universo interiore racchiusa in un paio d’occhi che non sono nostri, che nostri in qualche modo dovranno o potranno tornare a essere, liberando l’energia dell’amore dallo stretto senso della finestra personalistica, rendendola utile a un disegno più vasto e intenso dell’esistenza. Così la vedeva, in soldoni, Jung.

Così vagabondiamo di soglia in soglia, soprattutto dove l’ombra dell’amore e del rapimento ci coglie, sfogliamo il testo originale che lei o lui ci gettano addosso con un solo sguardo che ci lega, un giorno. Nell’unità delle cose da cui nasce il romanzo veniamo proiettati violentemente fuori, creiamo una divinità giovane che ha i nostri precisi lineamenti, nostri o del sogno che portiamo non fa differenza, e andiamo a nasconderli bene nelle qualità dell’oggetto amato, così come ci appare.

Questa breve storia ha a che fare con l’infinita nostalgia che l’affetto ci evoca, il tipico languore che il nostro poeta tascabile chiama paradossalmente “nostalgia del futuro”, delle vite non vissute, non è altro che la motivazione portante che ci fa esistere al mondo, l’eterno richiamo del “diventa ciò che sei”, ciò per cui sei nato, ritorna a te stesso, nella coscienza arricchita di un’unica connessione naturale che lega tutto.

*

E’ così che posso certamente dire di essere nato nei corridoi di una facoltà universitaria, nel 1982, era di maggio, in una primavera avanzata di cui ancora percepisco chiaramente il profumo devastante, oppiaceo, e penso che le storie importanti meritino tutte uno stereotipo come questo, grovigli di fiori di campo e dannazioni, giuramenti in bilico sul nulla e lacrime, un fiume, perchè oggi mi pare chiaro come io abbia allora espulso drasticamente me stesso, ciò che ero, la fibrillazione di un motore che partiva alla perfetta insaputa di me stesso per cercare già le tracce del ritorno.

Metto tutto questo nel racconto di una breve scena reale, perchè alla fine ogni dettaglio concorre a mostrare un segno. Quando questa pia illusione ti prende molti anni ed esperienze dopo, vuol dire soltanto che cominci a vedere la meta, che il viaggio di ritorno comincia a prospettare un fine, piuttosto che paventare una fine,, l’ombra di una terra che per una vita hai sospettato essere una fata morgana, eppure l’hai cercata rischiando il disastro, esattamente come un’India occidentale precolombiana. E ancora non riesci a definirla.

Lei ha trafficato a lungo nei bagni dell’ala al piano terra e poi, ripiegata in un soppiatto vergognoso, è sgusciata nell’aula vuota dove ci eravamo dati appuntamento. La scatoletta che mi consegna di straforo è una semplice struttura di plastica bianca, sagomata per tenere in piedi una piccola provetta, finisce il gesto posandoci sopra il dorso di un ombrello, poi scappa a seguire una lezione per cui è in ritardo mentre io rimango solo, in compagnia del frutto divinatorio della sua pipì che sta per rivelarsi.

Non possiamo più sapere perchè lei scelga quella circostanza pubblica vagamente grottesca per squadernare il nostro Evatest, in fondo c’erano mille altri ambienti diversi da casa per mantenere il nostro segreto, di sicuro si può dire che lei volle avvenisse in un aula della facoltà di Psicologia, dove ci si forma al riconoscimento dei significati nascosti, e che il destino ci mise del suo per sorridere di me lasciato lì a controllare un tormento nonchè la mia bella aula deserta riempirsi di studenti sudati e trafelati nel giro di due minuti, accorsi per la lezione che sta per cominciare, in ritardo.

*

Mi ci vorrebbe una vita per sciogliere tutto il senso solidificato in quelle goffe circostanze e ricollegarlo a un disegno degli eventi, mi limito a dire che in quella maledetta aula si svolgevano le seguitissime lezioni di Aldo Carotenuto, lo psicoterapeuta italiano che più di tutti ha cantato e interpretato la passione per la musica concettuale di Carl Gustav Jung. Si percepiva una tensione reale in quell’aula, come una densità che nessun altro insegnamento della facoltà riusciva ad evocare, una sorta di emulsione emozionale composta dalla debordante partecipazione animistica collettiva.

