Pensiamo di essere unici, indivisibili, un occhio posto al centro della fronte, lo sguardo come un fascio di luce che spazza le strade censendo i rifiuti insolubili, quelle cartacce del reale che volano per terra dopo che l’abbiamo svolto e consumato con lingua avida, con i buoni propositi focalizzati del nostro ego supremo che governa come governano gli illuminati, senza ombra di peccato né margine per evadere.
I matti non pensano di essere, non nella forma baciata che esprimiamo noi, piuttosto erompono nella vita di tanti istanti isolati, zampillano tra i sassi umani che dobbiamo sembrargli, su un tram che corre in discesa verso un capolinea periferico. I corpi dei pendolari si aggrappano ai sostegni, appaiono fermi, alla ricerca di un equilibrio che sembra tirarli nel vuoto a giugno, quando gli squilibrati cominciano a parlare nei grandi saloni svuotati dei mezzi pubblici, e tutti provano una forma di nostalgia per il ronzio sottile dei condizionatori che s’immagina funzionassero a beneficio di tutti, non più di una decina di anni dietro.
Fa un caldo che si muore, e tante sono le morti civili che si prospettano tra una fermata e l’altra. Gli I-Phone trillano come Tamagotchi deliranti che rifiutano di trapassare. Sono più attenti quelli che ascoltano le telefonate degli altri dal fondo del proprio isolamento che i telefonatori stessi, così presi e disposti allo spettacolo da dimenticare che la vita dovrebbe avere una forma di senso compiuto, o almeno un limite di coscienza cui tendere, idealmente.
Così, la giovane donna aggrappata al piercing che le incorona il viso scarno mi racconta senza che io voglia, in una forma di romanesco bastardo, televisivamente agito, il codice della pena che fa l’amore disforico dei moderni, gli spiaggiati della grande onda emotiva che ci sta sradicando dal corpo del mondo come lo conoscevamo, fino a due fermate fa. Ascolto il mio post-Virgilio carico di piercing ondeggianti raccontare ad un’amica di onde radio la storia di Fabio che la chiama, a un’ora impensabile della sera, per accusarla di non fargli mai una telefonata né un sms, almeno, per augurargli la buonanotte.
Lei è sconvolta, non ci può credere, con Fabio ha fatto “solo un viaggio in Francia” di qualche giorno, che cosa si crede lui, che basti sfiorarle un braccio e dirle che ha una bella pelle morbida per portarsela a letto. Così gli è sbottata: Ma che sei scemo, a me non mi piaci nemmeno anzi guarda, mi fai proprio schifo, mò te l’ho detto. E lui ha concluso: Stai in campana bella, che io pure se non ti sfioro, ti posso staccare la testa lo stesso.
Dunque lei lo ritiene un pazzo, un razzista, uno di quelli Estermi Destri, proprio così lo scolpisce nel logos, uno che se insiste lei gli fa scrivere una lettera dalla zio avvocato. E nel nominare la divinità domestica, nell’osservare la luce folle che la rianima un istante, si capisce quanto la vita intera di questa vecchia ragazza prosperi e tragga spirito dalla forma paranoica di protezione legale da cui si sente circondata ed omaggiata.
Il tram fa una di quelle frenate spaccamondo in cui ognuno perde il filo del proprio monologo rappresentativo. Le porte si aprono ed entra il rumore dell’asfalto ferroso, sale un tizio malmesso che porta due bustoni e un megafono al posto della lingua. Diresti che è un matto vero, finalmente, di quelli di un altra epoca che ce l’hanno con tutti.
Insieme a lui entrano il papa, i massoni, gli ebrei che governano il Vaticano, gli ultimi immigrati che occupano stazione Tiburtina, gli improperi con cui tenta idealmente di mandare questa folla indistinta di residui a dormire o a fare in culo, alternativamente, a piazza San Pietro.
Intorno a lui si fa un vuoto pneumatico, le facce virano sul conforto lucido dei finestrini, sul grande sogno stabilizzatore del traffico romano, lui insiste con gli scandali dell’azienda dei trasporti pubblici, comincia a moderare il tono e in breve riesce a risocializzarsi un po’, tanto che ora, ad ascoltarlo bene, stai per dargli ragione su parecchi punti.
Lui nel frattempo è trasmutato nel Floris degli straccioni, con una certa abilità che presuppone un’infinità di solitudine svolta davanti ai talk-show della sera, argomenta così bene che un paio di signore “normali” cominciano a rilanciargli qualche mossa di assenso partecipato.
E’ uno stranissimo momento di confusione tra mondi, il tram s’avvicina a fine corsa e si ha tutti l’impressione che gli ultimi dieci minuti di spettacolo cui si è assistito vadano sanciti, o firmati, o benedetti da qualche forma di finale allusivo, in una maniera che nessuno sa, ancora.
Ci torna in soccorso allora quell’ombra che avevo nella coda dell’occhio da un po’, esce fuori una matta vera e va a mettersi vicino al matto risocializzato, che intanto è passato a svolgere il dossier mafia dei rifiuti. Lei sta per scendere, così prima di sparire per sempre si volta verso il suo compagno esistenziale e gli dice: Sai una cosa? Ci sono pure quelli che sfilano, domani c’è la manifestazione degli Omosessi, in centro.
Lei se ne va contenta, a buon vedere. Il tram freme di un’ultima vibrazione inquieta, inconsapevole per lo più. S’è aperta improvvisamente una finestra sporca e il panorama è balzato sulle ginocchia di ciascuno: esiste un mondo nel nostro mondo in cui qualcuno ci osserva come ridicolaggini che deambulano, in un canone piallato dalle buone maniere e dai buoni sentimenti che commerciamo in singole dosi, preconfezionate.
Una delle signore “normali” che chiacchieravano col risocializzato, intanto, fa uno scatto. Lui sta svolgendo il filone degli Omosessi, da un punto di vista retoricamente elegante e alternativo. Dice che fanno bene quelli, che stanno insieme senza sposarsi così non pagano le tasse, le tasse, ecco il motivo, ma perchè uno dovrebbe perdere tempo a sposarsi oggi, con tutto quello che lo stato gli ruba di tasse.
Con il dispiacere degli appassionati, devo scendere anch’io alla prossima. Faccio appena in tempo a cogliere lo sviluppo ultimo della grande lezione a cui ho assistito: la signora “normale” pare essere stata punta nel vivo dei propri valori fondanti, tutto sto frullare improvviso di omosessi e attacchi all’istituto matrimoniale l’hanno indisposta al punto che ha cominciato a parlare in romanesco brutto e a fulminare il matto risocializzato con lo sguardo. E’ una normale signora di periferia questa, che vi credete, ci mette niente a venire alle mani con chiunque.
questo tuo pezzo mi ha fatto venire in mente una bella poesia di Les Murray intitolata: “Un arcobaleno perfettamente normale”, perché è proprio così, la vita sembra girare intorno all’idea che la “normalità” sia solamente un concetto di maggioranza, invece è proprio l’opposto, in una quotidianità dove la moltitudine ci ha fatto conoscere nuove dimensioni, nuove realtà, anche loro in sintonia con tutto ciò che ci circonda. Siamo noi che dobbiamo ampliare gli orizzonti dentro le numerose variazioni che ora offrono tutti i colori del mondo, perché se la luce pare di un’unica tonalità, dentro se stessa nasconde un arcobaleno dalle mille sfumature; basta solo rifletterla, quel tanto che basta…
ampliare gli orizzonti, ben detto, sul filo del “normale” siamo piuttosto impreparati, mediamente.