Alcuni luoghi particolari attirano a sé significati con un magnetismo naturale, sono come panorami illuminati che emergono dal corso tumultuoso del tempo, all’incrocio tra il flusso degli eventi del mondo e il tuo rigagnolo smarrito che si getta nell’invisibile.
Così, catturato da un demonio d’ermeneutica selvaggia, dipingo il mio affresco significativo nell’universo stretto di via dei Giubbonari, a Roma, e penso a quanta ragione civile e simbolica avrebbe dalla sua oggi un onesto Rattoppatore, colui al quale è intitolata la sede del fu-PCI in testa al brano.
Qui davanti una botteguccia storica frigge ancora croccanti filetti di baccalà che un tempo erano leggendari, alle spalle sta la piazza che raccoglie i gemiti secolari di chi sale al Monte dei Pegni a regalare pellicce, gioielli, valori di se stesso. Se ti spingi a sinistra per duecento metri, invece, arrivi sotto la forma scura di Giordano Bruno che sorveglia il lato nord del Campo, così nero e raccolto in sé come fu probabilmente il giorno maledetto che lo arsero vivo in loco.
Se l’andò a cercare Giordano, per fedeltà profonda alla propria natura, conquistandosi eroicamente un’edicola di infinito sulle pietre stanche della città eterna, nel medesimo luogo dove oggi il mischione post-moderno che anima il Campo, quattro secoli a valle, è diventato un covo di dimenticanze tenaci, un commercio di identità di passaggio, turistiche, superficiali, piccoloaffaristiche.
Il poco di mio che deposi qui, duecento metri prima, davanti alla sede storica del Partito Comunista e partigiano, ha a che fare con l’ingresso nel mondo della tensione adulta, dei significati solidi, quella che cominci a spendere a vent’anni nel mondo del lavoro.
Condividevamo una larga bancarella del Rateale Einaudi, io e il mio capo-area di allora, un certo Luciano Zambianchi, l’uomo dalla cultura più sconfinata che abbia mai conosciuto personalmente, una specie di genius loci della Tuttologia che continuo a incontrare per strada oggi, trent’anni e passa dopo, avendo scoperto con sommo piacere che non ci siamo persi e condividiamo anzi il pascolo nel quartiere di residenza.
E non c’è molto altro da aggiungere, salvo che questo genere di magnetismo dei luoghi è capace di generare storie infinite, come una pallamatta virtuale che echeggia in un labirinto di specchi, nel luna-park dei significati.
Così, all’uscita di questa cronaca, metto l’ombelico di un’immagine che ne contiene molte. Avevamo il problema di come indurre i passanti a fermarsi per acquistare un mucchio di cultura tutta insieme, in modalità economica indolore. Per nessun altra causa, allora, avrei sopportato lo stress di un timido che cerca di operare in un’antitesi esistenziale del genere.
Buttati, mi disse Luciano, con tanto di punto esclamativo. Io chiusi gli occhi, iperventilai un attimo e mi voltai di scatto parandomi di fronte al primo che passava. Ricordo che in quella sorta di buio impulsivo percepii un’attitudine che avrei dovuto sgrossare parecchio, durò non molto, eppure con la fortuna dei principianti sentii distintamente un barlume di arte realizzata lì, nell’improvvisazione utile alla strada, a futura memoria.
Del fatto che il tizio si fosse subito rivelato come un distinto barbone del Campo che ciabattava il mattino, uno a cui un Rattoppatore professionista sarebbe servito davvero, Luciano continua a prendermi in giro, qualche volta che ci incrociamo ancora oggi sul viale e ci verrebbe voglia di abbracciarci, anche se non credo che ci azzarderemmo mai.
Questo è uno dei tuoi racconti che fa venir voglia di rileggerlo un’altra volta. C’è calore e simpatia 🙂
grazie, che maniera carina di dire che, normalmente, sono freddo e ti sto un’oncia sul menga 😀
beh così mi fai anche ridere 😀
ah ma se fossi un professionista, ti darei la direzione del mio ufficio: Letture; esprimi bene quel sottotesto inconscio al lettore stesso di cui i dopolavoristi come me si possono tranquillamente impipare, con tutto il rispetto del caso, che sai 🙂
Non accetterei la proposta e me ne impiperei 🙂
ovvio, a tennis invece faremmo faville 🙂
😀