Ci vogliono quattro ore buone per fare i trenta km che mancano per M’Lomp, me li sono andati a cercare questi duecentoquaranta minuti di slalom intorno a enormi buche sull’asfalto e li avverto uno per uno, come fosse una resa dei conti viscerale: io, le smanie del viaggiatore, le pareti molli che mi abitano, le puzze calde dell’Africa, siamo qui a convegno e ci guardiamo un po’ storto.
Si sparava in Casamance, almeno fino a pochi mesi fa, adesso la guerriglia si é ritirata nella regione alta del fiume, sono rimasti i posti di blocco sulla strada e i turisti sono spariti dalle balle, come per incanto. Il cielo é immenso sopra, il cielo senza speranza, azzurro Africa, slavato di polveri sospese. Ci sono aironi indifferenti che zampettano nelle pozzanghere dei campi e rondini di mare e pellicani che si tuffano dall’alto per pescare quel niente che si trova.
Non é facile aprire a troppi sentimenti quaggiù, le ragioni sono complesse e hanno a che fare con gli stereotipi del viaggiatore, con la realtà che semina espressioni intraducibili sui volti delle persone. Siamo pigiati, in nove, dentro una Peugeot familiare che deve aver venduto l’anima al diavolo a giudicare dalla faccia di carogna rugginosa che fa, da come scricchiola tenebrosamente danzando un flamenco pulcioso sulle sconnessioni del nudo terreno, in un’ipotesi di carreggiata che si confonde continuamente con l’indistinto dei campi incolti.
Ho già preso tre craniate secche sul montante del finestrino di destra perchè sto rannicchiato nel posto numero 7, tra le gogne più efficaci della vettura. Davanti a me c’é una ragazza con una bimba di pochi mesi attaccata al collo, occhi stupefatti, immensi, due vortici nerissimi.
Se non contiamo i posti di blocco che spuntano ovunque, il Peugeot si ferma almeno altre 8 volte a scaricare e caricare cristiani, animisti, ceste e pacchi e ammennicoli di ogni tipo. Non si capisce bene come, ma ogni volta l’autista riesce a far scendere faticosamente tutte le tre file di passeggeri e li ricombina avanti dietro e in mezzo come se stesse giocando a un gigantesco Tetris somatico. Se penso che fra due o tre giorni devo risalire su una macchina del tempo del genere per raggiungere Bissau in Guinea, 170 km e 8 ore più a sud, mi verrebbe voglia di correre a piedi e nudo fino al più vicino Club Med e farmi dare gli arresti domiciliari definitivi.
Intanto, in una delle mani di domino umano giocata dallo chauffeur, la ragazza madre capita in mezzo alla fila alla mia sinistra, la bimba che è stata simpatica e buonissima finora comincia a piangere disperatamente, e come fai a dirgli di no, passino pure gli scossoni, ma adesso la madre ha perso l’appoggio laterale e ondeggia come una nera canna al vento, oltre a saltare in aria per le buche, a ogni piè sospinto, senza nemmeno uno straccio di appoggio laterale.
Ma andate in culo tutti! Sembra affermare con decisione urlatoria la bimba. Dopo un po’ si calma e comincia a distribuire pernacchie intorno, praticamente mi fa la doccia, io gli faccio ghiri-ghiri sotto il mento ma non serve a niente, lei ride qualche secondo, spernacchia, ride ancora, poi salta in aria e ricomincia a strillare più forte di prima. Intanto i maledetti minuti hanno fatto un certo scatto in avanti.
Forse è questo che mi tende e mi rilassa in proporzioni simili, pesanti come un ossimoro, una cosa che non saprei bene come spiegare alle circostanze del mondo da cui provengo. M’è capitato già di viaggiare con donne e anche uomini corpacciuti che, per molto meno di questo frullatore apocalittico di vecchia fabbricazione francese, hanno piantato una tale foresta di recriminazioni e lagnanze isteroidi che un locale avrebbe buon diritto di chiedersi che razza di mondo sia quello occidentale che capita quaggiù sulle rotte del turismo alternativo con i cannoni reflex chiusi in pugno.
