Well I know it wasn’t you who held me down, heaven knows it wasn’t you who set me free, so often times it happens that we live our lives in chains and we never even know we have the key; But me, I’m already gone
And I’m feelin’ strong
I will sing this vict’ry song
‘Cause I’m already gone
Yes, I’m already gone
And I’m feelin’ strong
I will sing this vict’ry song
Così, i grandi padri se ne vanno senza rumore, la vita esce di scena lasciando una porta socchiusa. Ci si sente stupidi e vuoti a cercare di dominare il dopo, il silenzio si mette a cantare e i ricordi si affollano come un branco di cani selvaggi delle praterie. Praterie, cani e strade, strade soprattutto, l’incessante scorrere su gomma del tempo-vita contro un gigantesco fondale di macchine in corsa e locali e luci da motel e speroni di montagne, il lungo nastro mitopoietico della highway nord-americana dove sono avvenuti i sogni più inarrivabili di una generazione.
In questo quadro poco astratto vive l’immaginario musicale degli Eagles, in una confezione di rock semplice che ha sempre richiamato il suono popolare del violino e del banjo, in un sentimento che vira spesso al malinconico; loro figli di chitarre che addolciscono come intorno a un fuoco di stanchezza una sera, tu e una triste, sformata cameriera notturna che fate alba in un locale malmesso sull’autostrada e non potete far altro che starci.
Avevo dodici anni quando Glenn Frey mi raggiunse la prima volta, erano da poco passate le dodici e mezza e io consumavo il pranzo precoce e strozzato che spettava a chi subiva i doppi turni scolastici, una delle sensazioni più disturbanti che la mia coscienza neonata riuscisse a sopportare.
A quei tempi, a quell’ora, andava in onda l’Hit Parade alla radio, One of this Nights degli Eagles graffiava con l’incipit di chitarra un po’ distorta e il basso che batteva il contrappunto profondo. Dalla cima della classifica quella musica mi scendeva dentro insieme agli spaghetti e al pensiero ansioso di mettersi in cammino velocemente perchè si era sempre in ritardo a quell’ora stramba per cominciare ogni cosa.
Mi infilavo la cartella e me ne andavo da solo a piedi, quei dieci minuti di camminata erano pieni dei ritornelli che One of this Nights mi spingeva dentro a forza, e io risorgevo un po’ dalla depressione scolastica dei pomeriggi, quando d’inverno la luce calava oltre la finestra prima che si potesse pensare di avere ogni santo diritto di tornarsene a casa.
Ma c’era molto altro, nel perfetto stile cinematografico che gli era connaturato, gli Eagles di Glenn Frey suggerivano l’esistenza di un Altrove magico, morbido, pulsante, di donne e sogni diversi dalla grigia realtà subita. Le aquile già volavano prima che io riuscissi ad alzare la testa verso i prodigi che cominciavano a solcare il cielo come scie psichedeliche, così li ho portati sempre in tasca e in cuffia e nelle compilation fino a oggi.
Adesso addio Glenn, non smettere mai di concepire musica lassù, che il Celeste possa essere il tuo nuovo infinito Producer.
che brutto l’inizio di quest’anno… se va avanti così…
tremendo il 2016, non se ne vanno nomi musicisti “qualsiasi” ma veri rappresentanti di epoche, se si volesse fare gli ottimisti a oltranza si direbbe che l’andarsene serve molto a chi resta, come stimolo per non dare nulla per scontato, e riprendere le vecchie canzoni dove vivono ancora i noi che le hanno amate.
beh, dai, un buon gruppo sì, ma non di quelli che hanno fatto la storia della musica o ti hanno cambiato la vita. vuoi mettere gli Stooges, Barrett, Captain Beefheart, i Velvet Underground, i Red Crayola, Hendrix, Zappa e così via…
: )
figurati, ne posso aggiungere altri 10, ma non era una gara a chi ce l’ha più lungo doc! 🙂
ti ho assegnato il premio “Dardos”… complimenti !!!
https://antoniobianchetti.wordpress.com/2016/02/06/parole-in-liberta-nellinfinito-mondo-dei-blogger/#more-7868