Per una coscienza giovane, inesperta, l’incontro col pensiero di Jung suscita facilmente una forma di “colpo di fulmine”, un rapimento e una proiezione che ha motivi piuttosto semplici. In Jung ritrovi amici segreti come Nietszche, Goethe, Rilke, Hesse, Hoffman, Conrad, se la letteratura ti ha già affascinato, altrimenti ti raggiunge comunque quella sensazione netta di una mente gigantesca, molto complicata, eppure percorsa da una incredibile febbre di vita, di sogno, di anima, di fede, di “oriente”, persino di trasgressione che ha qualcosa di molto simile agli occhiali fenomenologici puri con cui viviamo la giovinezza, fuori da ogni teoria precostituita.

Jung ha incarnato precisamente il mito dell’Eterno Ritorno, l’Ulisse globale che ha cantato l’insanabile nostalgia dell’Uomo sospeso tra cielo e terra moltiplicando l’isola di Itaca in multidimensione, andandola a scavare in ogni gesto e frangente di quella navicella psichica che ci ospita, attraverso la nudità di un’emozione primaria, fino a tornare indietro per farne una mappa leggibile al limitato occhio con cui nasciamo al mondo.

Poche cose di una moltitudine rendono l’idea. L’intuizione che il sintomo, il disagio mentale, la malattia, la disperazione non siano affatto lacerazioni prive di significato, al contrario siano il motore e il carburante, ovvero contengano il richiamo forte alla creazione del tempo futuro, di quel terreno psicologico e metafisico in cui far sviluppare l’intero albero cui il nostro seme umano è destinato. E poi, la geniale mappa stellare che ci ha lasciato in dono, con tanto di stazioni tipiche in cui concepire l’itinerario del ritorno al Sè.

*

La prima fermata analitica, in genere, è stata chiamata Persona, ovvero tutto ciò che di sociale e psicologico l’ambiente ci impone, ruoli, credenze, gerarchie di norme, schemi relazionali, presupposti che non abbiamo veramente scelto. Molte persone vivono una vita degnissima senza mai muoversi realmente da questo scalo, ma sono ancora di più quelli che sviluppano malattia e disagio nelle more di questo complesso.

La seconda stazione viene raffigurata nell’Anima, ovvero il reale motore emotivo che spinge l’individuo nell’esperienza delle cose. Un’emozione, l’amore sopra tutte, può portarti in paradiso o gettarti nell’inferno, questo spiega bene perchè Jung, nel segreto dei suoi taccuini autoanalitici che diverranno un giorno il Libro Rosso, concepisce l’Anima come collegamento divino ma va anche oltre, non essendo strettamente interessato a dio come causa ultima, mantenendosi piuttosto alla ricerca della “casa ultima”, all’interno del territorio umano.

Si passa così per lo schermo dell’Ombra, terza stazione del viaggio, ovvero ogni cosa, soprattutto quelle brutte, dolorose e sgradevoli di noi che rifiutiamo coscientemente, i grandi movimenti idiosincratici che segnalano l’attività organizzata di una nostra figura inconscia, che raccoglie le scissioni di noi espulse.

La navicella cosciente che riesce a connettersi ed analizzare profondamente questi primi tre “complessi” esistenziali, comincia a intravedere il cosmoporto d’arrivo del viaggio, il Senex che si manifesta come un grande saggio interiore, il segnale che si sta entrando nella costellazione del Sé dove i destini trovano compimento, nello spazio in cui le attitudini di Uomo e Natura si ricongiungono in una forma di “unità”.

*

Lo sforzo che mi è costato concepire questo brano non mi consente ora di fornire altre spiegazioni della mappa Junghiana.

