L’Undicesima Luna di Settembre

P1090547Sono dieci anni corsi via, con tutta la banalità delle epoche moderne che ti passano sopra senza lasciare memoria, ti svegli un giorno e sei già due futuri oltre. Era il 2004 quando scrivemmo questo pezzo teso e sanguigno, ci chiamavamo Riots, io ero un impiegato da IT technology in fuga da un falso ruolo, Umberto non so bene, eravamo comunque tutti spaventati dalle Torri, ancora; oggi, lo sa dio di cosa occorre aver timore. Scrivemmo questo pezzo sul luogo di lavoro tra Roma e Milano, a quattro mani, facendo confliggere le storie sporche dei nostri alter ego, il suo Celerino, il mio Terrorista, e venne fuori il titolo: Mezzosangue Perduto. Non voglio ri-editare niente, con tutti i rischi del caso.

*** ***

Ricordo i moli e le macchie di catrame, i vicoli pieni di odore di piscio stantio e mare, gli sguardi della gente e quelle brusche montagne affacciate sulla ferrovia.

C’ero il giorno prima, in strada, e la notte dopo in quegli stanzoni mal verniciati, la bava alla bocca, io e gli schizzi di rosso sulle piastrelle rovinate, a un certo punto soli.

Ho respirato l’odio, schivato sassate, picchiato di punta il manganello sui denti di un uomo in pezzi, le orbite al cielo, ho sputato in faccia, sono scappato, abbiamo attaccato. Ho tossito, tossito, tossito. Ho avuto caldo.

Caldo come non avete una cazzo di idea, caldo che devi bere quattro, cinque litri al giorno, caldo che te la fai addosso e resti bagnato fino a sera, che rompere la fila vuol dire non camminare più e figuriamoci tirar fuori l’uccello.

Me la ricordo bene quella piazza, quel giorno di furia.

L’attimo prima che ero con loro dentro quel grosso bisonte fiat pitturato di blu, che chissà com’è ti senti invincibile, ti dicono che è giusto così, che tu rappresenti lo stato, la patria.

L’attimo dopo e tutto quel sangue.

Tutto quel sangue che bolliva sul selciato, negli occhi la sua testa volata all’indietro, un lampo arancione, l’urlo dei compagni intrappolati contro a quel muro e quel tuono, quel maledetto tuono ovattato, racchiuso tra filari di biancheria stesa, filtrato di paura e voglia di spogliarsi nudo e mettersi a urlare.

E ti ho visto, immobile in piedi, le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti, stretti attorno ai due sampietrini roventi. La felpa nera strappata, gli anfibi slacciati, una grossa “A” di vernice e un cerchio a racchiudere la schiena. Di rosso, di paura.

Ricordo lo sguardo, puntato sullo scudo, sul casco, lo sguardo del giudice, della giuria, del carnefice. Ti ho visto accarezzare il corpo steso di fresco, il bisonte blu svanito chissà dove, segni di gomma nera su quelle piccole ossa spezzate e tutta l’aria sparita nel cielo di luglio, urlata via, tra lacrime e spari lontani.

E mi rimetto a correre. Anche se adesso il freddo mi trapassa gli occhi come uno spillo infuocato e una piccola pioggia ghiacciata accarezza l’unica città delle pietre, ti ho visto dietro la prima bandiera del corteo e tu hai visto me.

Come un odore, come un sapore, il ricordo di quella sete e del mare e della piazza.

Sei scappato, e io dietro, nel gelo, nelle urla, per sapere.

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C’è un momento preciso, subito dopo che è partito il colpo, subito prima che la testa dello stronzo venga proiettata indietro o che la vetrina si apra in una ragnatela di frammenti velenosi, in cui senti che la morsa dell’angoscia si allenta e il mondo ti si avvicina e ti comprende e tu fai parte di lui come un figlio a pieno diritto, non come un numero qualsiasi macinato in automatico da una odiosa calcolatrice.

Proprio quell’infinitesimale istante, voglio dire, che prima sei solo un fascio di nervi fuori di te e dopo c’è solo il vuoto ad accoglierti e la sensazione che è stato tutto e troppo maledettamente veloce, che la tua spaventosa molla riprenderà a flettersi dentro, lenta e inesorabile, fino al prossimo punto di rottura.

