Atlantic City Spleen

at1Non so più che fare, che dire, sarebbe utile che fossimo pioggia oltre i vetri, la lucentezza imprecisa delle strade viste da quassù. Ci domandiamo chi sia stato a prendere l’altro, dopotutto, nello svanire di una notte dimentichiamo facilmente come si fa a dire il vero, ed è per questo che ci tratteniamo nelle carezze a lungo, usando la forma delle mani di altri.

Qualcosa come ieri pomeriggio ad Atlantic City, appena scesi alla fermata del Greyhound, col manico rotto di una borsa che mi aiuti a portare verso il cambiavalute. Cambiamo e giochiamo, andiamo a cogliere il suono del tempo che capitombola da faville di Slot.

Strano però come ce l’eravamo immaginato diverso. Butti dentro mezzo dollaro alato, tiri la leva e scorrono le ciliegie, le banane, le prugne persino, e poi le monete chiassose. Non è il valore nominale, è solo che ti basta l’estasi del rumore che fanno. A diciotto anni si giura sempre un eterno incomprensibile, lo leggo nel buio che si agita in fondo ai tuoi occhi e so che non ce la caveremo a buon mercato.

Mangiamo pesante, aspettiamo solo che ci risalga il bolo, che s’inacidisca ben bene graffiandoci la gola fino al punto da produrre un conato secco, fuori da ogni volontà. Ed eccolo che si annuncia. Usciamo gonfiati del puzzo di frittura di un Mac dove abbiamo velocemente sparecchiato una Continental Breakfast di pochi centesimi. Lasciamo nella trappola olfattiva un padre molto triste con un figlio spento al guinzaglio che alle 10:00 AM si ingozza già di pollo fritto e patatine e Coca ghiacciata.

Lasciamo pure una tua teoria di frasi smangiucchiate, in difesa d’indifendibili ragioni. Le bollicine di saliva che ti scoppiettano all’angolo del labbro mentre schiacci gli occhi per ribadire. Vorrei dire niente io, invece monto sulla tua frase agitando la lingua che sa di cappuccino di plastica, con un baffo di schiuma chimica che mi risale nel naso. Traduco con voce alterata: andiamo che è tardi.

Giriamo compressi sotto l’oscena torre del Caesar’s Palace. Cesare stesso, ridicolo cartone gigante, col gesto aulico ci indica un’improbabile uscita verso il retropalco della spiaggia. Sento il tuo occhio, come un volume di gesto che mi viene a colpire sulla schiena mentre mi giro per andare in bagno, mentre mi soffio il naso, mentre compro inutili cartoline sorbendomi in vetrina tutto il riflesso inconcepibile di Atlantic City, USA.

E mi appare sacrilego, voltarsi verso una cartaccia di skyline che sottolinea il mare di piombo fuso. Perché siamo capitati qui. Tornare a girarsi di scatto e sbattere lo sguardo sui palazzi che spingono le erezioni fino a settantesimi ottantesimi piani, buoni solo per poveracci incerti: se volare giù liberi come l’aquila di Sam, se tentare un altro giro di sfortuna nel girone dannato dei Gamblers.

Nel salone delle Slot tu non giochi nemmeno un quarto di dollaro.

Sparisci senza che me ne renda bene conto.

Riappari gonfia di pioggia, un salto a prendere le sigarette ti ha stampato addosso una trasparenza di vestiti.

Ti vedo il seno come in una svenduta lontananza d’acquarello, il rosa e il prugna del capezzolo esposti volgarmente sul bancone del corpo che trema.

Ammicco ora verso i tavoli dove scorrono le fiches. Sto per alzarmi a cambiare i dollari. Scatto, vado a sbattere d’apposita rabbia contro un intero esercito di grassoni, sudati a lucido, che presidiano l’entrata girevole.

Mi fermo e osservo.

Ammicca la Croupier, stupida maschera di coniglietta, sullo scivolo verde del Baccarà.

Ammiccano le luci, le gambe, le tette, gli sguardi precipitati tra le cose. Ammiccano i tavoli, verde felpato silenzioso, che mangiano soldi e gesti e attese e lamenti.

Penso che a questo maledetto gioco due figure vestite fanno sempre uno zero di risultato.

Sputiamo le olive e teniamoci gli stecchini, agli angoli delle labbra.

Diciamo che fra tre giorni ci riaccompagneremo leggeri in aeroporto.

Calcoliamo tutte le tratte e i tempi perché tu possa tornare a casa con le coincidenze giuste prima di sera.

Facciamo finalmente le cose che si devono perchè le anime tornino al giusto riposo di noi.

2 risposte a “Atlantic City Spleen

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