Passano soffioni di giornate lunghe e calde come una ridicola pipì nei pantaloni. Quel che batte presso la porta di casa sono zingari, zanzare, cinesi, la monnezza che si decompone, le erbacce, il piscio dei cani, i testimoni di Geova, le gite delle pentole in buca, i residui insolubili di una vita liquida che non vengono mai via. Cartoline invece non ne arrivano più. La ricchezza della gente si svuota e di pari passo la consistenza del tempo percepito, l’attitudine a sognarsi altrove, la civiltà residua. Tre settimane al mare garantivano qualche giorno di sana lontananza da tutto, una volta. Si gira in città e si visita la nuova inconsistenza eterea della settimana-premio che è rimasta da spendere. Nel breve raggio concesso i pensieri fanno giri incredibili e poi ritornano subito, o a minuti o al massimo in giornata, come le mosche sulla cotenna di un bufalo stanco: i figli vanno a Maccarese, all’Aquapark, a mostrare il Selfie dritto sullo sfondo di Sharm; i padri rientrano a marcire nelle ombre domestiche dei balconi, con un occhio tengono l’odio sulla strada, con l’altro non perdono di vista il ventilatore, le sigarette e oltre lo sguardo le tende tirate di un’Ikea platonica, quel bagliore di ragazza che magari una volta lei fu, dato il mortal respiro, una che oggi gli si pianta nelle orecchie comunque, come un vecchio chiodo fisso che fa rumore sconveniente fino al centro del marciapiede sotto casa.