Tutte le volte che mi sono chiesto un perché, tutte le volte che ho dato la caccia alle mosche, tutte le volte che mi sono alzato alle assemblee urlando come un ossesso, tutte le volte che m’hanno guardato come un mezzosangue da lasciar andare solitario per i suoi vicoli della malora. Perché.

Dice Segunda, la mia negra del Mozambico, che se sono ancora vivo e posso correre e urlare e bastonare o nascondermi liberamente come oggi dentro una folla, devo dire grazie ai perché che mi ossessionano.

In tanti sono finiti male, in tanti accecati da una dottrina e dal calore un po’ vigliacco del gruppo, in tanti sono finiti con la testa spaccata o con l’anima falciata dalle sbarre di una lurida gabbia.

C’è più angoscia, c’è più vita nella faccia spaventata del celerino che t’ha spaccato la fronte, il naso e due costole. Questo diceva la negra il giorno che l’ho incontrata, lei sbucata per caso da un non so dove, io per terra in una pozza di sangue a bestemmiare contro tutti, compresi quelli delle cellule di base che erano schizzati via lasciandomi da solo in retroguardia.

Che cazzo dici, stronza! Le mie 4 parole per fare conoscenza.

Sapete com’è, compagni e celeri del mio uccello, io sono ancora vivo. Io non credo più a niente, io combatto ogni giorno a mani nude contro l’angoscia che mi serra la gola e il sangue ce l’ho tutto in testa, il mio, quello degli amici, quello che sgronda dalle divise.

Sono stanco di riunirmi per recitare le giaculatorie collettive contro gli ordini precostituiti, contro iddio politico, le mammane nazionalpopolari, i padri sociali stupratori.

Voi le marionette, loro le dita che vi si agitano in culo, senza che nulla cambi.
Perciò oggi sono sceso in piazza da solo, oggi è come se vi odiassi tutti, senza distinzioni. E come vorrei, come vorrei che tutti poteste sentire il rumore che fa la molla, il cigolio tremendo che suona avvicinandosi pericolosamente al punto di rottura.

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Il fatto è che a volte bisogna vederle, le cose, per crederci. Che quelli là, al reggimento, mica te le spiegano come va in strada.

Certo, è facile parlare di tattiche antisommossa davanti ad una lavagna, quando però gli anfibi diventano pesanti e il fiato sembra fatto di miele andato a male, allora la testolina comincia a girare.

I ricordi vengono su che è un piacere, le facce tornano di mattina, verso le sette, quando è già un’ora che ti spacchi i coglioni in mezzo a un viale vuoto, provando le marce e picchiando i bastoni sugli scudi.

La tua faccia poi.

Che adesso provi a nasconderti tra le file compatte di tuoi simili, bandiere a colori, tute bianche, tute nere, caschi e pietre. La tua sputa acido da tutte le parti, la stessa di quel ragazzo, quel giorno.

Lo capisci allora? Perché sono qui a correrti dietro, perché ho bisogno di beccarti con un bel colpo ai reni, l’impugnatura verso l’alto, capisci perché ho bisogno di vederti steso con gli occhi al cielo?

Io devo farti domande, tante domande. E ti prendo, cazzo se ti prendo.

Il vento poi, quello si è messo in testa di ricacciarmi indietro, una specie di Tramontana fitta fitta che batte sulla visiera in plexiglas e mi afferra le spalle come solo il babbo riusciva a fare, appena un attimo prima del ceffone definitivo.

Li senti? Li senti i sovrintendenti coi megafoni che ragliano comandi alla carica compatta? Forse non ti rendi conto, mentre t’infili tra una macchina e l’altra per sbirciarmi attraverso i parabrezza scheggiati dalle mattonate, ma il tuo odore mi cola già nello stomaco e la furia di questo marcio milione e mezzo al mese mi riempie i polmoni.

Allora mollo lo scudo e mi metto a correre senza pensare, le gambe allenate che pompano sangue e brandelli di voce strozzata, le braccia che bilanciano lunghe falcate, corro come mai.