Lungo la strada polverosa si allineano gruppi di donne drappeggiate in fantasie coloratissime, stracariche di pacchi, con quella sorta di bandana alta che gli fa cresta sul capo e che le fa somigliare a opulente donne-caramella; allungano uno stanco braccio di cortesia, sempre, ma il Peugeot non le degna che di un blando rallentamento distratto.
Siamo già in nove, Madame, siamo africani stanchi e un europeo sperso e desolato e la strada è lunga.
Questo capita tutti i giorni quaggiù, se va bene aspetti due o tre ore sotto il sole implacabile, che passi il prossimo veicolo di fortuna. Se va male, ti tieni il mal di pancia e la diarrea e le lacrime di tuo figlio che ti inzuppano la spalla, e le medicine e il medico se ne vanno nella malora di domani, e i due miseri pesci che vorresti vendere al mercato devi invece sbrigarti a mangiarli subito per evitare che puzzino troppo.
Che ore sono, signore dell’attesa, perchè è così difficile da interpretare il tempo dell’Africa, mesdames che fate gli incroci sul telaio infinito del continente nero, mesdames che portate in sul capo, in perfetto bilico, tre piani di pentole con un mucchietto di granaglie in cima senza che un solo seme vada perduto. E vi caricate la nostalgia e il silenzio, il morso dell’attesa che non finisce mai.
Ecco, non c’é un altra immagine che valga la sostanza dell’Africa come quella di un Masai piantato immobile in mezzo alla piatta savana sconfinata, distante un’eternità di strada da tutto.
Lo vedi dalla jeep parecchio prima di arrivargli vicino, minuscolo puntino rosso che sboccia lentamente in forma di uomo nero filiforme, immobile, l’enigma in persona, solo lo sguardo si muove per seguire la tua jeep che sfreccia in una specie di velocità della luce se la rapporti alla misura nuda dei suoi movimenti nell’infinito scarno ed essenziale del territorio arido.
E tu sei rapito da vergognarsi anche un po’, perchè se esistesse qualcosa di simile a un ordine naturale delle cose tu sai perfettamente che lui ne é in qualche maniera più prossimo di te. Chissà se la tua limitata prospettiva si rovescia nel suo sguardo, e come devi apparire tu marziano, se ti vede sfrecciare come una scia di luce desiderabile o se gli fai l’effetto di uno strano facocero nascosto malamente dietro l’ottica astrusa di una Nikon.
La proiezione ortogonale di un atto di pura felicità, estorto ai patimenti geo-somatici del luogo. L’incrocio di due mondi che a malapena si stringono sullo stesso pianeta, il desiderio di immergersi in vita che è altra e non t’appartiene, il lampo echeggiante che ne scaturisce.
E’ solo che bisogna saper andare, bisogna saper attendere.
è un po’ come la vita: saper andare e saper attendere dentro ai molteplici movimenti del nostro io e poi espandersi ancora senza fermarsi mai… come il lampo di un’immagine e la sua susseguente euforia di averla fermata per sempre. Come quella frase dal “Tè nel deserto” di Paul Bowles, dove si dice che la vita è legata proprio a quei piccoli momenti in cui, senza di essi, non sarebbe degna di essere vissuta.
Bellissimo questo post, complimenti, inoltre il degno corollario dei Dirtmusic è la ciliegina sulla torta (Chris Eckman è sempre un grande), perché il respiro di quelle terre trasmette sempre sgomento e fascinazione !
grazie della partecipazione, ho amato molto tè nel deserto e ho fatto due volte il sud-marocco, un incanto a cielo aperto. Lode a Eckman, ti segnalo Tamikrest, “Chatma”.
ricevuto invito in mail?
si… ti ho risposto ! grazie ancora per l’interesse e per la segnalazione (!)
Sono tornata dopo un po’ di tempo e mi sono imbattuta in questo tuo scritto molto bello e in una musica speciale.
Oh, ho colto tutto.
Eh, sì, “E’ solo che bisogna saper andare, bisogna saper attendere. ” Sì.
Un saluto speciale, Alex.
Gelsy
Riesci a far sentire le sensazioni diverse che quelle terre danno, emozioni forti.
Grazie, Alex.
ciao gelsy, bentrovata.
“Che ore sono, signore dell’attesa, perchè è così difficile da interpretare il tempo dell’Africa, mesdames…”
Bentrovato e ritrovato, Alex.
🙂
Gelsy