Manca un’enormità, è chiaro, soprattutto come funzionano le dinamiche infinite che ci legano alle identificazioni soggettive con i complessi parziali della nostra psiche: Persona, Anima, Ombra, Sé; come questi “blocchi” provochino malattia e disagio espellendo violentemente parti simboliche di se stessi che nell’amore e nell’odio finiamo per attribuire agli Altri, che siano persone od oggetti significativi della nostra vita. Manca ancora far capire quanto questo paradigma “semplice” sia adatto a integrare ecletticamente una vastità di altre prospettive psicologiche e artistiche possibili. 

Mi basta aggiungere che Jung ha chiamato queste stazioni Archetipi e li ha definiti inconsci, intendendo con ciò disegnare un territorio ancora poco conosciuto all’uomo moderno, quello del Collettivo umano che ha vissuto ieri prima di noi, che oggi continua a influenzarci, benchè il materialismo positivista lo neghi narcisisticamente, e che è l’unico scrigno, o meglio il più fondato, in cui sono racchiuse le istruzioni sul futuro evolutivo della specie.

E mi basti finire ricordando ancora una volta il Libro Rosso, in cui Jung concentra la propria esperienza analitica ventennale, l’inferno, il paradiso, il fine ultimo e soprattutto il metodo d’indagine, la propria scorza di uomo totale, perdutamente romantico e ferocemente empirico.

Jung era un ossimoro vivente e il Redbook, ma solo per i sinceri, i coraggiosi, per chi sa leggere tra le righe, un vero e proprio kit per l’eternità.

*

Sono alle soglie oggi di uno degli eterni ritorni che ci legano, per ricollegarmi al tema dell’incipit. Dopo tante esperienze professionali e umane accumulate, sul mio tavolo ho il sogno concreto di ricominciare a specializzarmi presso l’istituto junghiano italiano, e anche la paura di non essere all’altezza, oltre il pensiero dell’incredibile impegno economico e di anima che mi si richiederebbe.

Stamattina presto ho buttato giù questo pezzo scolastico perchè ho un tremendo bisogno di mettere parole fuori di me, in un posto utile a venire a capo del bagaglio necessario per un nuovo viaggio, il più importante, il ritorno dei ritorni, la provetta dell’amore temuto e desiderato che per qualche incrocio simbolico di destini mi aspetta ancora nell’aula metafisica dove sono accaduti tutti i corsi di laurea della mia vita.

O forse è solo amore che si manifesta.

4 risposte a “Jung, un Mito vivente in Luce Tascabile

  1. Io in quelle aule di università dense di fermento intellettuale non ci sono stata mai e non ho nè la competenza, nè la capacità di esprimermi con termini adeguati per intavolare una discussione che entri nel merito compiutamente. Ma vediamo se ho capito: ci si innamora quando si incontra colui o colei disposto ad “accoglierci”, a darci “ospitalità”, in sintesi a diventare lo scrigno che contiene i nostri più profondi bisogni e desideri, che abbiamo bisogno di proiettare all’esterno per poter riconoscere. Se è così, questo nulla toglie all’essenza dell’Amore. Il miracolo vero accade quando l’Altro che noi scegliamo a sua volta ci sceglie come “portatori” di sè. Forse è per questo che quando parliamo dell’Amore evochiamo la fusione, il congiungimento profondo. Io mi riconosco in te, tu fai altrettanto. E’ pura, divina magia, e quando tutti gli elementi del caso concorrono per far sì che questo accada, il cuore dell’universo acquista un battito.

    • grazie della poetica testimonianza, per niente sprovveduta come invece la “retorica” del “non ho frequentato” giocherebbe a far credere. Come si fa in effetti a entrare nel merito qui, ma anche altrove, a cominciare dalle aule accademiche dove le scuole di pensiero si fanno una guerra insensata,
      Jung, in ogni caso, rimane tra i pensatori moderni più fraintesi del recinto.

  2. Vien voglia di sprofondare dentro a quel libro rosso e a tutto ciò che si porta dietro.
    E si sente il tuo sospiro trattenuto nel groviglio che si libera e poi ancora rallenta.
    Bello.

    • sprofondare è il termine giusto, ai limiti della follia e dell’auto-derisione, nel buio più totale, di questo parla il Redbook, di come ringraziare la natura, infine, per ogni ostacolo che ci fa soffrire. i miei omaggi, silente.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...