Grande Moby Dick,
dove saranno tutti gli amanti che hai,
dolce Moby Dick, nessuno ti ha baciata mai.
Benché la sorte gli sorridesse decisamente, Marino Bruio conservava sempre quella sua bella tempra impulsiva di fondo, una specie di nervosismo eiaculatorio pret-a-porter che lo tallonava dalla tenera età. C’era come un’ansietta fuori luogo che ogni tanto lo stringeva suggerendogli un allarme, uno stare sul chi vive in attesa di sorprese, pur non essendogli chiaro di cosa precisamente potesse trattarsi.
Marino non si considerava un fesso. Nel secondo lavoro che faceva, ad esempio, l’avanzamento che aveva avuto gli solleticava un travaso di naturale vanità sudaticcia. Ti pare niente, dall’oggi al domani, passare dalle produzioni a basso costo a manovrare un’onesta regia degli eventi.
Lui sapeva un bel numero di cose, che certe ragazze a prima vista timide sanno trasformarsi nel modo giusto quando le riscaldi con un po’ di mestiere e le butti nella mischia giusta che hai saputo disporre.
E anche che il corpo femminile, ad assumere la prospettiva dell’occhio che riprende, benché tu lo possa aver trovato eccitante mentre ancheggiava su e giù in tacco dodici per il salone dei provini, se lo svesti e lo prepari e lo piazzi sui divani d’ordinanza sotto gli spot, lo schiacci nei volumi muscolosi di un bel nudo maschile, perde sempre quella perfetta proporzione naturale di superfici che lo eleva poeticamente.
Il suo senso estetico in realtà, che è una cosa che Marino si riconosce e si concede, non sopporterebbe tanto di vedere quel genere di tette ciclopiche con i capezzoli che sembrano occhi sgranati, tutta quella carne cavallona delle scandinave addosso a uno di quei tipi acrobatici, secchi e nervosi, con i baffetti e il cazzo lungo e sottile, uno di quelli che c’è sempre, in ogni produzione, non si sa come, non s‘è mai occupato di reclutamento maschile, lui.
Bruio, da questo punto di vista, si sente un po’ conservatore. Continua a considerare eccitante, terribilmente, piuttosto, la sproporzione indotta del tipo piccoletta, sguardo impertinente e vita sottile, fianchi e seno importanti, culo spinto naturalmente in su. Una del genere la puoi incastrare bene a puntino in una di quelle figurazione di belle stazze taurine, in mezzo a quegli slarghi di collo e torace che, probabilmente, sono da ritenersi il pregio più evidente dei fisici massicci, un po’ tarchiati, come quello di Marino stesso. Almeno così se la crede lui.
Pensa così, mentre accarezza il bel volante di pelle. Pensa che conoscere la gente giusta che per lavoro ti fa guidare una macchina dominata dall’elettronica, totalmente servo-assistita, sia un bel paradiso minore da padroneggiare. Con tutto il tempo idiota che ti lascia da fantasticare, con tutto il resto del dominio sparso che ti concede.
Marino sente che questa, comunque, è proprio la sua vita, quella che a ogni altra cosa lui di gran lunga preferisce.
*
Grande Moby Dick, dove saranno tutti gli amanti che hai,
Grande Moby Dick,regina madre, segui le stelle che sai.
Non fidarti della croce del sud, la caccia non finisce mai.
Tutte le volte che Prisca ascolta quella canzone gli torna in mente il tormento di una vita, con tutte le parole precise che si sprecano in quei casi.
Tu guarda se le doveva capitare proprio ora, come non fosse stata appena scaricata dall’aereo delle sei e cinquanta, con tutta l’ira delle cose che ci sarebbero da pensare e da organizzare. Prisca si ricorda che tutte le vite hanno avuto un amore sfigato, qualcosa di molle che è franato vergognosamente ai piedi.
Tra le poche cose private cui ama ancora teneramente abbandonarsi, in realtà, oltre al piacere di specchiarsi da sola in un bel corpo di forma generosa, ci sta pure quella piccola epifania minore, quel ritornello musicale del Banco che custodisce da quel tempo, un fatto che celebrava la consegna delle proprie ceneri spente all’urna del cuore.
Va bene, s’era detta allora, me lo farò amico, lo registrerò su una cassetta, giuro che l’ascolterò, quando potrò, a distanza di anni, per ricordarmi. Perché lei, davvero, non s’è fatta mai troppe illusioni. Non sarebbe riuscita a prendersi le lauree e i master se non le fosse stato chiaro da subito quel punto.
Non è che dubitasse niente sul domani, niente che non fosse un futuro perfettamente realizzato, non era quello. Non fatele dire eresie. Prisca ha faticato, è passata sopra tutti quelli su cui occorreva passare. Ha prodotto così tanto sudore che facilmente lo scambieresti per lacrime deviate.
Gli anni sono stati tanti, con l’unico sollievo che l’attrito del tempo ha fatto in modo di trascurarla, per certi versi. Oggi, potrebbe ancora dimostrare piacere se qualcuno le chiedesse conto dell’età.
Prisca è orgogliosa di come ha saputo intelligentemente ritoccare il volto, per come è riuscita, con un paio di interventini locali appena, a farsi ridisegnare il sorriso e la luce della pelle, il bagliore degli occhi. Nient’altro del suo corpo le aveva ancora chiesto pegno.
