Come l’Anima spinga per entrare in un’immagine non è un pensiero moderno, si fantastichi piuttosto di poeti svegli sui cornicioni, di un dio che sganci il suo sterco fumante sulle cattedrali (1), di tre badanti ucraine che pestano l’erba indifferente dietro certe carrozzelle dei quartieri bene, in madreperla hi-tech, di noi che siamo ciò che di morente sopravvive ancora alla parabola novecentesca dell’Eroe, di loro che sono la nuova vita affamata dei mari che ci sopravviverà.
Ci si faccia bastare quel debole estro connettivo che ci sopravvive, la figurazione, per intenderci, che dal ragionamento logico non si esce mai, come dall’inferno dantesco.
Così succede sempre che ci manchi qualcosa e facciamo una scappata dal casalinghi cinese, non c’è alcun altro spasimo in questa azione, solo il conforto di un’ambiguità, la merce che pare incredibile, li conosci i cinesi, poi t’avvicini e ti viene un dubbio, di quando son partiti a colonizzare il mondo che i figli si rompevano in lacrime sui divieti dei genitori, non si sono più fermati e trattano oggi la nuda necessità come un dio, gli amori che sopravvivono e non possono più donarsi che ossa sporgenti, l’incapacità di vivere in un recinto se non ti chiudono bene il cancello, peggio ancora quest’assenza di bene e di male che scuote i cuori, che confonde quel semplice disturbo di linea che era l’Uomo, un tempo, quando la frequenza delle stelle pioveva ancora sulle domande, di notte.
Se sapessi come sono strani i segnali lungo il viale dritto che procede salendo dal cimitero monumentale del Verano e va a infilarsi molto lontano nel semaforo interminabile sulla rotonda di piazza Ungheria.
Cosa fanno i miei ricordi sulle tue spalle, qui, improvvisamente, perchè ho creduto d’averti già vista da qualche parte e soffro come un’esiliato che non conosce sponda, anche se il rumore che fa il tuo universo privato mi respinge, e il soggetto generico, l’uso ossessivo del -che-, la sussistenza di una realtà piegata al punto di vista del narratore, con malinconia devo dirtelo, è una chiara resa di fronte alle necessità dell’oggetto, questa roba messa così è un inferno.
Come facciamo letteralmente a riconoscerci.
Devi sapere che il Due non passa più, o non passa mai, oppure non è mai passato su quel viale dritto come una preghiera, anche se l’azienda tranviaria ne segna rigorosamente la presenza in tabella.
Io invece si, l’ho visto passare il Due, tu non ci crederai e non accetterai questa sfumatura di circostanze che sembra una favola, era una volta soltanto, venivo da Kiev e ho diritto a essere felice, tu invece, non ne sono così sicuro, mi dispiace, devi accontentarti di questa parola che appare una beffa, della prospettiva distorta del viale, dell’accumulo di ragioni storiche per cui succede quel fatto che vi spezza, che non avete più parrocchia che vi perdoni, quando arriva il momento che il bene è finito e nemmeno col male puoi più prendertela perchè ognuno stringe il suo al petto come un delicato cucciolo che sbava.
Finalmente, un giorno, un commesso cinese con la testa infilata nelle mie stesse cuffiette avrà lo stesso brivido che mi percorre oggi a piazza Ungheria, Li Chuan o come diavolo si chiama avrà questi occhi verdi e i capelli brizzolati e la camminata scazzata che mi porta, e verrà picchiato dagli stessi pensieri nel cono d’ombra delle Cinque di pomeriggio, quando la blogosfera si spopola per riversarsi in strada, rivelando la natura impiegatizia di tutta questa fantasia, ben oltre il limite in cui Sartre aveva fermato il crollo del palazzo novecentesco, un’ora stralunata come un’altra, mi duole dirlo, ma erano appena le Tre.
I poeti e le cliniche svizzere, le badanti ucraine, la tabella nuova del Due metafisico, come l’assolo di Michael Brecker che ascolto da trent’anni sia la migliore uscita dal mondo che riesca a immaginare, Chuan Li, adesso che siamo tutti The Others e tu sei libero di sognarti l’affare che credi, noi forse di ricominciare, senza l’eterno Brecker che nel frattempo ha tolto il disturbo, se solo si potesse staccare lo sguardo da questo viale piatto che sembrano duecento metri e invece son chilometri, dal cimitero a qui.
nota (1) – da autobiografia, il fondamento del tormento e del paradigma junghiano è fatto risalire a una sorta di terrificante visione lucida che Jung ebbe da ragazzino: Dio che evacuava dall’alto sulla cattedrale.
Oggi pomeriggio sono più libera e ti leggo, promesso, ma non potevo vedere il nome “Steps” senza dire “Yeah!”: grandiosi 🙂
Oh t’aspetto. C’è solo una cosa più grande degli Steps, il sax di Mike Brecker che amo come me stesso, per certi versi 🙂
Bello affascinante, commovente. Adoro i bravi sassofonisti, M. Brecker era uno di questi, le note che escono dal sassofono sono spesso fiumi di parole (ma i Jalisse non c’entrano ;-))
Uao grazie, è un invito a nozze, l’assolo di Brecker che ascolto dall’82 era in questa canzone. Nel 2007 lui era già malato, fu l’anno che presi il biglietto degli Steps Ahead per andare a vedere LUI, soprattutto e non ce la feci lo stesso 😦 era verso la fine ed era rimasto a casa, lo sostituiva Bill Evans.
Penso di avere a casa tutti i suoi album, a dire il vero sono rimasti i cd perchè tutto è stato trasferito lì,purtroppo. A casa nostra c’è chi suona il sax, e anche bene e Brecker è sempre stato visto come dio in terra, ma questa è una cosa che capisco ;-).
casa fortunata 🙂