In quello sporco ultimo miglio, prima di uscire sul centro storico dalla congestione di Porta Maggiore, Il Cammino del Prenestino stringe il viandante all’osso precipitando dal cielo, oltre che venendo su dalla terra. Qui le funzioni fisiologiche si alterano un po’, si avanza comunque circospetti nel punto più brutto dell’Urbe, un angolo che sembra progettato da un urbanista demoniaco, nel buio di una strettoia tra alti palazzi sporchi e un triplice ramo di tangenziale che s’incrocia alto tra le nuvole.
Tu che passi quasi ogni giorno, camminatore urbano in cerca di prodigi, sai che nelle more di questi 500 metri qualcosa d’insolito avverrà, basta già guardare gli improbabili negozi che capitano a caso sul marciapiede dissestato: un parrucchiere indiano deserto che fete di vecchio masala e spara Bollywood a pompa, una vasta surreale esposizione di vecchie macchine da cucire Brother, un negoziaccio di manichini nudi che mostra oggetti maschili glabri col pacco accennato, un altro di parrucche e protesi che dice di suonare, per farsi aprire.
Così cammini e aspetti l’ispirazione, intanto pensi a quanta vita resiste e si stratifica sulle mura cadenti di questo quartiere sfigato, strati su strati di intonaco scrostato e pubblicità e scritte di adolescenti, segni dei Writers, passaggi dei Taggers e talvolta l’opera di qualche Painter illuminato che rasenta l’opera d’arte.
Così alla fine, incerto se scattare ancora o rimettere nel tascapane la fida Lumix digitale, incontri lei, l’insegnamento del cammino di oggi che vale una mezza Compostela, se sei disposto a bere verità paradossali da ogni fonte. Lei è una matta urbana di mezza età con begli occhi azzurri, assertiva, messa su piuttosto bene, guarda a destra e sinistra e dice una cosa a ognuno che incontra, pur andando molto spedita giù dal marciapiede, molto di fretta nella cunetta scivolosa.
Passiamo davanti a un gommista che proprio in quel momento finisce un lavoro e si rialza esclamando:
“Bene!”
“No, male!” Ribatte invece lei.
Lui rimane immobile, colpito, interrogativo alla mr. Bean, la guarda semplicemente passare. E lei, indicando l’ombrello che porta al braccio:
“Scommetti che se ti infilo questo nel culo fa male?!?”
Allungo il passo e mi metto a seguirla affascinato, cercando di captare altri segnali.
Nel frattempo lei supera di gran carriera un tipo che camminando mangia una pizzetta. Gli dice quello che gli deve dire, poi a un certo punto si gira, m’aspetta un attimo e mi fa:
“E allora che vuol dire? Io ce n’ho migliaia di fotografie, migliaia, capito? Ma mica me ne vado in giro con la macchinetta in mano!”
Io, letteralmente, non trovo subito una battuta utile a ricambiare. Così, lei che va di fretta, mi guarda un po’ delusa e continua:
“Perchè io ti conosco a te. A te piacciono le quattordicenni, si vede subito.”
Al punto, stavolta, posso opporre fondati argomenti:
“Veramente no, scusa, a me son sempre piaciute le 40enni, da quand’ero ragazzino.”
Ma lei, che non tiene tempo da perdere, non si fa fregare affatto:
“Eh certo, si vede bene, ti conosco io a te. Ma guarda che tanto io non ci sto!”
E fila via decisa verso la stazione, scattante e incrollabile come una vera matta del Prenestino.
:D:D:D
Hai ragione, è forse il posto più brutto di Roma, ma anche uno dei pìù surreali e affascinanti …..e raccontato così è perfetto
ho sbagliato a non seguirla, ne aveva da insegnare, a occhio e croce..
C’ero appena passata. Che flash, romaest
🙂
simpatico il gioco di specchi (involontario?) dell’uomo che scatta foto come un matto e della donna che scatta come una vera matta.
m’è capitato di riincontrarla, chiaro che siamo specchi.