Bene era andata, dopotutto, comunque la vogliamo mettere. Soprattutto se si considera che il suo brioso capo corrente, il senatore Brusegan, alla fine, vuoi perché esiste una giustizia esistenziale, vuoi perché al paese è scappato recentemente di grattarsi la rogna della questione femminile in politica, il capo, insomma, le ha cominciato rapidamente a fare spazio sotto la sua vasta ala protettrice che conta.
Così, bellamente, la Sangiulio s’è ritrovata a palazzo Madama.
– La sorte, la sorte corre nella tua scia, Moby Dick, colpo di coda e vola via. Nella tua scia, nella tua scia…
Prisca s’impunta sulle labbra. La macchina s’è fermata e non le pare proprio possibile, adesso. Che tutte le autostrade e i campi se ne siano andati così dai finestrini, senza che lei se ne potesse accorgere.
Quel che vede sono le creste lontane delle mura aureliane, il traffico bloccato che le grida intorno. Con l’aggravante di quel sottosviluppato dell’autista Marino che ha escluso la musica dagli altoparlanti. Ha tirato giù il finestrino e, dando fondo alla sua speciale arroganza di animale istituzionale, sta mettendo paura a tre vigili urbani che presidiano il grosso incrocio della circonvallazione.
Bruio, se ci si mette, ha questa voce bassa che gli esce, tutta di gola, una vibrazione leggera che inquieta. Mentre parla così, in genere, il suo occhio irrequieto vaga oltre la spalla preoccupata del malcapitato. Son cose che Marino ha imparato dalla strada, che l’uso dell’arroganza esplicita è la strategia dei disperati. Il tono, il presupposto con cui stringi in un angolo invisibile l’interlocutore, l’occhiale a specchio che dissimula, questo serve. Avere la stazza, il modo giusto, il silenzio e la pausa di mezzo, la cattiveria solo acquattata, è già un bel po’ di quasi tutto.
Sistemati i vigili, concessa loro un’uscita torreggiante dall’auto blu e qualche passo di maniera a far intendere, Marino torna verso la macchina da cui, nel frattempo, Prisca Sangiulio è scesa, con l’aria di una che vuole concedersi tutta l’indignazione che la stringe a fior di pelle.
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Insomma Marino, hai sistemato? Hanno capito, intendo? Serve che ci parli io, o cosa?
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Lasci onorevole…lasci stare. Faccio io. Non era una cosa per lei.
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Va bene, va bene. Ma possibile, però, che tutte le volte che mi vieni a prendere in aeroporto succede sempre qualche casino? Andiamo via, dai!
Dunque, se c’è una cosa che la fa andare in bestia è quel tipo di boria raccogliticcia, quella mezz’aria da spogliarellista di borgata che Bruio pare divertirsi a mettere su. Prisca odia questo genere di ostentazioni dozzinali, per il misero che rappresentano, per quel poco che muovono.
Forse anche perché il potere, un po’, le fa paura. Di potere lei, che si considera una “tecnica” di alto profilo, di come si usi e degli scopi per cui si eserciti ne sa poco più di nulla. Sente una vibrazione imbarazzata, piuttosto, un vago misto di fascino e riprovazione che è come un grumo duro che la irrigidisce.
Prisca sospetta che questo possa essere il vero lato storto del proprio carattere. Così come le aveva fatto intendere Brusegan, il giorno della comunicazione pubblica della sua candidatura parlamentare.
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Si scioglierà, Prisca, glie l’assicuro. Faccia fare al tempo, alle relazioni, con tutti i progetti che nemmeno riesce a indovinare. Ah, il tormento della politica…lei non immagina. Comunque, non mi svenga, Prisca! Stia serena, piuttosto, si appoggi a me, per ogni questione, sempre.
Prisca s’era sentita stupida come tutte le bambole tra le mani crudeli di ogni bambina del mondo. Prisca aveva attraversato da dominatrice un numero incalcolabile di relazioni, una serie di toccata-fuga che aveva spezzato il delicato equilibrio dell’orgoglio di più di un uomo. Tutte quelle storielle pret-a-manger, in realtà, quelle poche volte in cui avvertiva un’ironia insita nel corso delle cose, le sembravano del tutto simili a porte girevoli automatizzate, in una convention di sesso eterno.
Brusegan era stato distratto dalle fisime della segreteria che continuava a disturbarlo con gli esiti imprevedibili di certe questioni delicate. Solo quel montare di fatti dell’ultima ora gli aveva impedito di arrivare a strappare troppo l’elastico del costoso perizoma di Prisca mentre per cinque minuti, tra una frase retorica e una minaccia adombrata, aveva tentato di saltargli addosso.
Lei si era sentita travolgere dalla rabbia. Le violenza delle mani di Brusegan l’avevano scioccata. Ma anche, dopotutto, con uno spessore di disperazione a confonderla ulteriormente, caricata di energie impensabili.
Questo le fu chiaro quando, quella sera a cena, lui aveva ripreso il calore del mentore, la seria considerazione del padre. Da come lei aveva lasciato ancora fare, senza più muovere muscolo, infastidita solo vagamente da tutto quel vociare del salone che le rimandava un’eco confusa, qualcosa di molto simile a quel poco che, in fondo a tutto, sentiva di valere come persona.
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