E sono spallate e botte, tra gli insulti della gente, le aste delle bandiere, le uova che volano e quell’odore rancido di vomito, una roba umida e puzzolente che chiamano gas CS e sembra la merda del diavolo in persona.
Spallate, spintoni, sputi e botte. Che appena ti metto sulle spalle i guanti, appena……

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Alla fine del vicolo c’è un muro altissimo (non abbandonare la folla, mai), venivo a spruzzarci la vernice sopra insieme alla negra, di notte, dopo averla amata fino a ridurci nello spazio di un solo odore, come fosse ogni volta l’ultimo giorno (uccidi ogni singola emozione, osserva sempre ogni movimento che ti accade).

Arrivo in fondo col fiato in pezzi e il cuore che squilla nelle tempie, non so che fare, non so che fare, l’angoscia mi svuota la testa, mi slaccio la Kefiah dal muso e comincio a urlare (copriti il volto più che puoi, sentiti un’ombra leggera che rimbalza veloce sui muri).

Le mani sulle spalle mi spezzerebbero le clavicole se non riuscissi a girarmi velocemente, lui sta acquattato dentro un casco e ha il fiatone, puzza come l’inferno, trema come la voce della negra che mi cavalca di notte spezzandomi (odia, con ogni goccia di sudore che ti rimane).

C’è un attimo in cui le mie urla riescono a fargli allentare la presa, pensa un po’, solo le urla, che le mani mi pendono inerti lungo i fianchi e non sono sicuro affatto di riuscire a riprenderle (sii veloce e sporco come una bestemmia).

Non riesco a vedergli gli occhi, non riesco, fino a quando succede una di quelle cose incredibili che non t’aspetteresti mai: lui mi lascia andare quasi dolcemente e porta le mani al capo, con due gesti semplici si slaccia il sottomento e getta via il casco.

Restiamo fermi a guardarci un po’ (quando deciderai l’ora, dovrai essere in mezzo alla folla più accalcata, meglio se con molte macchine e oggetti di metallo intorno, dovrai concentrarti un attimo, prendere il vuoto dentro e gettarlo fuori, solo questo).

Sei italiano? Mi domanda, guardandomi negli occhi e subito dopo al suolo, come se avesse qualcosa d’indecente da farsi perdonare.

Un brutto sorriso, senza che io lo voglia, comincia a storpiarmi il volto. Sono andato via dalla folla perchè all’ultimo ho desiderato starmene solo. Qualcosa dentro di me pensa che varrebbe quasi la pena mettersi a sedere sul marciapiede fianco a fianco con quest’uomo, dividersi una sigaretta, grugnire due stronzate di conforto come fanno quelli che si sono persi ma ancora non lo sanno.

(Il mondo è cambiato dalla sera alla mattina, abbiamo portato fuori la guerra che avete dentro, non c’è più bisogno di una fede, come fai a non capirlo, proprio tu, povero mezzosangue perduto delle mie viscere scure).

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Amo la negra che ha dato un senso a quest’angoscia che rifiuta di placarsi.
Odio la negra che m’ha mostrato come tutte le strade storte finiscano contro un muro.

Luce fortissima, intollerabile.

Buio pesto.

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(ANSA) – ROMA, 11 GEN – Cinque minuti fa, durante la manifestazione nazionale contro il terrorismo e a favore del ritiro delle truppe straniere dall’Iraq, è stata udita una forte esplosione proveniente da un vicolo del centro storico della capitale. Testimoni che passavano a circa cento metri di distanza dal luogo dell’accaduto riportano di “aver udito una deflagrazione fortissima e subito dopo di essere stati buttati a terra dal violento spostamento d’aria”. Altri testimoni affermano di aver visto un agente di pubblica sicurezza in divisa antisommossa inseguire un dimostrante all’interno del vicolo, appena prima dell’esplosione. Tutto il quartiere intorno al luogo dell’accaduto è stato subito isolato da uno stretto cordone di mezzi dei Vigili del fuoco, Polizia e Carabinieri. Non è consentito a nessuno di avvicinarsi. La questura di Roma ha annunciato un comunicato ufficiale e una conferenza stampa entro le prossime due ore.

*** RiOTs is Alex Gabriele and Ubi Bertani

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